Anime & Manga > Saint Seiya
Ricorda la storia  |      
Autore: Gem    26/10/2012    3 recensioni
Eppure, si disse subito, non c’è niente su cui riflettere, se non quello per cui è meglio non farlo. Esatto: la cosa più opportuna da fare, in quella situazione, era semplicemente fingere che non fosse successo nulla, di non aver visto nulla, che tutto quello non significasse nulla.
Dopotutto, sperava forse di fare i conti senza l’oste? Mpf, aveva già accettato di scendere a patti con quel pazzo parecchi anni prima, quando l’aveva visto percorrere tutte le Dodici Case con una testa in mano, il volto rigato di lacrime, le labbra deformate in un sorriso.

[Una fanfiction sulla coppia Death Mask/Aphrodite ambientata prima della vicende delle Dodici Case. L'idea era di scrivere una breve one-shot, ma non sono riuscita a controllarmi. Conteggio parole: it's over nine thousand. La cosa piace agli svedesi, in fondo.]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Cancer DeathMask, Pisces Aphrodite
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic


La prima volta che Death Mask l’aveva guardato con tutti i convenevoli era stata una mattina di aprile, poco dopo l’alba.

Non aveva realizzato all’inizio che quegli occhi rossi si fossero puntati su di lui: pensava che fossero rivolti all’orizzonte, forse verso le montagne più rocciose, quelle stesse che si tingevano di rosa a ogni crepuscolo.
Solo dopo aver fatto qualche passo aveva avvertito lo sguardo seguirlo con minuziosa precisione, come se il cavaliere del Cancro stesse analizzando il suo comportamento, o perché no, avesse intenzione di attaccarlo da un momento all’altro.
Si era voltato verso di lui. C’era astio, c’era stizza, c’era insolenza e ogni genere di sensazione negativa in quei due occhi scarlatti, più intensi del cielo e delle montagne, e c’era persino una vena di disprezzo, ormai ben nota e ignorata.
Eppure tutto ciò perdeva importanza di fronte alla disarmante arrendevolezza con cui quell’occhiata veniva porta. Era addirittura intrisa di soddisfazione e compiacimento, come se fosse stata pianificata da lungo tempo ma realizzata solo in quell’istante.
Ne aveva ricevute parecchie, vero, e altrettante ne aveva ignorate; mai però avrebbe pensato di poter vantarne una del folle maniaco della quarta casa. E pensare che quella mattina aveva semplicemente scambiato il proprio turno di ricognizione con quello di Shura.
 
Passò un dito tra le pagine del libro, alzò lo sguardo verso il Sole che tramontava. Ancora una volta le montagne tinte di rosa abbracciavano il Santuario e nascondevano quell’ultimo barlume di speranza al mondo intero, proiettandolo in una dimensione ancestrale e intrisa di sacralità.
Ben presto non avrebbe più potuto leggere per la mancanza di luce. Non avrebbe avuto senso proseguire e interrompersi più avanti, magari a un punto interessante, soltanto per accendere un braciere o cambiare luogo. Interrompere la lettura a un punto morto, al contrario, gli avrebbe dato l’opportunità di godersi gli ultimi minuti su quella loggia prima di andare a dormire.
Ne approfittò per farsi cullare dal vento fresco e soprattutto per riflettere, come se non avesse desiderato far altro per tutta la giornata.
Eppure, si disse subito, non c’è niente su cui riflettere, se non quello per cui è meglio non farlo. Esatto: la cosa più opportuna da fare, in quella situazione, era semplicemente fingere che non fosse successo nulla, di non aver visto nulla, che tutto quello non significasse nulla.
Dopotutto, sperava forse di fare i conti senza l’oste? Mpf, aveva già accettato di scendere a patti con quel pazzo parecchi anni prima, quando l’aveva visto percorrere tutte le Dodici Case con una testa in mano, il volto rigato di lacrime, le labbra deformate in un sorriso.
Si sorprese a violare quell’ordine che egli stesso s’era dato dopo appena una manciata di secondi, eppure non se ne pentì. Anzi, continuò imperterrito a giustificare quella vicinanza a Death Mask del Cancro come conseguenza necessaria e inevitabile di una simpatia infantile, e quindi voluta dallo stesso ordine naturale.
«Signor Aphrodite, abbiamo terminato di ordinare la cucina.»
Una voce lo chiamò dalla sua sinistra. Volse il capo apaticamente, forse infastidito da quella interruzione, giusto per vedere un giovane apparire sulla porta che conduceva all’interno del tempio.
All’inizio si fermò a fissarlo senza parlare, ancora perso nei pensieri, tanto che associò i capelli ramati dell’uomo ai riflessi delle montagne intorno a lui. Si prese tutto il tempo per rispondere, lasciò persino scorrere un segnalibro sino alla pagina a cui era arrivato e sporgersi per poggiare il libro su un tavolino poco distante.
Poi prese un respiro.
«Bene, Lars.» mormorò, il tono basso e apparentemente distaccato. Ma sapeva che né il più gelido degli sguardi, né il più dimesso dei sospiri lo avrebbero allontanato da quello che era ormai un rito, una cerimonia solenne che si ripeteva da troppo tempo.
Sperò, seppur poco fiducioso, che l’inserviente lo lasciasse ancora solo, ma quello rese più serio lo sguardo, domandando: «Vuole che prepari qualcosa per lei, in caso riceva degli ospiti?»
Un rito, una cerimonia solenne che si ripeteva da troppo tempo, a volte macchiandosi di profano, a volte semplicemente tingendosi di sfumature che un cavaliere d’oro avrebbe dovuto evitare.
Qualcosa che solo Lars aveva la possibilità di conoscere, e che – constatò Aphrodite – avrebbe fatto bene a portare nella tomba.
Quella sera, però, non ci sarebbe stato nessun ospite.
«No.» ribatté serafico. «Puoi ritirarti.»
L’inserviente fece solo un cenno del capo, quindi sparì nel buio della Dodicesima Casa.
 
Il problema stava nel fatto che non era assolutamente concepibile che un santo d’Athena, d’oro per giunta, passasse ogni sera a fissare lo stesso punto nel cielo e rivolgere il pensiero a quanto di più scandaloso potesse esistere.
Cosa diamine c’era di sbagliato in quello sguardo? Aphrodite sapeva di essere bello e, sebbene non se ne vantasse, riusciva comunque ad attirare le attenzioni di parecchie persone. Non gli importava molto se fossero donne o uomini, a dire il vero; in genere non li degnava nemmeno di un’occhiata.
Probabilmente avrebbe dovuto replicare con una battuta sul momento, stroncando sul nascere qualsiasi idea malsana di Death Mask. Ne avrebbe trovata una così velenosa e irta di spine da togliere al crostaceo la voglia di parlare per una settimana.
E invece no.
«Vuole che prepari qualcosa per lei, in caso riceva degli ospiti?»
«No. Ritirati.»
Il dialogo fu identico alla sera passata. Aphrodite vide Lars congedarsi in silenzio, giocherellò con il segnalibro tra le pagine, si ravvivò la stola sulla spalla come se stesse semplicemente godendosi il vento fresco.
Poi, tuttavia, appoggiò il libro sul tavolino e stese le gambe, intrecciando le dita in grembo.
Non credeva nell’amicizia Aphrodite, perlomeno non credeva che un’amicizia convenzionale sarebbe mai capitata a lui. Vedeva ogni giorno dozzine e dozzine di uomini parlarsi con reciproco rispetto e le guardie non riuscivano più a sorprenderlo, nemmeno quando si passavano braccia sulle spalle e passeggiavano tutt’attorno all’arena.
Shura, al massimo, avrebbe potuto chiedergli se stesse bene. Lars si sarebbe inchinato e avrebbe atteso ordini, da bravo servitore. Death Mask, invece… a quanto pare avrebbe lanciato certe occhiate che nemmeno le sguattere della mensa avrebbero concesso ai loro cari spasimanti.
«Signor Aphrodite, devo preparare qualcosa per lei o non intende ricevere ospiti?»
Quella sera le nuvole coprivano il cielo rosato. Persino Lars, come se risentisse della differenza dell’ambiente, era stato molto più diretto nella sua domanda, ma Aphrodite non si preoccupò di mutare la risposta.
«Ritirati.»
Tamburellò con le dita sulla copertina del libro.
Beh, in realtà Death Mask aveva antiche conoscenze laggiù. Doveva ricordarsi di rinfacciarglielo, prima o poi. Adorava vedere come la maturità gli facesse vomitare l’anima al solo ricordo delle sue bravate adolescenziali.
«Ha intenzione di ricevere ospiti o posso congedarmi?»
«Puoi ritirarti.»
Si portò un bicchiere alle labbra e lo vuotò velocemente. Non c’era nemmeno un alito di vento a smuovere quell’aria che reputava troppo calda per una serata di aprile. Il cielo, striato di rosa e d’arancio, in cui l’unico diamante era Venere, sembrava persino troppo terso: tra due montagne, in uno scorcio di mondo, riusciva a distinguere alcune costruzioni di una città moderna.
Continuò a stringere il bicchiere senza nascondere un certo nervosismo. Le dita rendevano la presa sempre più forte, il polso scattava come preda di impulsi irrefrenabili. Forse avrebbe fatto meglio a posarlo sul tavolino e prendere il libro. Forse.
Sarebbe potuto andare a dormire, o a fare un bagno.
Anche scendere da Shura, appena due case sotto di lui, lo avrebbe distolto dal fissare il solito, bello, rosa, suggestivo paesaggio come un emerito imbecille.
Dannazione.
E immaginò di aver spinto Lars a farsi orribili idee sul suo conto, dato che la risposta che continuava a dargli era
«No. Puoi congedarti.»
mormorata con una mano sul libro e l’altra a tormentare un oggetto qualsiasi.
Si decise a risolvere quella situazione una volta per tutte, a porre fine a quelle contemplazioni inconcludenti e vacue estirpando il male alla radice. Non attese nemmeno il crepuscolo per chiamare Lars, ma si accontentò di vedere il Sole avvicinarsi all’orizzonte, certo che da quella sera tutto sarebbe cambiato.
«Tra mezz’ora esatta sarò al monoptero dietro l’arena.» sentenziò solenne e pomposo Aphrodite, gli occhi cinerei sia per colore sia per umore. «Avvertilo. Subito.»
Vide Lars impallidire come un fantasma.
«Non hai forse sentito?»
Quel tono era troppo austero, ma era il momento di usarlo, persino con lui. I motivi erano fin troppo chiari.
Uno dei tanti, quello forse più banale ma incredibilmente preoccupante, era il fatto che in oltre una settimana non fosse riuscito a spostare quel maledetto segnalibro nemmeno di una pagina.
 
