Capitolo 15
Puzza di Guai
Partiva
sempre da un innaturale stato di calma.
Spalle
rilassate, respiro lieve, sguardo tranquillo. A volte inclinava un poco la
testa; altre, catturava con le labbra una ciocca di capelli.
Si
trattava di centesimi di secondo, ma erano momenti da fotografia, quelli.
Geometricamente perfetti.
E
dal nulla una scintilla, le fiamme, il fumo, pezzi di vetro e cemento
scaraventati in tutte le direzioni, il boato assordante della compressione
dell’aria.
«Come
sarebbe a dire?!»
Ogni
volta era come un’esplosione: improvvisa, violenta, spaventosa... affascinante.
N
si morse un labbro, sentendo i battiti del suo cuore accelerare.
«Che
siamo stati sfrattati.» ripeté Lee, sebbene avesse l’aria di non crederci
neanche lui.
«Credo
che quello fosse l’unico punto chiaro della questione.» disse N, spostando di
proposito l’attenzione su di lui.
«Esatto.»
Kim gli saettò davanti e strappò la lettera dalle mani di Lee. N allungò il
collo per sbirciarla, ma l’angolazione non era delle migliori. Vide invece
benissimo il leggero tremore che prese quasi impercettibilmente a scuotere le
mani di Kim, mentre il suo petto iniziava ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più
in fretta. Il collo della ragazza si tese, le sue labbra si strinsero, i suoi
occhi si fecero grandi mentre scorrevano la lettera riga per riga. «Gli
inquilini si sono resi morosi...» lesse, a fior di labbra. «Obbligo di
abbandonare lo stabile entro ventiquattr’ore...»
N deglutì a forza. Se avesse trovato una bomba
ad orologeria sul punto di esplodere, avrebbe provato lo stesso, insano
desiderio di toccarla?
«Beh,
basterà pagare l’affitto e si sistemerà tutto, no?» disse, cercando di
alleggerire l’aria pesante che si era venuta a creare. «Quanto avete in
cassaforte?»
Lo
sguardo vacuo e un po’ triste che i ragazzi si scambiarono gli fece capire di
aver fatto la domanda sbagliata.
«Kim,
N crede che abbiamo una cassaforte.»
«Non
so se ridere o piangere.»
«Ci
costerebbe di più una cassaforte che non quello che potremmo metterci dentro.»
N
sbatté le palpebre un paio di volte. «Ma allora... dove mettete il denaro, le
cose preziose?»
«Il
denaro, dice!»
«Le
cose preziose, dice!»
La
loro risata sapeva di lacrime.
«Dev’essere
bello avere delle cose preziose da mettere in cassaforte...»
«Dev’essere
bello preoccuparsi di dove mettere le proprie cose preziose...»
«Dev’essere
bello poter pagare l’affitto con cose preziose...»
Stringendo
le labbra, N si chiese quale legge della fisica lo costringesse sempre a dire
la cosa più sbagliata possibile nei momenti di crisi. «Sì, beh, non è che sia,
insomma...» balbettò, incapace di trovare un qualsiasi argomento per distrarli
dall’annosa questione soldi-affitto-cassaforte. «Allora, sentite: un Petilil,
un Tympole e uno Scraggy entrano in un ba-»
«Per
l’amor di Arceus, tutto ma non le barzellette di N.» lo interruppe Kim, con
un’espressione poco meno che disgustata.
«Che
hanno che non va?»
«Fidati,
Lee, non lo vuoi sapere.» Kim sospirò. «Piuttosto... davvero, quanti soldi ci
sono rimasti?»
«Niente
di neanche lontanamente sufficiente a saldare sei mesi di affitto.»
«Sei mesi?» esclamò N, senza potersi
trattenere. Sapeva che erano messi male economicamente, ma fino a quel
punto...? Si fece un appunto mentale: raccomandare a Faustino di raccogliere e
registrare più accuratamente i dati della contabilità dei ragazzi.
«Sono
successe... cose.» lo liquidò Lee, con una scrollata di spalle. «Però,
pensandoci, se riuscissimo almeno a pagare un paio di mesi... forse...»
«Per
questo te lo sto chiedendo: quanto ci è rimasto?» chiese Kim, con una nota
d’ansia nella voce.
«Uhm...»
Lee alzò gli occhi, facendo dondolare un poco la testa. Probabilmente stava
facendo dei rapidi calcoli a mente. «Beh, abbiamo i guadagni del Deerling e...»
«E...?»
lo incoraggiò Kim, speranzosa.
