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Autore: Hotaru_Tomoe    27/10/2012    13 recensioni
La relazione tra Sherlock e John procede a gonfie vele, finché un giorno il detective diventa ostile senza alcun motivo apparente e subito dopo cade malato, infettato da un batterio sconosciuto.
Storia ispirata all'omonimo racconto del canone.
Johnlock, established relationship.
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimers: Sherlock non mi appartiene. Se così fosse il telefilm si chiamerebbe Johnlock.

Dedicata a Jessie, che ama il personaggio di Violet e i finali romantici vecchio stile e alla quale chiedo perdono per tutto l'angst che è finito nel mezzo, ma anche prima e dopo ._.
(Violet è un oc che compare nella mia long "Movimento a spirale", perché, se non l'avete letto, giustamente vi chiederete 'E questa chi cavolo è?')
Il titolo e parte della trama della storia rimandano all'omonimo racconto del canone contenuto nella raccolta "L'ultimo saluto".




L'AVVENTURA DEL DETECTIVE MORENTE



Suo nonno non aveva studiato molto, ma possedeva quella saggezza popolare figlia dell'esperienza.
"Goditi i momenti di felicità, ma non abituarti ad essi, perché sono destinati a finire." ripeteva spesso al piccolo John.
Molto più prosaicamente un suo compagno di università diceva "Occhi aperti e chiappe strette, 'che l'inculata è sempre in agguato."
Avevano ragione entrambi. Il problema è che quando si è felici si tende a dimenticare velocemente queste massime di vita e la felicità che stava provando John negli ultimi mesi era quasi intossicante.
Tutto stava procedendo splendidamente: tre casi intricati ed interessanti che avevano regalato a Sherlock un lungo periodo di umore sfavillante e, nel mezzo, la loro vita insieme. Una quotidianità fatta di parti di cadavere equamente suddivisi tra il bagno e la cucina ed esperimenti chimici, che vista dall'esterno poteva apparire più pericolosa di un'indagine nei bassifondi della città, ma che era la loro normalità e tanto bastava. E poi c'era il sesso: appassionato, tenero, da perderci la testa; con grande gioia di John non c'era centimetro della pelle chiara di Sherlock che fosse sfuggito alle sue attenzioni né stanza del loro appartamento che non fosse stata testimone delle loro bollenti effusioni.

Le cose precipitarono dalla perfezione al disastro così repentinamente che John ne restò stordito.
Un pomeriggio tornò a casa dopo il lavoro e trovò Sherlock raggomitolato sul divano, uggioso ed inavvicinabile. John lo salutò, ma venne trafitto da una occhiata ombrosa, prima che Sherlock tornasse a dargli le spalle, appallottolandosi su se stesso come un contorsionista.
Oramai lo conosceva bene: non era uno dei suoi soliti momenti di depressione dovuti all'assenza di stimoli per la sua mente geniale; quell'ondata di irritazione sembrava rivolta proprio contro di lui, ma per quanto John si stesse sforzando, non riusciva ad immaginare cosa avesse fatto per scatenare una simile reazione nel suo compagno. Quella mattina lo aveva baciato prima di uscire di casa, come tutti gli altri giorni, e nulla nel comportamento di Sherlock lasciava intuire che ci fosse qualcosa di strano.
Ci pensò a lungo, poi scosse la testa: proprio non ci arrivava.
"Ah, non capisci! - Sherlock, al contrario, gli aveva letto nel pensiero, ma quella non era una novità - Quando sei concentrato sbatti le palpebre cinque volte più frequentemente del normale, se invece sei preoccupato ti dimentichi sempre di inserire il segnalibro nel libro che stai leggendo. Se stai cercando di ricordare qualcosa, ti mordicchi l'angolo destro del labbro inferiore e quando vuoi fare l'amore ti strofini le mani sulle ginocchia." Si alzò dal divano quasi urlando e gli andò vicino.
"Io non l'ho mai notato, ma non dubito che sia tutto corretto. Però qual è il punto?" chiese il dottore allargando le braccia: l'atteggiamento del detective aveva ottenuto come unico risultato quello di frastornarlo ulteriormente.
Sherlock lo afferrò brusco per le spalle e lo girò verso lo specchio sopra al camino "Il punto è che tu sei trasparente. - pronunciò quella parola quasi con disgusto - Sei un libro aperto per chiunque, non inganneresti nessuno nemmeno se ci provassi cent'anni."
Poi Sherlock lasciò la presa, facendo ricadere le braccia lungo i fianchi e si morse le labbra. "Se solo tu fossi..." mormorò piano.
Per un istante John intravide un'ombra di disperazione dietro l'atteggiamento rabbioso del detective, ma durò solamente un attimo, poi Sherlock sparì in camera e chiuse la porta a chiave.
"Sherlock, vuoi dirmi che accidenti ti è preso?"
Gli rispose solo un ostile silenzio e a quel punto John perse la pazienza "Bravo, complimenti! Un comportamento davvero maturo, degno di un bambino di cinque anni." Tirò un pugno sul legno scuro e si ritirò, confuso, nella stanza al piano di sopra.
Qualche minuto dopo riecheggiarono sei colpi di rivoltella.

Ma John non avrebbe trovato nuovi buchi sulla parete. Un messaggio era apparso sul cellulare di Sherlock:
Io ti avevo messo in guardia.
MH

L'attimo successivo il costoso gingillo elettronico veniva ridotto in briciole dalle pallottole. Poi Sherlock lasciò cadere l'arma a terra e si raggomitolò sul pavimento.
“Preoccuparsi per gli altri è non è un vantaggio.”
Solo in quel momento gli apparve chiara la portata delle parole del fratello.
Ringhiò di rabbia con la testa premuta contro le ginocchia.

Il mattino successivo Sherlock uscì prima di lui, senza fargli sapere dove fosse.
John voleva affrontarlo, metterlo all'angolo e fargli sputare il rospo, perché un giorno di broncio insensato era più che sufficiente, ma purtroppo il confronto avrebbe dovuto essere rimandato, perché doveva partecipare ad una tre giorni di congresso di medicina generale a Gravesend.
Al momento della partenza non c'era ancora alcuna traccia del detective e John si sedette mestamente al tavolo della cucina, ora sgombro da alambicchi e microscopio. Era triste nel suo essere tornato ad essere semplicemente un tavolo, ed era sbagliato: lì, in quell'appartamento, doveva essere ingombro di appunti, reagenti e vetrini troppo vicini a caffè e pancakes. Seduto dall'altro lato doveva esserci un brillante consulente investigativo che snocciolava i risultati dei suoi esperimenti.
John strappò un foglio da un block notes e buttò giù poche righe confusionarie, che rispecchiavano alla perfezione il suo stato d'animo:
"Sarò via per tre giorni ad un congresso di medicina a Gravesend, ma ti prego, chiamami, dimmi cosa c'è che non va. Aiutami Sherlock, perché proprio non capisco. Se ho sbagliato ti chiederò scusa. E anche se non ho fatto niente
Stupido bambino capriccioso

Lo sai che ti amo, vero? Qualunque cosa sia successa possiamo risolverla."