Adesso sì, il crepuscolo stava ancora una volta prendendo il sopravvento sulle montagne del Santuario. Eppure Aphrodite si compiacque: non era né su quella loggia nostalgica né osservava i pittoreschi scenari che si rincorrevano l’uno dopo l’altro, finché la notte non gettava la Grecia intera nell’oscurità.
Si trovava tra due colonne del monoptero, in armatura, l’elmo indossato come se dovesse affrontare un’ardua battaglia. Nessuno passava – a quell’ora, poi – nei pressi di quel diroccato tempietto seminascosto dalla vegetazione, abbandonato a se stesso da chissà quanti secoli. Persino i sentieri che lo collegavano alle costruzioni più vicine, tra cui l’arena, erano talmente usurati che si distinguevano a fatica dai ciottoli di occasionali ruderi.
Non immaginava una simile attesa. La percepiva come un’offesa al suo rango, una vera e propria mancanza di rispetto che poteva avere conseguenze notevoli. Oh, pensò Aphrodite, e le avrebbe avute! Di sicuro non avrebbe aspettato così tanto inutilmente.
Quando finalmente scorse una sagoma calcare uno dei sentieri in rovina, si fece subito avanti e lasciò il monoptero, mentre gli ultimi raggi del Sole gli baciavano l’armatura e le ciocche bionde fuori dall’elmo.
«Stelios.» scandì, sbrigativo. «Mi hai fatto attendere.»
La persona a cui s’era rivolto accelerò il passo e gli si fece avanti correndo. Aphrodite ebbe quasi un moto di pietà. Si attardò qualche istante a fissare quel giovane innanzi a lui, dai capelli corti e marroni come le cortecce delle querce divelte, dagli occhi rotondi ed espressivi come quelli di un bambino. Non aveva mai visto niente di più dissimile da quelle fessure rosse, inquietanti, sterili che s’erano posate su di lui giorni prima tanto impudentemente.
Poi riprese. «Dov’eri?»
«Non mi sono potuto allontanare prima, Aphrodite.» esclamò quasi disperato Stelios, tanto umile nella sua uniforme di sentinella. «Sono mortificato. Il capoturno mi ha già…»
«Signor Aphrodite.»
L’interruzione fu brusca. E altrettanto brusca fu l’occhiata del cavaliere dei Pesci, schietta, dall’inequivocabile significato, che attraversò da capo a piedi il giovane che gli stava davanti.
Estirpare il male alla radice, ecco. Estirpare quel male per piantarne uno mille volte più devastante e nocivo.
«Perdonatemi, signor Aphrodite.» replicò a voce bassa Stelios.
In teoria non c’era bisogno di aggiungere altro: le intenzioni di Aphrodite erano state espresse con abbastanza chiarezza. Se si fosse voltato e fosse andato via, avrebbe risparmiato parole che nessuno dei due aveva voglia di sentire. Eppure ci fu qualcosa che lo spinse a indugiare, a studiare per l’ultima volta quel viso regolare dalla pelle di miele.
«Prima o poi sarebbe successo.» aggiunse con un tono altrettanto basso. «Abbi cura di te.»
Come gesto di sincera premura, gli appoggiò una mano sulla spalla proprio dove la stoffa lasciava spazio alla pelle nuda. Era così tiepida e liscia, resa di un colore tanto bello dalle ore trascorse sotto il Sole greco; era talmente immatura, invero, come la propria, bianca, candida, spezzata solo dal blu delle vene sottostanti.
Nessuno dei due aveva ancora vent’anni.
«Non dovete scusarvi.» Stelios abbassò il capo. «Siete un cavaliere d’oro.»
Probabilmente un altro dei motivi per cui Aphrodite era giunto a tanto era anche la consapevolezza di macchiare la propria reputazione in quel modo. Persino Death Mask era arrivato al punto di odiare la condotta tenuta in passato. Perché mai, allora, il cavaliere dei Pesci non avrebbe dovuto raggiungere lo stesso grado di maturità?
Con quel pensiero ritrasse la mano e scivolò al fianco del giovane, sorpassandolo, diretto verso uno dei tanti sentieri. Non badò né alle braccia che si sfioravano, né alla muta maschera indecifrabile dietro cui Stelios s’era nascosto.
Se c’era qualcosa che quello era in grado di fare con ottimi risultati era proprio tacere al mondo intero. Come Lars, come i servitori più onesti, pronti a dare la propria vita per il bene del loro padrone.
 