Lee
riabbassò lo sguardo. «E... i guadagni del Deerling.»
«Nient’altro?»
N era a dir poco allibito. Lui e Faustino avrebbero dovuto fare una bella
chiacchierata, sì. Forse un paio di settimane a fare le pulizie nel Castello
gli avrebbero fatto riconsiderare l’importanza dei suoi doveri.
«È...
è assurdo!» esclamò Kim. «E i soldi dell’orecchino che abbiamo recuperato a
Camelia a inizio mese?»
«Sono
bastati a malapena per fare la spesa.»
«E
il Cinccino carnivoro di cui ci siamo sbarazzati a Ponentopoli?»
«Luce
e acqua.»
Kim
fece schioccare la lingua. «Cazzo.»
N
lo vide di nuovo: quel singolo, effimero istante di calma piatta.
«Un
momento, un momento!» esclamò, sperando di evitare un ritorno di fiamma. «E il
lavoretto di due settimane fa, quello a Sciroccopoli?»
«Quale...
ah.» Kim strinse tra le mani la lettera di sfratto. «Giusto. È stato appena due
settimane fa, vero?»
Calma.
Pura e semplice quiete. In lontananza, un Pidove cinguettò una melodia allegra
e piacevole.
«Io
quel pezzo di stronzo lo uccido!» In un impeto di rabbia, Kim gettò a terra la
lettera e rimase a fissarla per qualche secondo. «Dopo tutto quello che abbiamo
fatto per lui... quello che abbiamo fatto per
tutti quegli idioti...»
N
trattenne il fiato, si costrinse a rimanere fermo. Voleva toccarla. Voleva
sentire il battito accelerato sotto la sua pelle, la tensione improvvisa dei
suoi muscoli sottili. Voleva analizzare ogni sintomo di quella rabbia e
registrarlo nella memoria, al punto di conoscerla talmente bene da averne il controllo.
Ma non poteva. Avrebbe rovinato tutto.
«Non
ci possiamo fare niente.» disse Lee, toccando il braccio di Kim per cercare di
trasmetterle un po’ di tranquillità. «Ora dobbiamo solo pensare con calma ad
una soluzione.»
«Ce
l’ho io, la soluzione.» disse Kim, la voce che le tremava un poco. «Vado ad
ammazzarlo di botte.» Ciò dichiarato, scostò bruscamente Lee e si fiondò in
camera, veloce come una saetta. Così veloce che N fu certo di sentirla sbattere
contro lo stipite della porta e imprecare tra sé.
«Finirò
per impazzire.» sospirò Lee, passandosi una mano sulla faccia. «Quello che ci
sfratta da una parte, Kim che perde la testa dall’altra...»
N
riprese solo in quel momento a respirare, e gli sfuggì un mezzo sorriso.
«Dimentichi la signorina misteriosa di ieri.»
«Stavo
elencando solo i casini odierni, se dovessi prenderli in considerazione tutti
staremmo qui fino a domattina.»
Ciononostante,
Lee si portò una mano al petto, nel punto in cui fino a qualche ora prima c’era
stata una scritta rosso sangue.
N
si mordicchiò l’interno della guancia. Era il momento giusto per chiederlo?
Beh, aveva già fatto parecchie domande inopportune, quindi una in più non
avrebbe ucciso nessuno. Probabilmente. «Perché non hai voluto dirglielo?»
chiese, accennando con la testa alla camera di Kim.
«Non
è ovvio?»
«No,
non proprio.»
Lee
rise. «E poi vai in giro a dire di conoscerla come le tue tasche, eh?» disse,
divertito. «Kim sarebbe più che contenta di appendermi al collo un cartello “Non
Toccare”. Finché non abbiamo neanche una vaga idea di chi ci sia dietro a
questa storia, è meglio tenere la bocca chiusa. Non ti sembra che quella lì sia
già abbastanza soggetta a crisi isteriche così com’è?»
«Questo
lo posso capire, ma...»
«Lee!
Dov’è finito il mio sfollagente?» urlò Kim dall’altra stanza. L’irritazione
nella sua voce non prometteva nulla di buono.
Lee
roteò gli occhi. «E ora andiamo a scongiurare un omicidio.»
N
fece di sì con la testa e, cautamente, si avvicinò insieme a Lee alla porta
aperta della camera di Kim.
La
ragazza era impegnata a frugare nervosamente nel cassettone sotto al suo letto,
ed emanava una tremenda aura omicida.