Ma il cellulare di John restò silenzioso tutto il tempo e lui alternò momenti in cui era sul punto di lasciare tutto e tornare a casa a momenti di rabbia in cui si diceva di non dover assecondare quel comportamento bizzoso di Sherlock perché, accidenti, lui non aveva fatto proprio niente.
Il terzo giorno si vide comparire davanti l'ultima persona che si aspettava di vedere lì: poco prima dell'inizio dell'ultima conferenza, in sala fece irruzione la signora Hudson, pallida ed agitata.
John la condusse in un angolo tranquillo dell'atrio "Cos'è successo?"
"John caro, è Sherlock. Credo sia molto malato."
Malato? Quando tre giorni prima lo aveva lasciato era lunatico, ma scoppiava di salute. Non aveva alcun sintomo, di questo era più che certo. Comunque, senza preoccuparsi di altro, fermò il primo taxi che trovò e si fece portare in stazione.
"E' iniziato ieri sera. - gli raccontò la loro padrona di casa - Ho sentito un tonfo e sono andata a vedere: Sherlock era a terra in salotto e tremava. Mi ha detto che aveva solo un po' di febbre e che sarebbe passata con una buona dormita. Ma stamattina non riusciva ad alzarsi dal letto e il colorito... ha un colorito spaventoso. Mi ha proibito di chiamare un'ambulanza o di avvisarti, ma non potevo fare finta di nulla."
"Cosa diavolo ha nella testa quell'imbecille?" John urlò con tanta forza da far sussultare di paura la signora Hudson ed il tassista, ma era lui quello più spaventato di tutti.
Agitato com'era, non gli venne da ricollegare lo strano comportamento di Sherlock dei giorni precedenti con quella improvvisa malattia: sapeva solo che Sherlock stava male, era solo in casa e lui era troppo lontano.
Il viaggio di ritorno verso Londra sembrò durare un'eternità; una volta a casa John disse alla signora Hudson di andare a riposarsi, si sarebbe occupato lui di tutto.
Fece per bussare alla porta della camera, ma la voce di Sherlock lo precedette "Resta dove sei." Quella voce, di solito così profonda ed autorevole, era una debole caricatura di se stessa.
"Un accidente!" esclamò John ed aprì la porta. La stanza era immersa nella penombra, illuminata solo dall'abatjour sul comodino, ma ciò che vide gli gelò il sangue: Sherlock era disteso a letto, scosso da brividi di freddo nonostante si fosse seppellito sotto tutte le coperte che era riuscito a trovare, gli occhi erano rossi e circondati da brutte occhiaie scure, respirava con evidente difficoltà, la pelle aveva un malsano colorito cinereo e aveva un mano fasciata sino al polso. "Cristo, Sherlock... Ti porto in ospedale." si avvicinò al letto, ma il detective si ritrasse e lo fermò di nuovo "No, non farlo! Devi giurarmi di non venirmi vicino."
"Sei ammattito? Non ti giuro un bel niente! - urlò l'altro - Nel caso non te ne fossi accorto, sono preoccupato da morire. Quindi non costringermi a prenderti a calci fino al pronto soccorso."
Sherlock gli rivolse uno sguardo dolce, ma le labbra erano contratte in una smorfia di sofferenza che strinse il cuore di John in una morsa dolorosa.
"Non servirebbe a nulla: sono stato infettato da un agente batterico sconosciuto, in ospedale non saprebbero come curarmi. E non so quanto sia contagioso, per cui non avvicinarti."
A quelle parole John sentì le ginocchia cedere e si lasciò scivolare a terra "Oh dio, cosa diavolo è successo?"
Il detective agitò la mano fasciata nella sua direzione "Non ha importanza ora."
"Ma esiste una cura? Dimmi che posso fare qualcosa."
"Devo parlare con il dottor Culverton Smith."
"Chi è?"
Sherlock prese un profondo respiro, prima di parlare con voce flebile "Un epidemiologo del King's College [1]. Sta studiando il batterio che mi ha infettato e forse ha una cura. Il suo indirizzo è sul frigorifero."
John si alzò di scatto "E' come se fosse già qui."
"Non so se accetterà di venire, non siamo esattamente in buoni rapporti."
"Fidati Sherlock, lo convincerò con le buone o con le cattive." Ed era certo che Culverton Smith non volesse scoprire quanto potevano diventare cattive le maniere di John quando c'era di mezzo la vita del suo ragazzo.
"Grazie. - Sherlock gli regalò un sorriso stanco - Un'altra cosa: quando lo avrai portato qui, devi lasciarci soli e andare nella stanza di sopra."
John aggrottò la fronte di fronte a quella richiesta insensata "Perché mai...?"
"Ti prego, John. - lo supplicò agitato - Ti prego, fa' esattamente come ti ho detto. Promettilo!"
"Va bene." gli rispose il dottore, soprattutto per tranquillizzarlo: non lo aveva mai visto così debole e spaventato. Uscì dalla stanza, ma poi gli parve di sentir sussurrare nuovamente il suo nome e tornò indietro.
"Ti amo anch'io, John. E mi dispiace per..."
"No. - fu la volta del dottore di interromperlo - Adesso non sei lucido, ne riparleremo quando starai meglio."
Non le voleva quelle scuse, troppo simili ad un addio pronunciate da quella voce sull'orlo della disperazione.
"Ma..."
"Quando sarai guarito. Solo allora." John non voleva prendere in considerazione nessun'altra ipotesi o avrebbe finito per crollare e non poteva permetterselo, perché Sherlock aveva bisogno di lui.
Davanti al n. 13 di Lower Bake Street John si attaccò al campanello finché un seccato uomo sulla cinquantina non aprì. "Il dottor Culverton Smith?"
"Sì. Ci conosciamo?"
"No. Mi chiamo John Watson e sono un collega: un mio amico, Sherlock Holmes, ha bisogno del suo aiuto."
Al nome del detective l'aria irritata dell'uomo sparì, sostituita da un cauto interesse "Ho la sfortuna di conoscere quell'arrogante investigatore privato con velleità da biologo, che si permette di denigrare il mio lavoro sul suo sito da quattro soldi."
John si premette le dita sulle tempie: accidenti a Sherlock e alla sua mancanza di tatto "Mi dispiace! Mi scuso io al posto suo qualunque cosa le abbia fatto, ma ora venga con me: Sherlock è stato infettato da un agente patogeno e dice che solo lei può aiutarlo."
Lo sguardo del dottor Smith si fece attento "Che sintomi accusa?"
"Colorito spento, temperatura corporea molto bassa, ha difficoltà respiratorie ed è quasi afono. Altro non so perché non mi ha permesso di avvicinarlo: teme il contagio."
"Paura del tutto infondata, se è ciò che penso io: quel batterio si diffonde solo per ingestione o penetrazione intramuscolare."
"Sherlock ha una ferita sulla mano, anche se non so... - si prese la testa tra le mani - Non so nulla, non ero qui quando è successo."
"Mi aspetti un secondo, collega. Prendo la mia borsa e la seguo."
John gli posò una mano sul braccio "Grazie." Era stato meno difficile del previsto e quell'epidemiologo non sembrava eccessivamente preoccupato: forse tutto si sarebbe risolto con un grosso spavento. Si attaccò a quest'idea con tutte le forze per non crollare.
Tornati a Baker Street, seppur a malincuore, John decise di mantenere la promessa fatta a Sherlock e salì al piano di sopra. Il suo portatile era sulla scrivania, acceso, e stava trasmettendo quello che sembrava un live streaming da una telecamera nascosta... nella camera di Sherlock?
"Cosa...?" farfugliò, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia, poi si zittì quando Sherlock e quell'uomo iniziarono a parlare.
"E' ancora convinto che il mio batterio sia solo un bluff?"
"No." rispose l'altro e solo pronunciare quella sillaba gli costò fatica. John si conficcò le unghie nei palmi delle mani: in meno di un'ora Sherlock sembrava molto peggiorato. E cosa voleva dire il dottore parlando del suo batterio?
D'un tratto Culverton Smith proruppe in una risata del tutto fuori luogo "Sa come si dice in questi casi, signor Holmes? La brocca che va al pozzo troppo spesso, finisce per rompersi. Appropriato, non trova?" [2]
"Oh. - con grande sforzo Sherlock sollevò la mano bendata, mostrandola al medico - Parla di questo taglio? Lei pensa di sapere come me lo sono procurato?"
L'epidemiologo assottigliò gli occhi "Arrogante sino alla fine, a quanto vedo. Proprio non riesce ad ammettere che l'ho battuta."
"Mi ha battuto?" chiese il detective, stupito.
"Sì - Smith batté con forza un piede per terra - La smetta di fare il finto tonto, sappiamo benissimo entrambi com'è andata. Lo ammetta e basta."
Sherlock si abbandonò sul cuscino "In questo momento mi sento tanto confuso."
"Allora lasci che le rinfreschi la memoria: lei ha pubblicamente affermato sul suo sito che il batterio da me creato non poteva esistere. Quando le ho risposto invitandola a presentare delle prove scientifiche e non solo delle chiacchiere, lei ha approfittato dell'assenza mia e dello staff dal laboratorio per introdurvisi indisturbato e recuperare alcuni campioni del germe."
"Nascosti in un doppio fondo del frigorifero. Banale."
"Oh, davvero? E ha trovato altrettanto banale il meccanismo da me inventato a protezione delle fiale?"
"Una molla acuminata ed infetta, poco più di una trappola per topi. Estremamente banale, infatti."
"E' servita allo scopo."
"Questo sì, glielo riconosco. - la voce di Sherlock si incrinò - Sto morendo, vero?"
"Sì, e io ho avuto il piacere di vederla agonizzante. Le confesso che non osavo sperare in tanta fortuna."