«Era ora, dannato! Quanto ancora volevi farci aspettare?!»
Aphrodite si sfilò l’elmo, oltrepassando la soglia della Quarta Casa. Non badò al tono arrogante della domanda, ma si limitò a procedere per tutto l’androne e sorpassare i servitori che chinavano il capo, diretto verso le camere private del tempio.
Persino le teste appese alle pareti, quella sera, non riuscirono in nessun modo a distrarlo. I pensieri lo schermavano ancora dalla realtà circostante.
«Non devo renderne conto a te.»
Si degnò di dare risposta solo quando fu giunto nella sala da pranzo, a pochi passi da un tavolo non apparecchiato, su cui alcuni pacchetti aperti per metà scoprivano vassoi ricolmi di cibo. Seduti l’uno di fronte all’altro, Death Mask e Shura spostarono lo sguardo dalla cena a lui.
«Vieni a sederti!» berciò ancora il padrone di casa, avvicinando una sedia al tavolo. «Hai fatto raffreddare tutto.»
Due grandi bracieri erano stati accesi per far luce, ma il calore che essi sprigionavano era contrastato dall’aria più piacevole che entrava da un’enorme finestra. Aphrodite appoggiò l’elmo su un ripiano accanto a quello dell’armatura del Capricorno e si sfilò anche i bracciali. Era solo il padrone di casa, com’era prevedibile, a vestire comunissimi abiti civili.
«Dubito che mi abbiate aspettato.» replicò scettico lo svedese, mentre si sciacquava le mani in una bacinella.
«Io sì.» fu la coincisa risposta di Shura.
Finalmente Aphrodite si sedette al tavolo. Ecco, quella situazione spiegava da sé perché era impossibilitato a definire normale la relazione con gli altri due cavalieri. Uno bardato di tutto punto, bracciali compresi, con una montagna di tovaglioli davanti; l’altro, quello che da giorni gli tediava la mente, in camicia e pantaloni consunti, le mani già a brandire un pezzo di cena.
Fuori, ben visibile dalla finestra, la meridiana dello zodiaco.
«Mangia questo.» deliberò solennemente Death Mask, porgendogli l’alimento con una tale deferenza che il Santo Graal, in confronto, sarebbe sembrato un vecchio soprammobile. «Prendi.»
«Cos’è?» chiese Aphrodite.
L’altro mormorò una parola nella sua lingua, poi ripeté: «Prendi.»
E blaterò qualcos’altro in italiano. Shura si portò una mano alla fronte.
«Corpo…?» Aphrodite ripeté quel poco che aveva distinto, ma il cavaliere del Capricorno lo interruppe lanciando un’occhiata torva a quello del Cancro.
«Questa è blasfemia.» lo rimbeccò cupo come al solito. «Ti ricordo che l’italiano è molto simile allo spagnolo e perciò ti capisco perfettamente.»
«Siamo cavalieri di Athena, Alejandro, non cavalieri templari.»
Aphrodite, quelle chiacchiere, nemmeno le sentiva. Adesso che teneva in mano quel cibo untuoso e grosso come un’arancia, senza aver capito il senso del discorso che portavano avanti i due compagni, pensava solo a far sì che la serata procedesse come aveva deciso.
Fino a quel momento era come se tra lui e Death Mask nulla fosse cambiato. Erano state rispettate le solite abitudini, le solite convenzioni, persino le solite occhiate spocchiose e infeconde.
Rifletté.
Allora s’era trattato di un epico fraintendimento, la cui unica conseguenza era stata il gesto maturo di interrompere i rapporti con Stelios. Aphrodite sospirò una volta, a lungo, un lieve sorriso sulle labbra morbide. Quell’occhiata era stata un accadimento provvidenziale, un segno divino.
Una vera e propria manna dal cielo.
«Cos’è, dunque?» insistette osservando il cibo in mano.
Death Mask si volse verso di lui, interrompendo il battibecco con Shura. Ora che aveva i suoi occhi davanti, Aphrodite non scorse nemmeno per sbaglio quelle sfumature che tanto l’avevano destabilizzato. Vedeva solo le iridi scarlatte, le sopracciglia cenerine, le occhiaie appena accennate che tingevano di viola la pelle scura; vedeva soltanto ciò che aveva sempre visto, e che avrebbe visto ancora per molto.
Poi alzò un sopracciglio.
E seppe di essere spacciato.
«Ti ho lasciato senza fiato?» lo canzonò.
Aphrodite sapeva che non erano battute da fare con Death Mask, quelle. A dir la verità non aveva detto mai nulla del genere in tutta la sua vita, ma la situazione gli era parsa tanto appropriata che poteva persino fare un’eccezione.
Prese talmente alla sprovvista il parigrado che poté accordarsi anche un’alzata di spalle, prima che quello rispondesse.
«Perché non te lo metti in bocca e lo scopri da solo?» ribatté l’italiano poggiando un gomito sul tavolo, mentre faceva scorrere l’altra mano su uno dei vassoi. Anch’egli aveva le sopracciglia arcuate. «Altrimenti puoi sempre mangiare il solito.»
Prese un altro alimento e glielo sventolò davanti al viso, a qualche centimetro dal naso. Una fragranza di pomodoro, olive e formaggio gli riportò alla memoria un sapore inconfondibile.
«No, prendo io la pizza.» s’intromise Shura, strappando il pezzo dalle mani di Death Mask. «L’altra volta l’avete finita voi.»
Ma ad Aphrodite non interessava minimamente. Teneva ancora testa allo sguardo dell’italiano, che con fin troppa mollezza stava astenendosi dal mangiare. Non era forse lui, poco prima, a fingersi interessato solo alla cena? A rimproverarlo per essere arrivato in ritardo?
Un po’ lo stupiva il fatto che un tipo serio e ragionevole come Shura mangiava pizza senza accorgersi di quale cosmica disgrazia stava per accadere. Doveva essere colpa della tavola calda siciliana, probabilmente.
Diede un morso alla pietanza misteriosa. Oh, al diavolo qualunque cosa vi fosse dentro. Se fuori era tanto croccante e compatto, dentro era incredibilmente molle e cedevole. Per Athena, aveva persino l’occasione di paragonare Death Mask a quell’arancia artificiale e fregiarsi della battuta del secolo… ma un infame crostaceo possedeva già di natura quella scomoda caratteristica.
Aphrodite se ne ricordò per la seconda volta nel giro di pochi giorni. Un bambino dalle guance paonazze e bagnate di lacrime, che saliva le Dodici Case con la testa di un uomo in mano.
 
«Agata! Agata!»
Gli schiamazzi di Death Mask risuonavano per tutta la sala e sembravano ben poco consoni allo scenario notturno che s’intravedeva dalla finestra. Shura roteò gli occhi; Aphrodite si limitò a sciacquarsi le mani in silenzio, mentre osservava l’italiano devastare una credenza piena di bottiglie.
«Che diamine hai da urlare?» borbottò Shura, infastidito.
«Non trovo il liquore.» ruggì Death Mask. «Non c’è più.»
Aphrodite indossò i bracciali dell’armatura. «Se parli del liquore di rose, l’hai lasciato da me.»
La mano con cui l’italiano stava distruggendo la dispensa si bloccò nello stesso momento in cui una donna di mezza età, dalle braccia nude e grassocce, fece capolino dalla porta.
Poi, con lo stesso volume tenuto da Death Mask, berciò qualcosa in italiano.
Aphrodite scorse Shura portarsi una mano alla fronte per la seconda volta in una sera. Si divertiva a vederlo ridotto così, in verità, soprattutto perché la discussione tra i due italiani non accennava né ad assumere un volume più basso né a smettere.
«Ti ho detto che è da me.» ripeté con serafica grazia Aphrodite.
Dopo qualche secondo, tale Agata chinò il capo davanti ai tre cavalieri e lasciò la sala, velocemente. Death Mask al contrario si volse e chiuse con un colpo secco le ante della credenza.
Quella che da spettatori occasionali poteva essere considerata una sfuriata con terribili conseguenze per l’inserviente apparve agli occhi di Aphrodite, invece, come una semplice consuetudine della Quarta Casa.
Socchiuse gli occhi.
«Perché non salite al mio palazzo?» mormorò, prendendo in mano il proprio elmo. «È ancora presto.»
La proposta era abbastanza eloquente. Vide Death Mask annuire subito, raccogliendo da un vassoio un ultimo dolcetto verde, ma non ricevette alcun assenso dall’altro cavaliere. Si volse verso di lui.
«Shura?» lo chiamò.
«No.» mugugnò alzandosi in piedi, poi inaspettatamente si tolse una delle protezioni sulle spalle. Una vistosa fasciatura girava più volte intorno all’ascella. «Vado a cambiare le garze.»
«Ma che cazzo hai fatto?!» sbottò Death Mask.
Aphrodite sgranò gli occhi. Quel caprone di Shura era sempre così testardo e indipendente, che anche quella volta aveva preferito tenersi tutto dentro di sé. Tsk, chissà da quanto tempo aveva quella ferita!
«Una nuova tecnica.» tagliò corto lo spagnolo, indossando di nuovo il coprispalla. «Beh, buona serata.»
«La tecnica di segarti le braccia?» fu assai scettico Death Mask, gettando un catino d’acqua su uno dei bracieri. «Minchia, deve essere proprio efficace.»
Spense anche l’altro braciere. Gli occhi rossi scomparvero nel buio.
«Sii più cauto la prossima volta, Shura.» mormorò Aphrodite, approfittando dell’oscurità per lanciargli un’occhiata preoccupata.
 