«Lo
picchierò. Gli spezzerò tutte le ossa, una per una, finché non avrà più nemmeno
la forza di urlare e chiedere scusa.» mormorò tra sé, sgombrando il cassetto da
alcune sfere poké e un paio di calze. «E quando avrò finito, taglierò il suo
corpo in taaaanti piccoli pezzettini, che userò come esche per pokémon.»
Senza
potersi trattenere, N si aggrappò al braccio di Lee, terrorizzato. «È... è...»
«Spaventosa.»
completò Lee, anche lui abbastanza intimorito da non preoccuparsi neanche dello
stalker appeso al suo braccio.
N
deglutì. «Non dovresti... insomma... fare qualcosa?»
«Beh,
probabilmente... ehi, aspetta, che significa “dovrei”?»
«Prima
persona singolare del condizionale pres-»
«Dovremmo,
N, dovremmo. Renditi utile, una volta
tanto.»
«Ma
mi fa pa-ahia!» N si portò una mano
alla guancia, dove Lee gli aveva appena dato un pizzicotto. «E va bene... che
cosa devo fare?»
Lee
lo squadrò per qualche secondo, pensoso. «Sii te stesso.» disse alla fine.
«Solo, meno piagnucoloso, se puoi. Vieni.»
Cauti,
si spinsero oltre la soglia della camera. Per la cinquantunesima (o forse
cinquantaduesima?) volta, N si chiese come si potesse far entrare così tanto
rosa in così poco spazio: praticamente tutti gli oggetti e i mobili ne
presentavano una qualche sfumatura, un po’ come se la femminilità di Kim si
fosse concentrata interamente in quella stanza e da là non dovesse uscire.
Purtroppo,
in quel momento il rosa pareva scomparire dietro alla pesante oscurità che
vibrava nell’aria.
«Sì,
saranno proprio delle ottime esche...» ridacchiò Kim, sollevando un pokéflauto
per valutarne l’utilità come oggetto contundente.
Dimostrando
un coraggio che solo da lui ci si poteva aspettare, Lee le si chinò accanto e
le mise una mano sulla spalla. «Kim... credo che sarebbe meglio se ti calmassi,
adesso.»
Per
tutta risposta, lei gli puntò il pokéflauto alla gola. «Sono calmissima.» sibilò, stringendo gli
occhi.
Lee
non si lasciò impressionare e rimase fermo dov’era. «Oh, sì, più o meno quanto
io sono innamorato di N.»
Kim
roteò gli occhi. «Felicitazioni, allora. Mandatemi una cartolina dal viaggio di
nozze.» disse, tornando a frugare nel cassetto.
«Dico
sul serio. Senza considerare che l’omicidio va contro ogni regola etica del
mondo civilizzato...»
«E
ti sembra che me ne importi qualcosa?»
«...appunto, lasciando anche perdere
l’etica, credo che abbiamo parlato del fatto che uccidere le persone è illegale e...»
«Di
nuovo: ti sembra che me ne importi qualcosa?»
«...e
del fatto che la polizia di Unima è inutile quando si tratta di criminali veri,
ma sono diventati professionisti nel catturare noi.»
Kim
si irrigidì e smise di frugare nel cassetto. Per un istante, N si chiese se
avesse finalmente rivisto la ragione, ma poi notò che le sue spalle stavano
tremando.
Oh,
no.
«Lo
vedi? È tutto un problema di questa fottuta Regione!» esplose Kim, alzandosi in
piedi di scatto. «Eroi di qui, Eroi di là, e finché salviamo il culo a tutti va
bene, ma appena si tratta di questioni idiote come picchiare un maniaco o non
pagare qualche mese d’affitto ci danno tutti addosso, come se non avessimo già
abbastanza...»
Il
cuore di N batteva forte. Voleva che si fermasse, ma allo stesso tempo voleva
vedere quanto poteva avvicinarsi alle fiamme divampanti prima di scottarsi.
Decise
per una via di mezzo: prese Kim da sotto le ascelle e la sollevò da terra.
La
ragazza rimase come paralizzata, il respiro mozzato e le guance di un vivace
color porpora. «C-cos... che...» provò a dimenarsi, ma l’essere sospesa in aria
pareva averla messa in netto svantaggio. «Me-mettimi giù!»
«Sei.
Troppo. Agitata.» soffiò N, tenendola all’altezza del viso. Adesso che lo
notava, faceva un altro effetto guardarla senza dover abbassare la testa. I
suoi occhi sembravano più grandi e... gli facevano venire una voglia matta di
prenderla in giro. Fissò lo sguardo dritto nelle sue pupille, nel modo che
sapeva l’avrebbe imbarazzata di più. Sii
te stesso, aveva detto Lee. Niente di più facile. «Quando fai così...
vorrei baciarti.»