"Io lo ammazzo, lo ammazzo!" Fuori di sé dalla rabbia, John balzò in piedi e prese la pistola. Fu un singhiozzo di Sherlock a fermarlo.
"L'antidoto."
Facendosi violenza, John si sedette nuovamente davanti al pc. "Giusto. Fagli confessare dov'è l'antidoto. Bravissimo, Sherlock."
Non era ancora finita.

"Come?" chiese il dottor Smith, facendo finta di non aver sentito.
"Un uomo intelligente come lei non crea un'arma biologica potenzialmente letale senza creare anche un antidoto."
"Infatti. Ma non speri che mi impietosisca e glielo procuri. E anche volendo non ci sarebbe il tempo per recuperarlo: tutte le dosi al momento sono presso i laboratori WD a Vaduz [3]. No, Holmes. Lei morirà e a quel punto io diventerò uno dei maggiori creditori di Sua Maestà."
"Lo fa per i soldi, quindi?"
"E per che altro?"
"Oh, che motivazione squallida! - d'un tratto Sherlock scalciò via le coperte e alzò teatralmente le braccia al cielo - Estremamente rappresentativo dell'uomo che lei è. Avrei preferito sentirmi dire che voleva conquistare il mondo: un delirio di onnipotenza è senza dubbio preferibile a tanta mediocrità." Infuriato il detective si alzò e lo guardò con disgusto.
"Ma-ma - balbettò incredulo Culverton Smith - Lei dovrebbe essere in fin di vita!"
Sherlock roteò gli occhi "Oh, la prego! Non avrà pensato sul serio che potessi cadere in una trappola del genere. Persino un criceto l'avrebbe evitata."
"Il taglio sulla mano, il suo aspetto..." insisté il criminale.
L'altro si ripulì il viso nel lenzuolo "Cerone e trucco cinematografico." Prese un cellulare dal comodino per avvisare Lestrade e il dottor Smith cercò di approfittare della sua distrazione per spaccargli una sedia sulla schiena, ma Sherlock era all'erta. Schivò il colpo e dopo una breve lotta riuscì a bloccarlo a terra "La smetta di fare l'idiota, tutta la nostra conversazione è stata registrata e mio fratello si è goduto lo spettacolo in diretta, a quest'ora qualcuno dei suoi starà già bussando alla sede della WD."
Il criminale continuava a divincolarsi per scappare, così Sherlock guardò verso la telecamera "John, mi servirebbe la tua assistenza."

Ma John si era pietrificato nell'istante in cui Sherlock si era alzato dal letto, rivelando la sua recita.
Gli sembrava di vivere un incubo, non voleva credere a ciò che aveva visto e sentito. Non voleva credere che Sherlock l'avesse preso in giro a quel modo, facendogli credere che stava per perderlo.
"Non è possibile." Era incredulo: Sherlock sapeva benissimo quanto John aveva sofferto nei tre anni in cui si era finto morto, le pene d'inferno che aveva vissuto; nonostante questo aveva giocato ancora una volta con il suo cuore.
"Non è possibile." Lo stupore annegò nella rabbia. Non aveva esitato a mentirgli e ferirlo, solo per catturare uno scienziato pazzo, aveva anteposto il suo dannato lavoro a lui, a loro. Lui era morto di paura, invece Sherlock stava solo giocando a fare il malato.
"Non è possibile." Scaraventò il portatile a terra e scalciò via la sedia. Tentò anche di rovesciare la pesante scrivania in mogano e, non riuscendoci, si limitò a bersagliarla di pugni sino a farsi sanguinare le nocche.
"Basta. Non ce la faccio più." Non voleva restare lì un attimo di più, a farsi prendere in giro dalla persona più importante della sua vita. Ma evidentemente quel sentimento era a senso unico, dato che Sherlock non si faceva scrupoli a trattarlo come l'ultimo degli imbecilli. Sentì le lacrime bruciargli gli occhi, allora strinse gli occhi ed inspirò forte dal naso "Se provi a piangere, ti prendo a pugni."
Uscì dalla stanza e scese i gradini di corsa; si era quasi illuso di poter abbandonare Baker Street senza incontrarlo, quando Sherlock uscì trafelato dal loro - no, dal suo - appartamento, perché era certo che lì John non vi avrebbe più messo piede.
"John, posso spiegarti."
Oh, John era certo che avesse montagne di logiche ed egoistiche giustificazioni, ma lui non voleva ascoltarle. L'altro gli si parò davanti, ignorando tutti i segnali d'avvertimento del suo corpo: la mascella contratta, le labbra strette e le braccia rigide lungo i fianchi.
John vide paura nei suoi occhi, ma non era quella giusta: non aveva paura di lui, era come se solo in quel momento stesse realizzando le conseguenze della sua geniale trovata.
Be', troppo tardi.
Sherlock allungò una mano per toccargli la spalla, ma lui si scostò bruscamente.
"John, ti prego." lo supplicò.
"Fammi passare." gli sibilò contro.
"No, ascoltami."
"Se l'è cercata." si disse John mentre il suo pugno impattava contro il viso di Sherlock, facendolo barcollare all'indietro a sbattere contro lo stipite della porta.
Si stupì, non provando alcuna soddisfazione per quello che aveva appena fatto: era furioso, voleva punirlo e quindi prenderlo a pugni avrebbe dovuto farlo sentire meglio, giusto? Allora perché non funzionava? Perché mai nulla era come avrebbe dovuto essere con quell'uomo?
"John." Incurante della botta, Sherlock ancora insisteva, tornando ad occupare il pianerottolo per impedirgli di scendere le scale.
"Non è colpa mia, è lui che mi provoca." pensò il dottore, mentre mandava a segno un montante appena sotto lo sterno e Sherlock si piegava sulle ginocchia con il fiato mozzo. Si liberò facilmente dalla mano che gli aveva afferrato la caviglia e fece quegli ultimi diciassette gradini di corsa, rischiando un paio di volte di inciampare, ma voleva solo uscire da lì al più presto e non sentire più i "John!" sempre più disperati che Sherlock non smetteva di urlare accasciato sul pianerottolo.
Ignorò la signora Hudson che gli era corsa incontro per avere notizie della salute di Sherlock, ignorò Lestrade, appena arrivato con tre pattuglie, che lo guardava con l'aria spaesata di chi si è perso parecchie puntate precedenti, scostò un anonimo passante con un gesto brusco ed ignorò i suoi insulti.
Non si accorse che stava correndo finché la sua milza non protestò con una feroce fitta di dolore. Ad ogni modo, non faceva male quanto quella al cuore.