Tenendo in una mano la bottiglia e nell’altra due bicchieri, Aphrodite superò le ultime colonne del proprio tempio e uscì in giardino, trasformato per forze di cose in un sempiterno roseto. Percorse uno stretto sentiero tra gli arbusti fioriti finché non vide in lontananza un tavolino di pietra e i piccoli sedili, quindi socchiuse gli occhi e alzò un sopracciglio.
«Dovresti chiedere ad Agata di trovare un’altra bottiglia.» esordì. «O valla a prendere tu stesso.»
Di Death Mask vedeva solo la schiena. Quel folle, pericolosamente fermo nel roseto, tra due rovi certamente pieni di spine, stava con le mani in tasca e guardava oltre una rupe scoscesa.
Aphrodite appoggiò la bottiglia e i bicchieri sul tavolo, senza avvicinarsi. Addirittura proseguì: «Shura è troppo taciturno.»
«Le capre non parlano.» fu la saggia risposta dell’altro.
Con un sospiro d’assenso, Aphrodite vuotò la bottiglia in un unico bicchiere. Come aveva previsto Death Mask avrebbe dovuto procurarsene un’altra. Quando alzò gli occhi dal bicchiere, tuttavia, trovò il compagno ritto davanti a lui, dall’altra parte del tavolo.
C’era qualcosa che non quadrava in quella scena dall’apparente normalità. Grazie alla Luna quasi piena Aphrodite poteva scorgere un bagliore intorno al collo dell’altro, una catenina a cui era stata aggiunta una medaglietta d’oro. Si vedevano anche i riflessi sui bottoni della camicia, più chiari della stoffa, e sugli occhi dell’altro.
Occhi fin troppo chiari per sembrare rossi.
Come prima reazione il cavaliere dei Pesci trasalì, pensando di avere le allucinazioni, ma più quello sguardo perdurava più diventava impossibile negare che quel colore era un profondo azzurro.
Il cosmo di Death Mask non si avvertì più.
«È finito.» sussurrò Aphrodite spingendo il bicchiere pieno verso di lui.
«Ti piace il rosolio, vero?»
Alzò le spalle, captando quella parola in italiano. «Sì. Ma sei mio ospite.»
L’altro alzò un sopracciglio e avvicinò di nuovo il bicchiere verso di lui, replicando: «La bottiglia però è mia. Bevi.»
Dopo quell’affermazione un brivido corse lungo la schiena di Aphrodite. Non era gentilezza quella e lo sapeva bene, ciò nonostante non riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione.
Tutto seguiva un ordine logico.
Allungando la mano sottile afferrò il bicchiere e lo portò alle labbra. Lo vuotò tutto d’un fiato, senza perdere il contatto visivo con l’altro, lasciando che quel liquore lo inebriasse e lo stordisse con il suo sapore dolciastro.
Per Athena, come gli batteva veloce il cuore. Persino quand’ebbe posato il bicchiere sul tavolo non riuscì a dare una calmata a quell’innaturale ritmo, al contrario poté solo continuare a sostenere lo sguardo di Death Mask.
Quello con tutti i convenevoli.
Come diamine fossero giunti fin lì era chiarissimo, eppure le domande senza risposta erano ancora troppe.
Il bambino dalle guance paonazze era cresciuto, e con lui quello che l’aveva osservato percorrere le Dodici Case. S’erano fatti onere di un segreto e insieme l’avrebbero portato avanti sino alle più estreme conseguenze. Ne esistevano davvero di più difficili da mantenere? Aphrodite ne dubitava.
Fu allora che si sentì abbrancare la nuca e portare in avanti con bramosia e impazienza. Le dita di Death Mask gli premevano, calde e ruvide, sulla pelle, mentre quegli occhi profondi cercavano di sottrargli l’anima.
L’impellente bacio si consumò con quel tavolo a dividerli, quel sapore di rose in bocca, quelle lingue che si rincorrevano avide e cupide come i desideri dei satiri alla vista di giovani ninfe.
Solo allora Aphrodite chiuse gli occhi e comprese cosa era successo. S’era colmato un vuoto dentro di lui, ecco, s’era murato quel piccolo spazio che lo lasciava ancora legato al mondo degli uomini. Adesso non v’era altro che il suo nome e quello di un altro cavaliere d’oro, perlopiù conscio come lui di quello che da anni succedeva al Santuario.
Quella solitudine non poteva essere colmata da un uomo semplice come Stelios, né dalla bella Kirse, né tantomeno dalla protettiva Anouk o dal viscido Birgir. Molto meglio giocare col fuoco e rivolgersi a chi, col fuoco, giocava ogni volta che una testa in più appariva sulle pareti della sua casa.
Sperò di ricevere non una benedizione, ma un compatimento da Athena. Gli sarebbe bastato che la Dea rivolgesse un pensiero anche a lui, che non lo lasciasse di nuovo solo tra quelle venefiche rose. Che fosse poi il Sacerdote ad amministrare la giustizia in modo più pragmatico: soltanto un uomo forte avrebbe potuto farlo senza commettere errori.
La presa di Death Mask sulla nuca si fece meno potente. Aphrodite ne approfittò per liberarsi di quel bacio, per riprendere totale possesso delle proprie labbra dal sapore di rosa. Si ritrasse completamente, indietreggiando di qualche passo e facendosi scudo del tavolo di pietra.
Gli occhi di Death Mask tornarono rossi. Il suo cosmo prese a bruciare, impetuoso, e dopo qualche attimo si caricò anche della tipica aggressività che lo contraddistingueva.
Aphrodite lo guardò ancora, ma sapeva già cosa sarebbe successo. Come aveva previsto l’italiano si ravvivò il colletto della camicia e oltrepassò il tavolo, senza dire una parola, passandogli accanto e cercando di portarsi via un brandello della sua anima.
Ma il cavaliere dei Pesci non era tanto sciocco da farsi schernire così. Non si mosse né parlò; attese quindi che il cosmo di Death Mask si fosse allontanato abbastanza, poi prese i due bicchieri e la bottiglia e si volse verso la Dodicesima Casa.
 