Kim
smise all’istante di cercare di divincolarsi. Il rossore delle sue guance si
diffuse su tutto il viso, fino a renderle purpuree perfino le orecchie. Era
così carina che quasi quasi l’avrebbe baciata davvero...
«Lee!»
piagnucolò lei. «Per favore, per favore,
almeno lui lo posso picchiare? È autodifesa!»
N
si morse un labbro. Doveva immaginarlo, che avrebbe finito per scottarsi.
*******
L’aria
di quella palestra era sempre leggermente umida, e sapeva di ferro. Per Kim,
che tra i suoi prediletti aveva i pokémon Fuoco ed Elettro, era un’aria che
puzzava di guai.
Fece
roteare il pokéflauto tra le dita un paio di volte, lo batté sul palmo della
mano. «Buongiorno, Brigida.» sorrise. «Vedo che non sei ancora riuscita a
fuggire da questo schifo di posto.»
La
receptionist deglutì e si sistemò nervosamente la giacchetta azzurra.
«B-buongiorno.»
«Dai,
Kim, piantala di spaventarla.» disse Lee, spingendo l’amica di lato.
«Non
la sto spaventando, sto facendo
conversazione.»
«Conversazione
terroristica.» Lee si voltò verso Brigida e le rivolse un sorriso rassicurante.
«Al solito, siamo qui per vedere Rafan. E Kim ha promesso di non picchiare
nessuno con quel flauto, quindi torna pure a respirare.»
Brigida
parve leggermente sollevata ed annuì. «Certamente. Devo annunciare due... no,
tre persone?» chiese, alzando la cornetta del telefono.
Kim
e Lee si voltarono di riflesso verso N, attualmente impegnato a sporgersi oltre
il bancone della reception per osservare quello che c’era dietro. Sembrava
particolarmente affascinato da un blocchetto di post-it colorati, che guardava
come se fossero stati un qualche tipo di reperto alieno.
«No,
solo due.» sospirò Lee. «La palestra è un posto pericoloso per i bambini.
Comunque...» si avvicinò leggermente a Brigida. «Detto fra noi... com’è l’umore
del capo, oggi?» sussurrò, in tono confidenziale.
Brigida
sbatté un paio di volte le palpebre, e Lee fece lo stesso. Kim roteò gli occhi
e appoggiò la schiena al bancone.
Dopo
qualche momento di esitazione, Brigida riagganciò con cura la cornetta. «Uhm,
oggi ha battuto tre allenatori...» mormorò, incerta. «Questo l’ha certamente
messo di buon umore, ma...»
«Ma...?»
«Circa
un’ora fa... gli ho passato una chiamata della signorina Camelia.»
«Oh.»
Mentre
l’estorsione di informazioni continuava, Kim si controllò distrattamente le
unghie. Era da un po’ che non le tagliava, forse avrebbero potuto fungere da
arma in caso di necessità.
«Non
ho idea di cosa si siano detti, mi dispiace.» disse Brigida, con un filo di
voce. «Spero per voi che sia stata una conversazione... piacevole. Il signor
Rafan ha...» abbassò ancora di più la voce. «...ha molto a cuore la signorina Camelia, ecco.»
«Già.»
sospirò Lee. «Speriamo in bene.» Rimase pensoso per un paio di secondi, poi
fece un mezzo sorriso. «Grazie, Bridge. Sei sempre gentilissima.»
«D-di
nulla!»
Mentre
la ragazza alzava frettolosamente la cornetta per annunciarli, Lee passò
davanti a Kim e le rivolse la mano aperta. Lei gli diede il cinque con un
sorrisetto. «Demonio.»
«Mi
disegnano così.» le strizzò l’occhio. «...N, mi dici che ci trovi di tanto
interessante in quei post-it?»
Il
ragazzo sobbalzò e fece cadere il blocchetto che aveva tra le mani. «Li- li
stavo solo guardando, giuro!»
«Attento,
potrebbero arrestarti.» ridacchiò Lee. «Beh, fai il bravo mentre mamma e papà
vanno a parlare di cose da grandi.»
«Se
non fai danni, ti compreremo dei post-it.» aggiunse Kim, divertita.
N
gonfiò le guance. «Io non faccio mai danni.»
«Ehm...»