Seduta per terra in salotto, Violet stava bestemmiando contro una unità cd per estrarla dal case. Il proprietario del computer, un suo amico che le aveva chiesto di ripararlo, aveva avuto la sfavillante idea di ficcarci dentro contemporaneamente tre cd, giustificandosi dicendo che "Ma lì, sul davanti, c'è scritto 16x, pensavo se ne potessero inserire fino a sedici." Le vette che poteva raggiungere l'idiozia umana non cessavano mai di stupirla. E poi c'era chi si scandalizzava, quando invocava i Maya e la fine del mondo.
Ad impedirle di scomodare l'ennesima deità del mondo antico fu lo squillo del cellulare; spalancò gli occhi per la sorpresa vedendo chi la stava chiamando.
“Sherl?”

"Devi trovare dov’è John." esordì il detective tuonandole nell’orecchio e costringendola ad allontanare l’apparecchio.
“Uhm... qualche dettaglio in più? Si trova ancora all’interno dei confini dello Stato? Del continente? Del pianeta?”
"Oh, per l’amor del cielo - lo sentì mormorare - John è uscito di casa, non più di un quarto d’ora fa: ho bisogno che lo trovi." scandì piano, come se si stesse rivolgendo ad una minorata mentale.
All’altro capo del telefono Violet udì un vociare confuso, in cui spiccava un tale di nome Anderson, che stava intimando a Sherlock di chiudere la chiamata
“Capo, è ridicolo: in camera da letto c’è un uomo incaprettato che afferma di essere stato rapito da questo pazzo e lui è libero di telefonare a chi vuole? Magari al suo complice.” Ma Sherlock gli ringhiò di tacere.
“Non ho capito nulla. - Violet si grattò la nuca - Però, okay, lo cerco.”
"Sbrigati." ordinò il detective prima di riagganciare.
“Oh, come Vossignoria comanda!” borbottò, senza tuttavia prendersela più di tanto: doveva essere successo qualcosa di brutto, perché non era da Sherlock essere così brusco con lei. Non qualcosa di gravissimo, altrimenti avrebbe scomodato ben altre conoscenze per trovare John, ma di abbastanza serio da spenderci una telefonata e non un semplice sms.
L'hacker si sedette al computer, attivò un programma per nascondere il proprio ip e iniziò a lavorare per entrare nel server che controllava le CCTV di Londra [4]. Era impensabile riuscire a trovare il dottore sperando che passasse davanti ad una telecamera o che ci fosse passato nei minuti precedenti, né poteva mettersi a riguardare le registrazioni delle svariate migliaia di telecamere presenti sul territorio.
“Come diavolo fa il MI5 quando deve rintracciare velocemente qualcuno?” [5]
Curiosò ulteriormente nel server, finché un programma non attirò la sua attenzione “Un software di riconoscimento facciale. I miei complimenti.”
Una foto di John Watson era ovviamente presente nel database e Violet avviò la ricerca. Di tanto in tanto controllava che il suo proxy distorcente [6] facesse il suo lavoro, comunque sembrava che per il momento nessuno si fosse accorto della sua intrusione.
Fu fortunata: dopo dieci minuti localizzò John Watson e richiamò Sherlock.
"Ce ne hai messo di tempo!"
"Sherl, violare il sistema di sicurezza delle CCTV non è come spedire una mail."
"Va bene, va bene - sospirò con fastidio - L'hai trovato?"
"Sì, è in coda alla biglietteria automatica della stazione ferroviaria di Paddington."
Sentì il detective mormorare un 'dannazione', appena udibile nella cacofonia di voci che ancora regnava in sottofondo: uno uomo stava gridando a pieni polmoni che era innocente, quello che doveva essere un agente di polizia cercava invano di recitargli i suoi diritti e un altro uomo reclamava l'attenzione del consulente investigativo
"Sherlock! Se al King's College è custodita una potenziale arma biologica, devi venire con noi e mostrarci dov'è."
"Ho sentito bene, arma biologica? Ohi, Sherl, ma che accidenti stai combinando?" Violet cercò inutilmente di intromettersi nella delirante conversazione.
"Non se ne parla, ho cose più importanti da fare: vi ho spiegato esattamente dove sono le fiale e come recuperarle senza far scattare il meccanismo di protezione. Adesso arrangiatevi!"
"Ehi, svitato!
- urlò una donna - Quell'università è frequentata da migliaia di studenti. Fatico a immaginare qualcosa di più importante di questo."
"E' compito vostro occuparvene. Finitela di seccarmi, tutti quanti!"
"Sherl! - Violet urlò per catturare la sua attenzione - Se ti interessa, ancora tre persone e John comprerà il biglietto."
Sherlock le rispose, ma nel caos imperante lei cono capì nulla "Parla più forte, non ti sento." Il 221B di Baker Street pareva essersi trasformato in un piccolo girone infernale.
Udì il detective spostarsi, una porta sbattere con forza e finalmente ci fu silenzio
"Devi impedirglielo." disse Sherlock.
"Io? Non puoi semplicemente fargli tu una telefonata, se non vuoi che parta?"
Una breve pausa precedette la scorata risposta del detective
"Ora come ora non mi risponderebbe, temo."
"Oh! - finalmente le si accese una lampadina - Avete litigato."
"Non proprio, no. Lui se n'è andato senza lasciarmi il tempo di spiegare."
"Quindi sì, avete litigato. - ribadì Violet - 'Scolta, io posso anche provare a raggiungerlo a Paddington, ma anche pedalando alla massima velocità mi ci vorranno venti minuti. Sarà già partito."
"Devi fermarlo!" insisté Sherlock. C'era una insolita nota di urgenza nella sua voce e Violet evitò di protestare ulteriormente. "Va bene, ma come faccio?"
"Blocca tutto."
"Stai scherzando?"
"Mi ha capito benissimo: blocca tutto! Biglietteria, treni, non mi importa, basta che lo fermi. Io lo raggiungerò non appena mi sarò liberato da questo branco di idioti."
Riagganciò senza aspettare risposta, lasciando Violet a protestare contro il nulla "Blocca tutto... la fa facile, lui! E non ha idea dei guai in cui mi vado a cacciare se mi scoprono."
Però sembrava ansioso Sherlock al telefono, lui sempre così distaccato e glaciale. Sembrava quasi triste.
Violet guardò nuovamente lo schermo del computer: subito dopo una coppia di asiatici, sarebbe toccato a John. Si legò il cespuglio di capelli rossi con un elastico e sospirò "Al diavolo! Ci credo che suo fratello mi odia."
Il proxy stava ancora rimbalzando il suo segnale tra le Isole Vergini e Porto Rico "Non mi tradire proprio ora, bellezza." pregò, e calò le dita sulla tastiera.