Le grida di coloro che si trovavano nell’arena erano quanto di più fastidioso potesse esistere. Benché seduto nella parte più alta della gradinata, ben lontano da quelle rozze guardie che incitavano i combattenti, si sentiva in qualche modo insozzato dal fatto di trovarsi lì.
Tuttavia, le braccia incrociate di Shura, al suo fianco, lo spinsero a non lasciare ancora l’arena.
«Questo è diventato il più lungo combattimento per l’assegnazione di un’armatura.» mormorò il compagno, con la cadenza spagnola che ogni tanto macchiava la perfetta grammatica greca. «Ho sfogliato gli Annali, ieri. Non c’è assolutamente nulla di paragonabile.»
Aphrodite rivolse un’occhiata più attenta ai pretendenti. Incredibilmente, stavano scrivendo una pagina di storia che sarebbe stata raccontata dalle guardie fino ad assumere caratteri di leggenda. Eppure, ai suoi occhi, i due – poco più che bambini – apparivano come burattini grondanti sangue che sarebbero collassati da lì a poco.
«Cosa diamine state facendo qui all’arena?»
All’udire quella domanda, il cavaliere dei Pesci strinse le labbra e portò entrambe le mani sulla coscia, là dove non era coperta dall’armatura. Una posa tanto elegante e studiata aveva lo scopo di mascherare ogni sensazione incussa dall’appena arrivato Death Mask del Cancro.
Shura prese la parola. «Quei due stanno combattendo da tre giorni. Il Grande Sacerdote è stato costretto a interrompere la lotta al tramonto e riprenderla all’alba per ben due volte.»
«Ah sì?» ribatté l’italiano. «E che armatura si deve assegnare?»
«Cefeo.»
Tutto così consueto, tutto così simile ai tanti giorni passati insieme. Tutto talmente comune che quasi Aphrodite pensò di aver sognato i fatti della sera passata, o di averli immaginati dopo quel bicchiere tracannato tutto d’un fiato.
E questo ordinario scenario, almeno in apparenza, bastò per rassicurarlo.
Death Mask scivolò a sedere accanto a lui, con ben poca grazia, spalmando subito le spalle al gradino che gli stava dietro.
«Se continuano così s’ammazzeranno a vicenda.» constatò con un ghigno. «E niente cavaliere di Cefeo…»
Shura alzò le spalle. «Il Grande Sacerdote sa cos’è giusto fare.»
Dopo quell’osservazione Aphrodite, malgrado avesse parecchie cose da dire, tacque e nemmeno Death Mask aprì bocca. Il vociare del combattimento rese impuro quel loro attimo di silenzio, ma per molti minuti nessuno di loro osò parlare.
Anche in quell’amicizia bizzarra c’erano attimi dediti alla riflessione, sebbene fatta di rimorsi e domande, più che di ipotesi e risposte.
Infine Aphrodite scorse con la coda dell’occhio un uomo vestito di porpora camminare lungo l’anello più alto dell’arena. Ebbe pochi dubbi sulle sue intenzioni: lo vide dirigersi proprio verso di lui, senza risparmiarsi occhiate di dubbia eloquenza.
Anche Death Mask si volse a guardarlo.
«Nobile Aphrodite, il Grande Sacerdote desidera interloquire con voi.» fece il funzionario, abbassando il capo, una volta giunto a pochi passi dai tre. «Siete pregato di raggiungerlo.»
Istintivamente Aphrodite si soffermò a guardare il palchetto dove il Sacerdote aveva preso posto. Vestito di bianco, trasmetteva un’idea di magnificenza e regalità persino a coloro che lo vedevano da lontano. In un attimo si alzò in piedi.
«Lo farò immediatamente.» rispose, quindi gettò un’occhiata di congedo ai due compagni aggiungendo: «Salite da me stasera.»
La sua non era una domanda o un consiglio, era una vera e propria imposizione, a cui non aveva senso controbattere. Tuttavia ebbe modo di alzare un sopracciglio, quando ricevette un’inattesa risposta dall’insolenza riconoscibilissima.
«Beh, certo.»
Conosceva fin troppo bene Death Mask per pensare che quello fosse un semplice consenso. Più che altro, era una vera e propria ammissione di colpevolezza.
Con disinteresse diede le spalle ai due e si portò sull’anello più alto dell’arena, seguendo il funzionario, gli occhi di nuovo puntati verso la sagoma imperiosa del Grande Sacerdote. Si fece sfuggire un sospiro impensierito. Non era spaventato per quell’imprevisto colloquio, ma sperava vivamente che il contenuto non interferisse con i suoi piani.
Accelerò il passo.
Quando, ormai completamente disinteressato alla battaglia, fu abbastanza vicino alla massima autorità del Santuario, si fermò sfilandosi l’elmo e portandoselo sotto al braccio.
L’altro uomo gli fece un cenno con la mano. «Avvicinati, Aphrodite.»
«Vi porgo i miei omaggi, Sacerdote.» salutò con rispetto. Fece ancora qualche passo e aggiunse: «Posso fare qualcosa per voi?»
«Siediti al mio fianco.» fu la prima richiesta del Sacerdote.
Aphrodite indugiò qualche attimo a osservargli i capelli chiarissimi che l’elmo lasciava liberi. Non poteva in alcun modo disobbedire, perciò si accomodò su un gradino non troppo distante e appoggiò l’elmo sulla pietra.
«Sono angosciato per il proseguimento di questo scontro.» ammise con voce profonda il Sacerdote, voltandosi appena verso di lui. «È chiaro che i due pretendenti rischiano di morire se la situazione si protrarrà ulteriormente.»
Il cavaliere dei Pesci annuì appena. Spostò lo sguardo verso i due, adesso lontani l’uno dall’altro e impegnati a riprender fiato, quindi senza potersi trattenere finì col guardare i due parigrado presenti. Lo fissavano a loro volta.
«Se entro il tramonto non dovesse esserci un vincitore proclamerò sospeso lo scontro.» spiegò ancora. «Avranno due settimane di tempo per riposarsi e incrementare ancora il proprio cosmo, dopodiché si sfideranno di nuovo.»
Con più attenzione Aphrodite s’interessò al cosmo degli sfidanti. Erano ottimi cavalieri d’argento, sicuramente persino il vinto avrebbe ottenuto dal Sacerdote l’abilitazione ad allenare o un’altra carica di rilievo all’interno del Santuario. Inoltre quel combattimento già leggendario avrebbe apportato fama e gloria a entrambi per tutta la durata della loro vita.
«La vostra è indubbiamente la soluzione migliore.» convenne infine.
Il Sacerdote tacque un attimo. Aphrodite sapeva che il discorso non era terminato, perciò non mosse nemmeno le dita delle mani e si mantenne rigido come un cadavere. Il semplice fatto di sedere accanto a quella importantissima persona lo poneva al centro dell’attenzione, ed era l’ultima delle sue intenzioni quella di tenere atteggiamenti che potessero essere equivocati.
Lo sguardo delle guardie e dei funzionari presenti era già abbastanza opprimente.
«Ti ho chiamato perché in questo caso si creerebbe un problema.» riprese il Sacerdote, mentre la maschera blu riluceva sotto il Sole primaverile. «Avevo già disposto che il cavaliere di Cefeo si occupasse da domani dell’allenamento di nuovi allievi presso l’isola di Andromeda. Tuttavia, se l’armatura rimanesse vacante, dovrei affidare questi ragazzi a un altro maestro.»
Un soffio di vento agitò i capelli di Aphrodite, proprio mentre questi sgranava gli occhi e li rivolgeva, esterrefatto, ai due combattenti.
La sagacia poco c’entrava, qui. Chiunque avrebbe compreso dove il Sacerdote aveva intenzione di arrivare. Forse proprio per questo motivo lo svedese preferì schiudere le labbra e mosse con palese sbigottimento il capo su e giù, anticipandolo.
«Grande Sacerdote, sono davvero onorato.» la voce ebbe una drammatica, imprevedibile flessione. Per rimediare, lo sbigottito Aphrodite scivolò in ginocchio sui gradoni e a capo chino proseguì: «Se affiderete a me questi ragazzi, vi prometto che diverranno tutti cavalieri.»
Non ricevette risposta. Non volle alzare il capo, né cercare di scorgere di sottecchi il comportamento del Sacerdote; addirittura chiuse gli occhi, mettendo a fuoco la possibilità che gli si parava davanti.
Death Mask allenava un ragazzetto, in Sicilia, ma a giudicare dal tempo che trascorreva al Santuario sembrava che il compito fosse svolto con superficialità. Anche Camus aveva un allievo, eppure viveva da tempo in Siberia e tornava in Grecia solo per qualche rada e sporadica occasione.
L’Isola di Andromeda… sarebbe presto diventata la propria dimora?
Una mano gli si poggiò sul cranio, tra i capelli. Il tocco era talmente delicato che per un attimo Aphrodite pensò fosse una carezza.
«Sapevo di poter contare sulla tua fedeltà.» enunciò con un tono rincuorato il Sacerdote. «Se l’armatura di Cefeo non viene assegnata entro il tramonto, domattina ti chiamerò in udienza per illustrarti meglio la situazione. Puoi andare.»
Il tramonto.
Aphrodite sperò non arrivasse mai.
 