Brigida richiamò timidamente la loro attenzione. «Ho avvisato il signor Rafan.
Potete prendere l’ascensore diretto per scendere da lui.»
Kim
si rigirò nuovamente il pokéfaluto tra le dita. «Se dobbiamo proprio andare a
morire, almeno andiamoci a testa alta.» dichiarò, con decisione.
Però,
appena la piattaforma di metallo che la gente di Libecciopoli chiamava
impropriamente “ascensore” iniziò la sua discesa, sentì un brivido risalirle la
schiena. «Dovevi lasciarmi portare lo sfollagente.» mormorò, stringendo il
pokéflauto.
Lee
le mise una mano sulla testa. «Se ti arrestassero, per me sarebbe un problema.»
A
Kim sfuggì un sorriso triste. «Fammi indovinare, perché non potrei pagare
l’affitto?»
«Giusto,
sì.»
Incredibile
come la loro solita battuta fosse diventata d’un tratto così deprimente.
L’ascensore
si fermò.
Il
fondo della palestra assomigliava a quello di una qualsiasi miniera durante lo
svolgimento degli scavi: nessuna pavimentazione se non la roccia naturale, polvere
e detriti ovunque, operai al lavoro. L’unica nota stonata era l’imponente
poltrona di pelle posta al centro esatto della grotta, su cui troneggiava un
uomo corpulento, con un cappello da cowboy in testa e l’aria imbronciata di chi
vuole tornare al più presto nella sua vasca da bagno piena di banconote.
Kim
si strinse nelle spalle, già sulla difensiva. Lasciò che fosse Lee a parlare
per primo.
«Buongiorno,
Rafan.» disse lui, con evidente tensione nella voce.
L’uomo
alzò lo sguardo dai fogli che aveva in mano. Sembrava già piuttosto irritato.
«Ah, siete voi.» disse, come se Brigida non avesse passato quasi un minuto al
telefono per dirgli che sì, erano gli inquilini del Cottage Vittoria, e no, non
sapeva di cosa volessero parlare esattamente, però sì, li avrebbe fatti
scendere immediatamente da lui. «Lasciate che ve lo dica subito: no, non
ritirerò l’ordine di sfratto.»
Kim
si era promessa di stare calma. Di ricorrere alla violenza solo se si fosse
rivelato strettamente necessario. Ma quell’uomo le stava già dando sui nervi.
Lee
dovette notare la sua inquietudine, perché le mise una mano sulla spalla e la
strinse leggermente. «Ne possiamo parlare.» disse, deciso.
«Non
c’è più spazio per le contrattazioni, solo sei mesi di affitto che mi dovete.»
Lee
si prese qualche secondo prima di replicare. Aveva preparato le sue
argomentazioni con cura, ma sapeva di non potersi permettere di sbagliare.
«Possiamo pagarti subito un mese. E gli altri arriveranno.»
L’uomo
alzò un sopracciglio. «Non basta. Nulla mi garantisce che ne sarete in grado;
ve ne chiedo almeno cinque.»
«Possiamo
pagartene al massimo due.»
«Meno
di quattro non avrebbero senso.»
Lee
strinse i pugni. «Ti giuro che te li pagheremo, ci serve solo un po’ di tempo!»
Rafan
rise. Kim non aveva mai sentito una risata tanto odiosa, e di allenatori
supponenti e pieni di sé ne aveva incontrati parecchi. «Avanti, Leeroy, non
prendiamoci in giro. Siamo tutte personcine adulte qui, o sbaglio?» Si alzò in
piedi, tirò fuori un sigaro e lo accese con la massima tranquillità. «Abbiamo
fatto questo discorso parecchie volte, e vi sono sempre venuto incontro.»
«Questo
lo so, ma se solo-»
«Il
tempo dei giochi è finito.» tagliò corto Rafan. «Sapevo fin dall’inizio che non
mi sarei dovuto mettere in affari con dei mocciosi. Se avete qualcosa da
ridire, andate pure a piangere dalla mamma.»
Kim
sentì qualcosa scattare. Prima di rendersene conto, era a pochi centimetri da
Rafan, che la guardava dall’alto in basso con aria di sfida.
«Stammi
bene a sentire, stupido cowboy tarchiato.» ringhiò, con una voglia tremenda di
mettergli le mani addosso. «Da quando siamo diventati allenatori, abbiamo fatto
più lavoretti sporchi per te che non per tutto il resto di Unima messo
insieme.»
Rafan
le soffiò in faccia uno sbuffo di fumo. «Ma davvero.» Kim sentì gli occhi
bruciare, ma il suo sguardo non vacillò.