L'unico programma di John era tornare a Gravesend per recuperare il suo bagaglio lasciato in albergo, ma non aveva idea di cosa avrebbe fatto dopo. Voleva solo mettere quanta più distanza possibile tra lui e quel bastardo (al momento non riusciva nemmeno a pensare al suo nome senza provare dolore).
Ciò che gli faceva più rabbia, constatò mentre pigiava sul touchscreen dell'erogatore di biglietti con più forza del necessario, era che non riusciva a vedere un futuro lontano da Londra e da quel dannato, dannatissimo bugiardo senza cuore.
Quanto era passato da quando aveva lasciato Baker Street, mezz'ora? Già doveva lottare per ignorare il senso di colpa per averlo colpito così forte nello stomaco. Se l'era cercato, continuava a ripetersi, ma era stato un montante davvero cattivo.
Stava per scegliere la destinazione del viaggio, quando lo schermo della macchinetta divenne improvvisamente blu e gli vomitò in faccia un astruso messaggio di errore "Stupido ammasso di rottami - sibilò tra i denti, tirandogli una poderosa manata - che accidenti ti prende?" La tecnologia, in ogni sua forma, lo odiava.
Però si accorse che anche le persone accanto a lui avevano il suo stesso problema: non c'era più una cassa automatica funzionante. Una rapida occhiata alla biglietteria tradizionale e agli sguardi smarriti del personale davanti a computer inutilizzabili, gli fece capire che il problema era generale.
Il tabellone luminoso degli arrivi e delle partenze non mostrava più le consuete informazioni sugli orari dei treni, al loro posto scorrevano graziose greche composte da caratteri ascii: frecce, smiles, cuoricini, note musicali. Tre turiste giapponesi giudicarono il tutto "Sugoi!" e "Kawaii!" e scattarono foto con i cellulari.
Come quando si soffia su un formicaio, la notizia passò di bocca in bocca ed in breve la stazione brulicò di pendolari irritati in cerca di informazioni.
Rassegnato, John si incamminò verso i binari: poteva sempre farsi fare il biglietto dal capotreno con un piccolo supplemento.
Tuttavia, sulla banchina più esterna della stazione, da dove teoricamente sarebbe dovuto partire il suo treno, lo attendeva l'ennesimo intoppo: due ferrovieri stavano parlando animatamente e lui si ritrovò ad ascoltare la conversazione.
"Cristo santo, cosa stanno combinando in sala di controllo? Si rendono conto che questa è l'ora di punta serale?"
"Dicono che non è colpa loro."
"Sì, sì, però intanto tutte le linee sono prive di corrente elettrica. Non esiste."
"Hai ragione: in trent'anni di servizio non ho mai visto un disastro simile."
"Sanno almeno cos'è successo? Ci sono stati degli attentati alle centraline elettriche? Altrimenti non me lo spiego..."
"No, parlano di un guasto al computer che regola il traffico. E' andato in tilt, ha bloccato le biglietterie e ha comandato che venisse tolta la corrente a tutto il sistema."
"Quegli aggeggi saranno la nostra rovina, te lo dico io. Si sa almeno quanto ci vorrà per riavere la corrente?"
"Non ne ho idea. Ma ci stanno già lavorando e spero facciano in fretta."
"Anch'io: con tutta questa gente in attesa, qua rischia di scoppiare una rivoluzione."
I due si allontanarono continuando a lanciare strali contro la tecnologia e John sbuffò sonoramente: se non fosse stata un'idea assurda, avrebbe pensato che qualcuno stava congiurando per non fargli lasciare Londra.
Si concesse di aspettare una mezz'ora, poi avrebbe trovato una soluzione alternativa.

"Dove sei?" chiese Sherlock, nervoso ed impaziente.
"Ho appena passato la chiesa di Abbey Road." Violet si premette meglio l'auricolare nell'orecchio.
"Non prendere Lanark Road, è interrotta per lavori all'altezza della Elgin Avenue."
"Okay - la ragazza fece mente locale - allora svolto sulla Randolph."
"No, troppo trafficata. Imbocca Hamilton Terrace e scendi fino ad Hall Road." la istruì.
La ragazza si alzò sui pedali per prendere velocità e scartò all'ultimo una macchina in retromarcia che usciva da un parcheggio; salì sul marciapiede e fece lo slalom tra una coppietta che amoreggiava davanti ad un portone ed un uomo con due cani, prima di scendere nuovamente sulla sede stradale.
"E quando arrivi in Warwick Crescent usa la nuova ciclabile, risparmierai due minuti e mezzo."
"Ricevuto." rispose con il fiato corto.