Accostando le gambe snelle sotto la tunica verde, Aphrodite si appoggiò sui gomiti e si sorresse il mento con una mano. Malgrado il crepuscolo fosse già inoltrato nessuna notizia era ancora giunta a rassicurare o meno il pensieroso cavaliere dei Pesci.
Gettò un’occhiata al tavolino accanto a lui. Il libro giaceva ancora lì, il segnalibro abbandonato sempre alla stessa pagina. Con quel ritmo lo avrebbe finito di leggere dopo l’estate.
Sospirò.
In fondo, non avrebbe mai rifiutato un ordine del Grande Sacerdote, quindi tutte le sue preoccupazioni avevano il valore di carta straccia. Eppure la parte più profonda di sé ripeteva, come una nenia d’addio davanti al corpo di un defunto, che non era affatto adatto a svolgere un compito tanto importante come quello.
Non c’era molto nella sua vita, se non le sue rose venefiche, un segreto inconfessabile e due persone nelle sue stesse condizioni. Era una solitudine malsana e insanabile; in essa Stelios non era altro che un petalo prossimo ad avvizzire.
«Signor Aphrodite, sono appena giunti Death Mask del Cancro e Shura del Capricorno.»
Issandosi, lo svedese volse il capo verso Lars, apparso sulla soglia della loggia.
«Li ho fatti accomodare nella sala da pranzo.» continuò il primo inserviente. «La cena è già pronta.»
Aphrodite annuì e si alzò in piedi, talmente sovrappensiero da sbattere contro il tavolino. L’ansia, tutto sommato, era giustificabile. Non avrebbe mai e poi mai mandato i suoi inservienti a informarsi dell’esito del duello, ma certamente non si sarebbe fatto sfuggire l’opportunità di sapere qualcosa dai due ospiti.
Si sistemò la lunga tunica, ma si sfilò la stola e la affidò a Lars. Adesso le ciocche bionde ricadevano direttamente sulla pelle nuda delle braccia e lambivano i muscoli moderati ma tonici.
«Puoi servirla.» disse infine, mentre si dirigeva verso la sala da pranzo. «Porta del vino rosso.»
Non si curò della replica di Lars, ma scivolò in fretta tra i corridoi del palazzo per raggiungere i compagni. Sentiva i loro cosmi, trattenuti come deboli fiammelle pronte in caso di pericolo a trasformarsi in incendi distruttivi, e si beò della loro presenza quasi non avesse atteso altro nella vita.
Si affacciò alla porta della sala. Grazie alla luce che entrava dalle numerose finestre verso occidente, affacciate su un altro loggiato, poteva vedere distintamente i due parigrado già seduti alla tavola apparecchiata.
Senza fiatare si sciacquò le mani in un catino, poi tornò ad osservarli. Shura, com’era prevedibile, indossava l’armatura del Capricorno; Death Mask, al contrario, vestiva ancora una volta abiti moderni, quasi avesse dimenticato di trovarsi al Santuario.
«Abbiamo spostato il tavolo più vicino alle finestre.» fece subito Shura, sulla difensiva. «Spero non ti dispiaccia.»
Aphrodite pensò di aver scrutato con troppa enfasi i due. Scosse subito la testa, avvicinandosi, e prese posto davanti allo spagnolo. Si arrese di fronte all’evidenza di non essersi seduto a capotavola, dove le ancelle avevano posto il tovagliolo e il bicchiere. Si arrese senza combattere, sì, si arrese di fronte all’evidenza di essersi seduto a fianco di Death Mask.
Ciò nonostante, prima di rovinarsi nel migliore dei modi la serata volle conoscere il proprio destino.
«Hanno assegnato l’armatura di Cefeo?» chiese immediatamente.
Sentì pioversi addosso delle occhiate stupite, ma non se ne curò. Per tutta risposta, cercando di contenere l’impazienza, avvicinò a sé un bicchiere e si versò dell’acqua.
«Cos’è, ti interessi dei cavalieri d’argento, adesso?» sogghignò Death Mask, appoggiando un gomito sulla tavola, come suo solito. «Dev’essere a causa di quel Lars.»
«Suo fratello è ancora un apprendista.» rispose Aphrodite senza scomporsi minimamente. «Orbene?»
Attese ancora prima di bere. Guardò Shura, che effettivamente rappresentava l’unica speranza per ottenere una risposta sensata.
«Il Grande Sacerdote stava per lasciare l’Arena.» parlò lo spagnolo. «In quel momento uno dei due sfidanti è collassato a terra. Non ho mai visto le guardie festeggiare in maniera tanto scomposta la nomina di un cavaliere!»
Death Mask scoppiò a ridere.
Il cavaliere dei Pesci sospirò a lungo, portandosi le dita intrecciate sotto al mento, a occhi socchiusi, dimentico di aver appena riempito un bicchiere d’acqua. Di tutti i suoi pensieri, la sete era proprio l’ultimo. Il primo, invece, riguardava la possibilità di continuare a vivere come sempre al Santuario, tra le mura opprimenti della Dodicesima Casa, tra le rose che allontanavano gli imprudenti intrusi, tra i segreti e le verità che non andavano confessati, tra un amico che si manteneva ancora tale e un altro, invece, che si creava problemi pur di averne sempre un paio tra le mani.
«Che hai da sospirare?» gli chiese proprio quello, approfittando della vicinanza per rifilargli una spallata. «Eri in pena per quei due pezzenti?»
Aphrodite alzò gli occhi. Poi volse il capo verso Death Mask.
«Non più di quanto lo sia per te.» sogghignò con moderazione, mentre riagguantava il bicchiere. «Forse un giorno vi racconterò perché.»
«Tsk!» fu l’unico verso che gli giunse come risposta.
Dovette ammettere, Aphrodite, che Death Mask sarebbe stato un ottimo attore. La capacità con cui ignorava la sera passata era tanto grande che in confronto Camus sarebbe stato un libro aperto.
«Come si chiama?» insistette ancora, prima di riuscire a bere un goccio d’acqua.       
Shura gli lanciò un’occhiata discreta. «Daidaros. Daidaros di Cefeo.»
Daidaros di Cefeo…
In qualche modo Aphrodite doveva sdebitarsi. Non era sua abitudine concedere tanto a un cavaliere gerarchicamente inferiore, ma avrebbe potuto vista l’eccezionalità della situazione complimentarsi con lui, o mormorargli un lesto saluto.
Riservargli una morte rapida, indolore, quando sarebbe giunto il momento di adempiere agli ordini.
«Si mangia!» vociò allora Death Mask, afferrando le posate. «Che c’è? Pesce?»
Lars, a capo basso, appoggiò sulla tavola due ceste di pita. Aphrodite appoggiò le spalle alla sedia, muovendo il capo per evitare che i capelli rimanessero impigliati, quindi alzò un sopracciglio.
«Non credo che sia buono quanto me.»
Si accorse che Death Mask aveva colto l’allusione dal modo in cui, per un momento, strizzò gli occhi rossi. Ciò nonostante, non gli diede tempo per replicare e si volse verso Shura, continuando: «Domani il turno di ricognizione è nostro, vero?»
Lo spagnolo sobbalzò, distogliendo gli occhi da Lars che serviva la cena. Dopo un attimo di silenzio annuì e si versò dell’acqua.
«A meno che non ci siano cambiamenti, sì.» rispose velocemente. «Ci vediamo al solito posto.»
Lars si allontanò dal tavolo. Aphrodite stava per versarsi dello tzatziki nel piatto, quando una mano gli bloccò il polso e glielo allontanò dalle stoviglie, apparentemente senza motivo. Non aveva mia fatto caso a quanto fosse scura la pelle di Death Mask in confronto alla propria. Una dicromia interessante, come quella del sangue che colava su una rosa bianca.
«Non mangi finché non mi rispondi.» ghignò Death Mask, lasciando la presa. «Perché sospiravi?»
«Cos’è, le tue amiche sguattere ti hanno trattato male?» replicò per tutta risposta Aphrodite, aprendo ancor di più gli occhi grigio ceruleo, e alzando gli angoli delle labbra. «Pensavo avessi smesso di frequentare certe compagnie.»
Shura, davanti a loro, si lasciò sfuggire un eloquente colpo di tosse. Difficile tuttavia interrompere quel gioco che Aphrodite era intenzionato a spingere sino alle più estreme conseguenze.
Il viso di Death Mask si rabbuiò. «Hai la coscienza sporca, Ariel?»
Non si fece scrupoli sul comportamento da tenere.
«Quanto la tua.» rispose soddisfatto, e aggiunse per togliersi lo sfizio: «Angelo.»
Si riappropriò del cucchiaio e si versò tutto lo tzatziki che voleva, quindi alzò lo sguardo. Fu una bella sorpresa trovare Shura così sconvolto da avere addirittura dischiuso le labbra.
«Ne avete ancora per molto?» biascicò impuntato.
«Quanto resisti, Ariel?» domandò con una certa malizia Death Mask.
E la risposta fu incredibilmente scontata. «Anche per tutta la notte, Angelo.»
Ariel, Angelo. Ariel, Angelo.
Aphrodite si fermò un attimo a pensare, poi aggiunse alla lista anche il nome Alejandro e scoppiò a ridere. Non gli importava di essere creduto pazzo, dopotutto i due parigrado avevano buoni motivi per esserlo a loro volta. Si nascose la bocca dietro la mano, tentando di darsi un contegno, ma l’ilarità era irrefrenabile.
Non aveva mai fatto caso al fatto che i loro veri nomi iniziassero tutti con la stessa lettera. Allora il destino doveva avere in serbo proprio qualcosa di grosso!
«Da come ti comporti deduco che tu sia ubriaco.» gli bofonchiò Shura scuotendo la testa. «Pensavo che ti fossi seduto vicino a Death Mask solo per farmi un dispetto.»
I riflessi di cavaliere d’oro furono più forti della ragione.
Neanche il tempo di un respiro, o di una spiegazione, che essi avevano già mosso il corpo di Aphrodite su ordine dell’impulso. Non c’era affatto bisogno che Shura facesse osservazioni, né che si intromettesse in un affare tanto delicato.
Tuttavia, quando lo svedese realizzò di avergli appena mollato un calcio per farlo tacere comprese di essersi esposto troppo.
Il cavaliere del Capricorno sgranò gli occhi e portò indietro il busto, a bocca aperta.
«Le capre puzzano.» fu un’altra saggia, provvidenziale osservazione di Death Mask.
Riacquisendo un’aria rigidissima Aphrodite squadrò Shura e strinse le labbra, come per incitarlo al silenzio. Non aveva mai dubitato della sua perspicacia, ma in quel momento sperò con tutte le sue forze che l’amico non fosse abbastanza acuto da giungere all’evidenza dei fatti.
«Che avete da guardarvi?» continuò a ciarlare l’italiano, mentre spezzava un pezzo di pita e se lo portava in bocca. «Qualcuno s’è offeso? Oh, che disgrazia.»
«Io sono assolutamente tranquillo.» furono le parole di Shura, mentre afferrava un coltello e tagliava con chirurgica precisione un pezzo di saganaki, neanche stesse adoperando Excalibur. «A dir la verità neanche ti ho ascoltato.»
Aphrodite incrociò le caviglie, constatando che lo spagnolo non avrebbe potuto prenderla diversamente. I legami tra di loro erano davvero simili ai lati di un triangolo equilatero, tutti della stessa lunghezza e, per analogia, della stessa intensità.
Rendere isoscele il triangolo significava tradire.
Tradire, ma nel senso proprio del termine. Consegnare una parte di sé a un’altra persona, mostrando una debolezza inqualificabile che soltanto la morte, forse, avrebbe potuto cancellare.
Si consolò pensando che il triangolo era una figura indeformabile. Per Athena, doveva essere ubriaco sul serio.
 