«Sì,
davvero. E non mi costerebbe nulla
andare a raccontare a Camelia che fine hanno fatto le mutandine a strisce che
ha “perso” due settimane fa.»
Per
la prima volta dall’inizio di quella conversazione, Rafan parve finalmente
sorpreso. Forse perfino scosso. Si ritrasse di un passo e aspirò dal sigaro.
«Non avete prove.» borbottò, mordicchiandolo.
«E
credi che un sospetto non le basterebbe a tagliare definitivamente i ponti?»
sorrise Kim, spavalda. «Probabilmente non aspetta altro. Le cose tra voi non
vanno molto bene, ultimamente... o sbaglio?»
Rafan
prese un profondo respiro, dilatando le grosse narici. Evidentemente la
faccenda gli stava dando da pensare.
«In
fondo non ti stiamo chiedendo di darci la casa gratis.» disse Lee, tornando
accanto a Kim. «Vogliamo solo un po’ di... elasticità da parte tua. Non sembra
irragionevole, no?»
Il
capopalestra non rispose. Prese due boccate dal suo sigaro, espirò il fumo
lentamente. «No.» disse infine, deciso. «La questione è già chiusa. Non ho
intenzione di perdere altro tempo.»
«Oh,
ma insomma!» esclamò Kim, esasperata. «Siamo appena stati ri-nominati “Eroi di
Unima”, cosa che ci ha portato più oneri e doveri che diritti; possibile che
non conti nulla?»
L’uomo
storse il naso. «Il vostro titolo di Eroi è ciò che vi ha concesso di evitare
lo sfratto per sei mesi. Non venite a chiedere trattamenti di favore quando
tutta la Regione gira già intorno a voi.»
«Intorno a noi?» Kim strinse il
pokéflauto tra le mani, più che decisa a farne uso. «Ma ti ascolti quando
parli, razza di-»
Lee
la prese per un braccio e scosse la testa. Le stava dicendo di non andare
oltre. Che era una battaglia persa. Kim si voltò verso di lui, ancora restia a
rassegnarsi.
«È
casa nostra.» disse piano. Tutta la
tristezza che non aveva espresso da quando aveva preso in mano la lettera di
sfratto era concentrata in quelle parole.
Lee
le sorrise, senza allegria. «Lo so. Piaceva molto anche a me.»
♪ If it hadn’t been for cotton-eye Joe, I’d been married
long time ago, where did you come from, where did you go, where did you come
from cott-beep.
«Pronto?»
Rafan rispose al telefono, ancora accigliato. «Frena la lingua, Brigida, non
capisco niente. Cosa? Non è possibile, è la terza volta questo mese! Sono
davvero persistenti. Certo, è ovvio che qualcuno deve fermarli. Piantala di
piagnucolare, Brigida, sto pensando.»
Kim
arricciò le labbra. Per qualche motivo, aveva l’impressione di sapere che cosa
stava succedendo all’altro capo del telefono. «La senti, Lee?» chiese,
inquieta.
«Che
cosa?»
«Quest’asfissiante
puzza di guai.»
Rafan
stava stringendo il telefono come se avesse voluto distruggerne ogni singolo
circuito, ma il suo tono era stranamente calmo. «Il Campione, dici? Ma loro
dovrebbero... no, certo. Sì, è la cosa più logica da fare. Grazie, Brigida,
richiamalo e digli che farò come ha consigliato.»
Nel
momento in cui Rafan chiuse la telefonata, Kim batté insieme le mani. «Aaaah,
come si è fatto tardi!» esclamò. «Dobbiamo trovarci un altro posto dove vivere,
quindi credo proprio che sia ora di and-»
«Fermi dove siete.»
Kim
deglutì a vuoto. Ecco, erano fregati.
«Ho
una proposta da farvi.» disse Rafan stancamente, stropicciandosi gli occhi con
una mano. «Posso darvi una piccola proroga per il pagamento dell’affitto. A
patto che risolviate il mio problema.»
«Che
tipo... di problema?» chiese Lee, cauto.
«Uno
di quelli a cui siete abituati.»
Kim
e Lee si guardarono. Nessuno dei due aveva la minima voglia di farsi incastrare
in uno dei soliti lavori che nessun altro a Unima voleva o era in grado di
fare. Allo stesso tempo, nessuno dei due voleva ritrovarsi senza un tetto sopra
la testa.
«E
va bene. Dicci che cosa dobbiamo fare.»