Violet abbandonò la bicicletta in una stradina che costeggiava la recinzione lungo i binari della stazione di Paddington, la scavalcò e cercò John sulla banchina.
Il dottore stava guardando l'orologio con impazienza: sembrava sul punto di andarsene e così gli corse incontro.
"Ehilà, doc! - lo salutò sfilandosi il caschetto - Anche tu qui? Che sorpresa."
John la guardò per lunghi istanti senza dire nulla, spostò lo sguardo sugli schermi per informazioni ancora elegantemente decorati con simboli di ogni tipo, poi sui treni fermi ed infine si coprì il volto con le mani "Tutto questo è opera tua, vero?" mormorò incredulo.
"Eeeh. No. Sì. - balbettò lei - Cioè, solo tecnicamente. E' stato Sherl a chiedermi di farlo." concluse, come se giustificasse qualsiasi cosa.
A sentire il nome del suo compagno, John si rabbuiò e Violet gli fece il segno della pace con le dita "Calma, sono solo una messaggera: mi ha chiesto di fermarti perché ti vuole parlare e questo - allargò un braccio ad abbracciare il caos della stazione - era il metodo più rapido."
"Quello è pazzo, ma tu che gli dai retta sei più pazza di lui."
"E tu che ci vivi assieme, vogliamo parlarne?" la ragazza incrociò le braccia sul petto, guardandolo con aria di sfida.
John lasciò cadere le mani a penzoloni tra le ginocchia "A questo sto per porre rimedio." disse in tono lugubre.
"Diamine, sembra una cosa seria."
"Lo è. E se credi di riuscire a farmi cambiare idea, ti sbagli." serrò la mascella, guardandola con ostilità.
Violet scosse la testa con vigore "Tranquillo, io non so cos'è successo, sono neutrale. Resto... resto solo qui un po', okay? Tanto la circolazione dei treni non riprenderà tanto presto, fidati." Incurante del pavimento sporco, la ragazza si sedette a terra, si accese una delle sue sigarette ai chiodi di garofano e la fumò in silenzio, gettandola poi tra la ghiaia in mezzo ai binari. Tamburellò con le dita sul suo caschetto color lime e poi cercò gli occhi di John "Quando conobbi Sherl per la prima volta avevo diciassette anni. Ero giovane, ingenua, stupida ed incazzata col mondo come ogni adolescente che si rispetti."
John fece una smorfia e aprì bocca per dire qualcosa, ma Violet lo bloccò puntandogli l'indice contro "Mentre adesso sono soltanto stupida [7]. Ah-ah, battuta vecchia, doc."
John in realtà voleva dirle che non aveva alcuna voglia di sentir parlare di Sherlock, ma lei non gli diede modo di replicare "In quel periodo ero innamorata di un ragazzo parecchio più grande di me: brillante, spigliato, dalla parlantina sciolta, con esperienza del mondo... ero davvero cotta di lui. - si accese un'altra sigaretta - Si chiamava Kevin e si definiva un rivoluzionario di sinistra. Aveva un gruppo di amici della sua stessa età con i quali parlava in continuazione del popolo oppresso da politici corrotti e diceva che il suo scopo nella vita era lottare per rovesciare i poteri forti e le multinazionali che li sostenevano. Io ero in piena fase di ribellione e lui lo capì al volo, così mi incoraggiava spesso a violare i siti di qualche importante società capitalista ed oppressiva. Ed io ero così stupida che prendevo la cosa come un gioco: bloccavo i server di posta, cancellavo files, incasinavo connessioni... per me era soltanto l'equivalente virtuale dello scarabocchiare 'Fuck the cops' sul muro della scuola. Ma all'epoca non ero così brava come adesso, lasciavo a desiderare soprattutto nel coprire le mie tracce; così un pomeriggio mi vidi comparire sulla porta di casa questo tizio magro come un chiodo, alto come una pertica e con i capelli da pazzo."
La descrizione di Sherlock strappò una risata involontaria a John.
"Non si presentò nemmeno, mi squadrò dall'alto in basso e disse semplicemente 'Tu non hai niente a che fare con Kevin e i suoi amici. Da questo momento non dovrai più incontrarlo né parlarci. Se non lo farai, porterò alla polizia le prove che dimostrano che sei la colpevole di gravi atti di pirateria informatica ai danni di numerose aziende e finirai in galera'. Poi fece per andarsene, ma ovviamente io lo fermai e lo coprii di insulti, dicendogli che non l'avrei ascoltato. Ricordo che non si voltò nemmeno e sbuffò seccato 'Sei più intelligente di così'. Tu non puoi immaginare quanto fossi incazzata, doc. Lo odiavo con tutta me stessa! Insomma, chi diavolo era quello sconosciuto? E come si permetteva di comparire nella mia vita e darmi ordini?"
La seconda sigaretta raggiunse la prima fra le rotaie e poi Violet tacque.
"E come andò a finire?" chiese infine John, vinto dalla curiosità. Non che gli interessasse davvero, ma in quel momento non aveva proprio nulla di meglio da fare e tanto valeva ascoltare la fine di quella storia.
"La paura ebbe il sopravvento: ero pazza di Kevin, ma la prospettiva del carcere mi terrorizzava, così lo lasciai. Lui si arrabbiò e mi insultò dicendo che ero solo una ragazzina borghese che amava avere il culo al caldo... o qualcosa del genere." Tacque di nuovo, giocherellando con il cellulare.
John corrugò la fronte "Non capisco perché hai voluto raccontarmi tutto questo. Se volevi dirmi che Sherlock è un egoista che pensa solo ai propri fini senza curarsi dei sentimenti degli altri, grazie, ma lo sapevo già. E' il motivo per cui sono qui."
"Non sentii più parlare di Kevin per un anno - Violet proseguì come se non l'avesse udito - poi lui e i suoi compagni balzarono agli onori della cronaca, come si dice in questi casi. Te lo ricordi il fallito attentato al centro commerciale Shining Star di Liverpool?"
"Certo, non è un episodio che si dimentica facilmente: un gruppo di anarchici intendeva far saltare in aria un furgone imbottito di esplosivo il giorno dell'inaugurazione, ma venne fermato dalla polizia e... mio dio, il capo della banda si chiamava Kevin Wagner."
"Già." confermò Violet.
"E finì ammazzato con un complice durante l'irruzione degli agenti nel loro covo."
La ragazza si grattò la testa, distogliendo lo sguardo "Te l'ho detto che ero stupida. So che quello che sto per dire è scontato e banale, ma se Sherlock non mi avesse ricattato a quel modo, credo che ora non saremmo qui a parlare."
"Quindi?" chiese John, pur sapendo benissimo dove la ragazza stesse andando a parare.
Violet prese a gesticolare veementemente "Lui era sulle tracce di Kevin e dei suoi amici già da tempo; quando si imbatté in me, mi diede la possibilità di tirarmene fuori, anche se non mi disse mai nulla di tutto questo. Perciò... tu hai ragione, doc, lui tira sempre dritto per la sua strada come uno schiacciasassi, sembra che se ne freghi di tutti e finirebbe per far perdere la pazienza a Gesù Cristo in persona, ma c'è sempre una buona ragione dietro a quello che fa, anche se è difficile da vedere."
"Come impedire che un epidemiologo fuori di testa si trastulli con armi biologiche." concesse John. Vero, tutto vero. Non per quello più facile da accettare.
Violet continuava ad agitarsi come un fringuello "A te ci tiene un casino. Andiamo, lo sai..."
"Se ci tiene così tanto, dov'è adesso?"
Violet occhieggiò in direzione dell'ingresso della stazione e balzò in piedi con un sorriso "Sta per mettere le mani addosso a... un testimone di Geova, credo."
"Cosa?" John seguì lo sguardo della ragazza ed individuò subito la figura allampanata avvolta nel cappotto scuro, che spintonava malamente un uomo che gli stava mostrando libri ed opuscoli; Sherlock gli sbraitò in faccia qualcosa e quello si fece saggiamente da parte, andando ad occuparsi della salvezza di qualche anima meno irascibile di quella.
Violet si sbracciò con il caschetto in mano per farsi notare, prima di calarselo in testa "Digli che mi deve un favore, e di quelli grossi. Per il resto - scrollò le spalle - la decisione è tua, doc. Ma spero facciate pace." Poi scavalcò di nuovo la recinzione e sparì oltre la massicciata.
Sherlock arrivò di corsa e si fermò esitante di fianco alla panchina.
John si impose di non guardarlo, nonostante una parte di lui volesse a tutti i costi controllare i segni lasciati dai suoi pugni. Era inevitabile, si disse, perché era pur sempre un medico.