La caraffa sul tavolo era vuota. Nemmeno girandola al contrario sarebbe uscita una sola goccia di vino, come aveva avuto modo di constatare Death Mask. Il suo bicchiere era stato riempito d’acqua per forza di cose. Quello che invece era ancora colmo di liquido rosso, e prossimo a due labbra schiuse, era tra le mani quasi cianotiche di Shura.
Aphrodite doveva immaginarselo.
Che, a fine serata, l’unico ad aver bevuto sarebbe stato lo sconvolto caprone.
«Domani vado in Sicilia.» borbottò allora l’italiano, appoggiandosi sul tavolo con entrambi i gomiti. «Mi fermerò per una settimana.»
Shura bevve con una tale foga che un rivolo di vino gli macchiò il mento, prima che potesse essere mondato da due dita.
«Non farti più vedere.» mugolò infine, quindi spostò gli occhi irritati su Aphrodite. «Ne saremmo molto contenti.»
Quell’occhiata non fu sufficiente per ammonire il cavaliere dei Pesci che, stavolta di proposito, batté la punta del piede contro la caviglia dell’altro. Shura reggeva bene l’alcol, troppo bene. Fingersi brillo per sparare ammonimenti risentiti non era assolutamente una mossa fruttuosa.
Poi, all’improvviso, lo spagnolo balzò in piedi e si sfregò le mani su un tovagliolo.
«Vado a cambiarmi le garze.» annunciò a bassa voce. «A domani.»
Alzò un sopracciglio, poi proseguì con un tono velatamente sardonico: «Grazie per la cena, Aphrodite.»
«Se ti cade il braccio, lo voglio avere io.» dopo quel commento anche Death Mask si alzò in piedi.
Benché fosse ormai buio, la visibilità nella stanza era buona grazie a un grande candelabro posto di fronte uno specchio, che aiutava la diffusione della luce. Aphrodite riuscì a scorgere l’italiano che appoggiava la mano proprio sulla spalla lesa di Shura, ma il gesto non sembrava ostile.
Si concentrò, dunque, sugli avanzi della cena e adocchiò qualche pomodorino rimasto sul fondo dell’insalatiera. Doveva pur trovare un pretesto per restare seduto.
«Buona notte.» mormorò impassibile. Con la coda dell’occhio vide Shura sgusciare fuori dalla sala e Death Mask, al contrario, fermarsi davanti lo specchio.
Non era ancora nelle condizioni di poter riprendere il gioco. Da un momento all’altro Lars o altri inservienti sarebbero potuti entrare a sparecchiare la tavola.
«Vuoi altri biscotti allo zenzero?»
Si decise a rompere il silenzio con la prima cosa che gli passò per la testa, poi addentò un pomodorino. La risposta non si fece attendere.
«Perché no?»
«Bene, allora vatteli a cucinare.»
Death Mask si fece sfuggire una risata rozza, maleducata, troppo esagerata per una battuta tanto semplice. «Faresti meglio a tirarli fuori.»
Infilzò un altro pomodorino, ma ancora una volta la mano dell’italiano gli bloccò il polso. All’improvviso, senza preavviso, impudentemente; con la velocità tipica di un cavaliere d’oro quel villano s’era portato dietro la sua sedia e gli aveva fermato la mano a mezz’aria.
«Ho ancora fame.» mormorò prima di sottrargli la forchetta.
Aphrodite non poteva vedere il suo volto, ma immaginò che fosse corrugato come al solito in uno dei suoi ghigni impertinenti, anche mentre sbranava il pomodorino. Eppure, come la sera passata, avvertì il cosmo di quello affievolirsi del tutto e rendere Death Mask uguale a qualsiasi essere umano – almeno in apparenza.
La forchetta fu lanciata nell’insalatiera.
«C’è ancora il pesce, no?» replicò con calma studiata Aphrodite, prima di puntellare i piedi per terra e spingere all’indietro la sedia, lontano dal tavolo. Urtò l’italiano di proposito, ma ovviamente non si scusò e si alzò in piedi.
La parziale oscurità per il momento facilitò l’assenza di contatto visivo. Sistemandosi i capelli, il cavaliere dei Pesci raggiunse il corridoio e si diresse verso la loggia su cui ormai trascorreva gran parte del suo tempo libero. Nemmeno per un secondo si voltò a controllare se Death Mask fosse dietro di lui, era troppo sicuro di sé per concedersi un tale vezzo.
«Quel ragazzetto che alleni è già impazzito?» fece allora, appoggiandosi alla balconata. E al suo fianco, immancabilmente, spuntò Death Mask.
«Mpf, ti sorprenderebbe.» rispose tronfio. «Un giorno lo porterò qui al Santuario. Vedrai come farà vergognare gli altri apprendisti.»
Aphrodite alzò un sopracciglio. Non credeva neanche un po’ che Death Mask potesse manifestare un tale affetto verso il proprio allievo, anzi, dal tono della voce pareva che si vantasse di un oggetto o di una propria qualità. Tuttavia quello era il suo modo di fare ed era inutile disquisire al riguardo.
Passò le mani tra alcune magnifiche rose di un vicino vaso. Sfiorò i loro ampi petali rossi, carezzò lo stelo facendo meno pressione sulle spine. Erano belle già di loro, ma senz’altro la luce della Luna che si rifletteva sul loro intenso colore rendeva tutto estremamente meraviglioso.
«Se tu fossi una donna, dannato.»
Si fermò.
Non respirò nemmeno, in quell’istante.
Tante e tante volte aveva sentito accostare la parola “donna” al suo nome, come se fosse stata una disgrazia il fatto di essere nato uomo. La sua bellezza androgina era indubbiamente un’arma a doppio taglio. Confondeva gli avversari come nient’altro al mondo, e questo Aphrodite lo sapeva bene, ma lo costringeva a dover convivere con quell’ambiguità e accettare tutte le conseguenze che ne derivavano, sia positive sia negative.
Con molta prudenza, volse appena il capo nella direzione di Death Mask, ma quello non lo guardava.
Aphrodite non seppe neppure se offendersi per quell’osservazione di dubbio gusto. Avendo scelto di adottare un soprannome femminile non si trovava nelle condizioni migliori per potersi lamentare, eppure una tale spudoratezza aveva spesso scaraventato molte guardie e apprendisti novelli a terra, in stato comatoso.
Beh, era il momento di saggiare le vere intenzioni di Death Mask. Avrebbe preferito vergognarsi solo un minuto, che rimpiangere tutta la vita quell’occasione.
Così come aveva fatto l’italiano la notte passata, nel più completo silenzio si girò e iniziò a camminare.
Non aveva neppure completato il secondo passo, che si ritrovò bloccato per il polso e scaraventato contro il muro, di schiena, con un impeto tale da mozzargli ancora il respiro.
No… non s’era sbagliato.
Subito fu aggredito dalle mani di Death Mask, che gli strinsero il volto con una bramosia impressionante, e dalle sue labbra calde quanto l’Etna. Le sentì imporsi e comandare, esigere e pretendere, farsi artefici di un bacio violento e subito travolgente.
Aphrodite portò le mani a cingergli i fianchi, solo per un momento, poi staccandosi dalle sue labbra boccheggiò. Lo guardò negli occhi giusto per accertarsi che fosse conscio di ciò a cui andava incontro, quindi gli artigliò la camicia e schiuse ancora la bocca.
Come eloquente risposta Death Mask gli lasciò il viso e gli sollevò la tunica, velocemente, facendo scorrere le mani lungo la parte esterna delle cosce, dopodiché tornò a baciarlo con urgenza.
Avvampando, Aphrodite si sentì trascinare dalla focosità dell’italiano, dalla sua incredibile tendenza a dominare chiunque gli si fosse posto davanti. Non gli era mai accaduto, ma – si disse – la vita ha sempre in serbo sorprese. E si lasciò baciare ancora, e si lasciò graffiare le cosce, cedendo sempre di più ai sensi e al proprio morboso desiderio.
«Vieni…»
Seppur vi fosse un’atmosfera meravigliosa non potevano rimanere lì sul loggiato, a dar spettacolo davanti alle stanze del Grande Sacerdote. S’intrufolarono tra i corridoi, furtivi, sacrileghi, e poi tra le camere più recondite, quelle stesse che tante volte avevano nascosto Aphrodite persino dai suoi stessi inservienti.
Ogni bacio si faceva sempre più brutale, come se fosse una liberazione agognata dopo una prigionia infinita. Ogni bacio era accompagnato dalle mani di Death Mask, che gli serravano il viso e lo inchiodavano al letto per non farlo sfuggire. Ogni bacio, dannazione… e Aphrodite si scopriva sempre più desideroso di invischiarsi in quelle sensazioni devastanti.
Gemette poi per il dolore, senza trattenersi.
Gli parve addirittura di sentire la fragranza delle sue rose più venefiche, ma fu soltanto un istante, perché Death Mask sovrastò ogni cosa col suo odore di lava e di mare.
 
«Signor Aphrodite… sono costernato dal doverla disturbare, ma è necessario che lei si svegli. Signor Aphrodite, la scongiuro…»
Il cavaliere schiuse le labbra, mentre con un braccio cercava di stringere meglio il cuscino appallottolato sotto di sé. Non recepì subito il messaggio dell’altro; aveva sì distinto la voce di Lars, ma la stanchezza delle membra aveva infiacchito anche la sua mente.
«Signor Aphrodite…»
«Lasciami stare.» mugugnò infine, rannicchiandosi meglio nella posizione fetale e cercando di farsi scudo delle lenzuola a cui era aggrovigliato. Tipica scena, quella. Se non per il fatto di essere totalmente nudo e ancora sudato.
«Ma è quasi l’alba, e lei a quest’ora è sempre sveglio.» insistette Lars con voce preoccupata.
Cercando di trattenersi per non afferrare alla gola l’inserviente e scaraventarlo fuori dal palazzo, Aphrodite strinse i pugni sul cuscino e aprì un occhio. Lars si trovava sulla porta socchiusa, proprio davanti a sé, ed era illuminato da una debole luminescenza che filtrava dalle imposte socchiuse. Sarebbe stato davvero un bersaglio troppo facile.
Eppure sollevò il viso dal guanciale e annuì stizzito, frettolosamente, forse piccato nell’orgoglio. Non appena vide la porta richiudersi si strappò di dosso il lenzuolo, neanche bruciasse, e si portò a sedere, reggendosi con una mano la fronte.
La testa pulsava ma il letto vuoto attutiva in parte quella fastidiosa sensazione. Meno ricordava meno doleva, eppure più poggiava le labbra al polso più coglieva sulla propria pelle il sapore di quell’amplesso stremante.
Con un vigore inaspettato si alzò in piedi e sfece il letto, gettando a terra le lenzuola disonorate per ricordare a Lars da dove iniziare le pulizie mattutine. Si trascinò sino alla stanza attigua, scostando le tende che precedevano la porta già aperta, ma prima di immergersi nella vasca che gli stava di fronte prese una bacinella d’acqua e se la versò in testa.
Non aveva molta voglia di parlare.
Rimase in silenzio e sbocconcellò una mela mentre Lars gli passava un asciugamano sui capelli, e sempre senza fiatare gli fece intendere di lasciarli umidicci, ché il mattino avanzava e non c’era tempo di asciugarli.
Arrivò comunque puntuale, giù alla meridiana. Forse stordito, intontito dai propri gemiti che ancora riecheggiavano nella mente, ma fisicamente sveglio, fu pronto a gettare un’occhiata di circostanziale saluto a Shura mentre i riflessi del Sole coloravano di pesca l’intero Santuario.
Non disse niente nemmeno a lui, principalmente perché lo vedeva in condizioni peggiori delle proprie.
Incedette verso i sentieri che conducevano ai confini del Santuario, scostando le ciocche di capelli umide incollate al viso. L’aria era ancora troppo fresca per asciugarli. Davvero troppo fresca, per assomigliare anche lontanamente alla calura che aveva provato quella notte.
«Tanti saluti, stronzi.»
E si chiese se tutto quello sarebbe ricominciato.
Alzò il capo verso un grande masso. Là sopra, in equilibrio come uno scalatore intrepido, Death Mask si stagliava contro il cielo mentre il Sole alle sue spalle faceva brillare l’armatura di mille accecanti riflessi. Il mantello che svolazzava dietro di lui sembrava una superflua aggiunta.
Il dito dell’italiano tracciò una linea nell’aria, squarciando il tessuto dimensionale.
Sì, il gioco valeva la candela.
Aphrodite sogghignò, ma solo quando l’altro si dissolse completamente nell’alba.
 
 
 
 
 
L’angolino dell’headcanon
 
Amo Death Mask, Aphrodite e Shura. Amo tutti i cavalieri d’oro, in realtà, ognuno in modo diverso. Questi tre sono davvero una bomba a orologeria: le idee che ho di loro sono forse tra le più articolate e complesse riguardo al mondo saintseiyano. Servono ovviamente alcune piccole precisazioni per capire meglio la fanfiction, ma ho in mente anche altre storie che potrebbero fare a loro volta chiarezza.
 
Innanzitutto mi preme la faccenda del tradimento e della Notte degli Inganni. Per me – specie DM e Aphro – non ne sono venuti a conoscenza all’improvviso. È stata al contrario una presa di consapevolezza diluita nel tempo, che si è conclusa poco prima delle Dodici Case, quando si sono trovati di fronte a un bivio: etica o dovere?
Le scelte non sono tuttavia sinonimi di Athena e Grande Sacerdote. Questo ha permesso loro di continuare a vestire le armature senza esserne abbandonati (a tal proposito, ho un’idea parecchio complessa del perché l’armatura del Cancro disconosca DM mentre quella dei Pesci no, sicuramente scriverò qualcosa a riguardo).
In merito a Shura, invece, sono certa che Saga in qualche modo abbia influito sulla sua percezione della giustizia e soprattutto della verità riguardo la Notte degli Inganni; qui mi sento in dovere di ringraziare Episode G (anche se non lo reputo in continuity).
 
Sto passando una fase di “purismo” molto accentuato, perciò ho tratteggiato Aphro senza le componenti estetiche e narcisistiche. Il visetto malinconico che ha nel manga mi piace troppo, altro che Albafica. Anche la reputazione di puttana del Santuario mi sembra un po’ riduttiva, non ce lo vedo proprio a farsi tutte le sentinelle che adocchia dalla Dodicesima Casa – una credo basti e avanzi per fargli venire i sensi di colpa. Per concludere lo vedo bisessuale, e anche parecchio attivo (perlomeno prima di finire tra le chele del granchio).
 
Death Mask, altro personaggio abbastanza bistrattato dal fandom, è per me un uomo effettivamente in crisi esistenziale che trova pace solo davanti al Muro del Pianto.
Sono anni che mi ostino a chiamarlo Angelo. Magari adesso lo è diventato. Protegge il cancello del paradiso dei saint con Ariel, che prima di essere la Sirenetta è uno dei più misteriosi arcangeli della tradizione cristiana. Perbacco, se San Pietro passa da quelle parti si chiederà cosa diamine s’è bevuta Athena per sceglierli come custodi.
Mh... vi ricordate Angelo Giuffridabkgrhkej37unf zOMFG tornerà. Tornerà.
Comunque, DM è etero. Un etero che ha ceduto, ma fondamentalmente etero. Non penso che se Aphro avesse avuto la faccia di Ban del Leone Minore e il fisico di Zellos di Frog sarebbe potuto scattare qualcosa tra i due. Questo mi allontana anche dalla coppia DM/Shura XD
 
Passiamo ad altre note doverose e necessarie. L’allievo di DM sarebbe Mei, ma siccome la Gigantomachia non mi garba del tutto ho semplicemente preso in prestito l’idea dell’allievo. Lars, invece, è un mio personaggio originale, comparso in una delle mie vecchie storie. È il fratello maggiore di Misty della Lucertola e lavora alla Dodicesima Casa. Agata invece è una new entry, lavora alla Quarta ed è sicula quanto Death Mask. Ascoltando i miei genitori ho elaborato due frasi che Agata potrebbe dire spesso: 1) Docu era? Ah, docu era?! 2) Ca intra c’è u buddellu di Malta. Ora muoio.
 
La canzone Make me wanna die (The Pretty Reckless) è meravigliosa. La ascolto almeno dieci volte al giorno! E il disegnino lassù è mio. Lo trovate qui in maniera completa... egh.
Ah, per la cronaca, sapete cosa piace agli svedesi? DM ha finalmente dato una risposta a quest’arcano, vi stupirete delle perle di saggezza che questo gran pezzo di siculo riesce a concepire. Tutto merito degli arancini trangugiati a Catania.
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Gem