"Oh no!" esclamò Violet stizzita, non trovando più la bicicletta dove l'aveva parcheggiata.
"Questa è una zona pericolosa, signorina Violet. Avrebbe dovuto almeno legarla con una catena." Da una limousine dai vetri oscurati emerse Mycroft Holmes in un elegante completo gessato scuro ed appoggiato all'immancabile ombrello nero.
"Cavoli..." pigolò la ragazza. Valutò se tornare di corsa sulla banchina per nascondersi dietro al cappotto di Sherlock ed additarlo come unico responsabile di tutto.
"Non è il caso - Mycroft sorrise come un leone alla vista di un cucciolo di gazzella - mio fratello ed il dottor Watson avranno molte cose da dirsi. Venga, la sua bicicletta l'ho presa io in custodia, per evitare che venisse rubata." indicò il bagagliaio dell'auto con l'ombrello.
"Che pensiero gentile. Quindi posso andare?"
L'autista della limousine, una specie di grosso armadio antropomorfico, le aprì la portiera posteriore.
No, evidentemente non poteva.
"Preferirei un mezzo di trasporto più ecologico." insisté.
"E' un'auto ibrida. - disse Mycroft accomodandosi ed invitandola a fare altrettanto - Prego, signorina Violet."
Rassegnata, la ragazza prese posto di fronte all'uomo. Quando l'autista si sedette al posto di guida, le sospensioni dell'auto si abbassarono di svariati pollici. Chauffeur e demolitore a mani nude nel tempo libero, probabilmente.
L'auto partì e si mosse lentamente nel traffico, prima di imboccare impunemente la corsia riservata ai mezzi pubblici.
"Nella sala di controllo del traffico ferroviario si stanno ancora lambiccando il cervello per capire l'origine del guasto al computer. Non hanno capito che si è trattato di un attacco informatico e dubito lo capiranno mai." la informò il maggiore degli Holmes.
"E perché lei è convinto che lo sia?"
"Ho molti pregi, signorina Violet, tra cui la pazienza, ma non tollero che si insulti la mia intelligenza."
Violet deglutì nervosamente e mormorò un 'mi scusi'.
L'auto avanzava piano, fermandosi spesso a qualche incrocio congestionato. Tutto attorno all'abitacolo risuonava una sinfonia di claxon rabbiosi. "Questo blocco dei treni ha causato ingorghi spaventosi." sospirò il maggiore degli Holmes.
"A dire il vero i treni locali sono sempre in ritardo, pensavo che nessuno notasse la differenza."
L'occhiata che le rivolse Mycroft la fece desistere dal fare ulteriori battute di spirito. Preoccupata, si chiese se il Governo Inglese fosse solito utilizzare metodi mafiosi nello stile dei Sopranos per eliminare povere hacker innocenti. Sarebbe finita incementata nelle fondamenta di qualche palazzo? Sul fondo del Tamigi a far compagnia ai pesci? A quelli sopravvissuti all'inquinamento, ovviamente.
Tutti i suoi tentativi di conversazione andarono a vuoto e quando una indecifrabile quantità di tempo dopo l'auto si fermò, la ragazza era seriamente sulle spine. "Ohi, guardi che è stato Sherl a chiedermi di farlo!" esclamò allarmata.
Ma l'autista si limitò ad aprirle la portiera e a ridarle la bicicletta. Violet guardò con stupore il luogo dove era stata scaricata "E' casa mia."
"Mio fratello resterebbe deliziato da tali capacità deduttive - Mycroft le rivolse un cenno del capo - Buona serata, signorina Violet."
La ragazza lo squadrò diffidente "Tutto qui? Posso andare? Cioè... cos'è stato questo viaggio in auto, una specie di penitenza?"
"No, solo un passaggio." le rispose serafico Mycroft, congedandola con un altro sorriso inquietante.

Sherlock era sgattaiolato tra le autopattuglie ferme davanti a Baker Street per arrivare alla stazione di Paddington nel più breve tempo possibile, ma durante il tragitto non era riuscito ad elaborare alcun piano geniale per convincere John a tornare a casa, il suo cervello era troppo impegnato a pregare che il suo dottore fosse ancora lì e che almeno non fuggisse alla sua vista.
John non era scappato, in effetti, ma continuava a fissare ostinatamente la punta delle sue scarpe come se lui non fosse lì e Sherlock ebbe paura che nulla di ciò che poteva dire l'avrebbe convinto a perdonarlo.
Era così, vero? Questa volta si era spinto troppo oltre e aveva finito per far scappare via anche l'unica persona che gli era rimasta accanto nonostante tutto e nemmeno tutte le giustificazioni del mondo avrebbero potuto sanare quella ferita, ferita che lui stesso aveva aperto.
"Se sei venuto per restare qui impalato a non dire nulla, puoi anche andartene." la voce di John risuonò aspra, arrabbiata e lui non riusciva a trovare le parole: aveva capito da tempo che quando c'erano di mezzo i sentimenti a nulla servivano le sue geniali capacità deduttive. Cervello e cuore erano su piani completamente differenti e di solito era sempre John ad aiutarlo a capire e fronteggiare le emozioni. Ma ora John non lo avrebbe aiutato: poteva sentire la rabbia del suo dottore pulsare, come il pugno sul viso e nello stomaco che gli aveva tirato.
"Mi dispiace." disse piano. Oh dio, era patetico.
"Ti dispiace. - ripeté John, ostile - Sherlock, mi hai lasciato credere che fossi in fin di vita."
L'altro chinò la testa "Lo so."
"Ti ricorda niente?"
Sherlock chiuse gli occhi e non rispose. Non c'era bisogno di farlo.
"Sapevi che avrei sofferto."
"Sì." sussurrò appena. Lo sapeva, lo sapeva perché lui aveva provato lo stesso dolore nel dovergli mentire. Ma non era sicuro che John gli avrebbe creduto.
"Però lo hai fatto lo stesso. - proseguì il dottore - Di me non te ne frega nulla."
"No, no! Questo non è vero." esclamò Sherlock accalorato e si inginocchiò davanti a lui, perché lo guardasse, perché vedesse quanto era disperato in quel momento.
John strinse le labbra "Come posso crederti? Non hai avuto alcuna esitazione a mentirmi."
"Non è così. Ammetto che questo caso era almeno da otto e mi attirava moltissimo, ma per la prima volta sono stato sul punto di rifiutare e chiedere a Mycroft di occuparsi da solo della cosa. Sono stato in dubbio fino all'ultimo, credimi!" Avvicinò una mano al suo viso, senza tuttavia avere il coraggio di toccarlo.
"Potevi dirmelo. Ti avrei retto il gioco, lo sai."
"Oh John - Sherlock scosse la testa - non sai quanto avrei voluto farlo. Il problema è che tu sei un ottimo medico, ma un pessimo attore [8]. Culverton Smith è un uomo molto intelligente, doveva assolutamente credere che io fossi in fin di vita, solo così avrei potuto incastrarlo e farmi dire dove si trova l'antidoto, perché da solo non ero riuscito a scoprirlo. E se tu non fossi stato più che convincente, avrebbe mangiato la foglia."
Come quando si trova finalmente la giusta collocazione per la tessera di un puzzle, John riconsiderò lo strano comportamento del consulente investigativo dei giorni precedenti. Dunque era per questo che era così nervoso? Quindi non era arrabbiato, in realtà. Era tormentato per quello che stava per fare, perché stava per ingannarlo.
"Però - proseguì Sherlock - ho messo apposta il pc nella tua stanza, perché volevo che l'inganno durasse solo lo stretto necessario. Volevo che vedessi e che capissi."
"Oh certo! Date loro un live streaming del genio di Sherlock Holmes e vi seguiranno per tutta la vita. Come quando si dà un croccantino ad un cane." sbottò John con rancore.
Sherlock ritrasse la mano come se si fosse scottato e John fu quasi sul punto di afferrarla e stringerla tra le sue, prima che l'orgoglio lo fermasse. E ascoltando cosa disse Sherlock subito dopo, si disse che aveva fatto bene.
"Prima di conoscerti era tutto più facile; non avrei avuto alcuno scrupolo né ripensamento a fare questo o anche di peggio. Il lavoro veniva prima di tutto e non dovevo preoccuparmi dei sentimenti di nessuno."
"Se è questa la vita che ti piace, ti accontento subito e me ne vado."
"No John. Ho detto che era più facile, non più bello."
John schioccò la lingua irritato: non si sarebbe lasciato commuovere da un complimento tanto banale.
Non si sarebbe sentito scaldare il cuore, al pensiero che Sherlock trovava bella la vita con lui, alla sincerità di quella dichiarazione che poteva leggere nei suoi occhi.
Assolutamente no.
"Non voglio tornare indietro - proseguì Sherlock - non rinuncerei mai a ciò che abbiamo adesso. E quello che ti ho detto oggi pomeriggio, in camera, era vero: ti amo."
"Oh, non faceva parte della recita?"
"No, John. Non pensare questo, mai." Avvicinò di nuovo la mano al suo viso.
"D'accordo, forse non hai preso a cuor leggero la decisione di mentirmi, ma alla fine l'hai fatto comunque. Evidentemente ci sono cose che per te contano più di noi. Di me."
"No - negò ancora il detective - adesso sei tu che vieni prima di tutto. E' con questo spirito che ho accettato di occuparmi di questo caso."
"Sherlock, ora ti stai arrampicando sugli specchi."
"E' la verità. Ascolta, prima di ricattare la Corona, Culverton Smith aveva in mente una serie di azioni dimostrative su larga scala, per dimostrare che il suo non era un bluff."
"Cioè?"
"Stava progettando un attentato a uno degli acquedotti cittadini, ne ho le prove."
"Dopo gli attentati del 7 luglio sono alcuni degli edifici più controllati dopo Buckingham Palace e il parlamento. Che percentuale c'era che Smith riuscisse sul serio ad infettare le acque?"
"Circa l'uno per cento."
John lo guardò incredulo: Sherlock gli aveva sul serio fatto passare l'inferno per un'ipotesi tanto remota?
"Quindi c'era l'uno per cento di possibilità che tu ti ammalassi e io non sapevo dove custodiva l'antidoto. Per me non era una percentuale di rischio accettabile, John."
Quello era un colpo basso emotivo.
A Sherlock non importava di Londra e dei suoi milioni di abitanti che potevano finire avvelenati, gli importava solo di lui. In quel momento ebbe la certezza che Sherlock non avrebbe esitato a sacrificare l'umanità intera per la sua salvezza ed il pensiero gli causò quasi una vertigine.
Era un po' difficile non sentirsi scaldare il cuore, ora, e il suo orgoglio si ritirò in buon'ordine, senza fare ulteriori commenti.
"Ti amo John." La sua mano ora quasi gli sfiorava il viso. John poteva sentirne il calore, il desiderio di toccarlo, di capire se ancora gli appartenesse. John si sporse verso di lui "Dovrei dirti di sparire, dovrei dirti che non voglio più avere niente a che fare con te. Insomma - sospirò - non potresti dimostrarmi i tuoi sentimenti portandomi al cinema o a cena come tutti gli uomini normali?"
Sherlock cercava, cercava disperatamente un qualsiasi segnale sul corpo di John che potesse fargli capire se poteva finalmente azzerare quella distanza e toccarlo. "Noioso?" sussurrò infine, toccandogli la guancia con la punta delle dita.
Accidenti a Sherlock e al suo modo così contorto e doloroso di amare, accidenti anche a lui, si disse John, se bastava così poco a farlo capitolare.
Ed evidentemente era proprio un pessimo attore, dato che il detective sembrava già aver dedotto tutto quello che c'era da dedurre dal suo volto e quegli occhi dal colore impossibile si animarono di speranza.
"Ah, vieni qua." John gli passò una mano dietro la nuca e lo attirò a sé, lasciando che Sherlock seppellisse il volto nel suo maglione e lo stritolasse in un abbraccio soffocante. Poi fece scivolare la mano sulle spalle e percepì i suoi tremiti; avrebbe dovuto sentirsi meglio al pensiero che anche Sherlock era stato male e aveva sofferto, ma così come era successo per i pugni, si sentì soltanto annodare lo stomaco. Era ancora arrabbiato per quanto successo, ma l'amore che provava per Sherlock superava di gran lunga qualsiasi altro sentimento e la conferma che fosse reciproco era lì, sotto ai suoi occhi.
La stretta attorno alla sua vita si fece quasi insostenibile. "Mi dispiace." ripeté ancora Sherlock contro il suo stomaco.
John lo abbracciò a sua volta e restarono lì, incuranti della folla arrabbiata che si muoveva attorno a loro e ai pochi che lanciavano loro occhiate perplesse o infastidite. Passando una mano tra i capelli di Sherlock, John sentì un rigonfiamento appena sotto l'osso parietale "Ci hai messo del ghiaccio, disgraziato?"
Sherlock scosse la testa, restando avvinghiato a lui.
"Dai, andiamo a casa, così potrò medicarti."
"Anch'io."
"Ma io non sono ferito." disse John, confuso.
"Sì, invece. - Sherlock sollevò una mano e gliela appoggiò sul petto, all'altezza del cuore - Qui. Lascerai che ti curi, John?"
E per la seconda volta quel giorno John Hamish Watson dovette imporre a se stesso di non mettersi a piangere. "Va bene."
"Mi perdoni? Mi perdoni, John?"
"Adesso sei 'guarito', no? Quindi penso di poter accettare le tue scuse. - il dottore si arrese - E poi, dove lo trovo un altro uomo che ferma l'intero traffico ferroviario di Londra per me?"


Each time I say something I regret I cry "I don't want to lose you."
But somehow I know that you will never leave me, yeah.
'Cause you were made for me
Somehow I'll make you see
How happy you make me.

EVANESCENCE - Forgive me




FINE

= < > = < > =

NOTE

[1] E' una delle più importanti università inglesi ed è all'avanguardia nel campo della medicina.

[2] Avrei voluto usare il proverbio "Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino", ma in inglese non esiste. Ciò che ci si avvicina di più sono "Curiosity killed the cat" e quello che ho scelto, modificandolo leggermente: "A pitcher goes so often to the well, that in the end it is broken."

[3] Capitale del Liechtenstein.

[4] E' la rete di telecamere che controllano la città, quelle che usa Mycroft in ASiP per far sapere a John che lo sta controllando.

[5] Il MI5 è un'agenzia che è parte dei servizi segreti britannici. Ho letto diverse fanfiction inglesi secondo cui Mycroft sarebbe a capo di questa agenzia. Headcanon accepted.

[6] Il proxy è un programma che si frappone tra client e server. Ce ne sono di diversi tipi, può anche fungere da firewall, ma in generale sono usati per mascherare gli indirizzi IP di chi accede alla rete. In particolare i proxy distorcenti trasmettono IP casuali.

[7] La battuta in realtà è di Mick Jagger a proposito della carriera dei Rolling Stones: “We were young, good-looking and stupid. Now we’re just stupid.”

[8] Semi-citazione dalle battute finali del racconto del canone.

L'attentato e il nome del centro commerciale di Liverpool sono inventati di sana pianta.

   
 
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