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Autore: Angy_Valentine    28/10/2012    8 recensioni
«Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».
[...]
Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

**
[Crossover Bleach/D.Gray-man][Crosspairing][LaviRuki][Byakuya x Hisana][Het][!Linguaggio][Angst]
[Sospesa in via definitiva]
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Byakuya Kuchiki, Hichigo, Hisana Kuchiki, Kuchiki Rukia
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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No, vabbé, famo record di ritardi :’’D Chiedo umilmente perdono! Ma come vedrete questo capitolo è lungo, ma luuuuuuuuuungo! Spero che comunque non vi annoi, davvero. Ci tenevo ad aggiornare prima di andare a Lucca, senza contare che sono già parecchio in ritardo rispetto all’aggiornamento precedente D:
Ma bando alle ciance, signori. Inutile dire che ringrazio di cuore tutti quelli che seguono questo ciarpame di storia (:’D) e che ancora hanno la forza e il coraggio per andare avanti e sostenermi nonostante i numerosissimi periodi no: grazie davvero!
Come sempre, l’invito a farmi sapere cosa ne pensate è più che valido! Davvero, fatemi sapere se per voi sto andando troppo a passo di lumaca, troppo veloce, troppo… boh. Insomma, fatemi sapere çwç <3 Ah, sì, un’ultima nota! Ludovico Einaudi mi è stato di grande aiuto per la parte con Byakuya e Hisana (MA VA’), specie con le note di Oltremare, Primavera e Divenire. Anche se in generale sono stupende tutte, vi consiglio davvero di ascoltarle, se amate il genere <3
Detto questo mi eclisso e vi lascio alla lettura <3


Capitolo 10 – Distanze






Quella sera, mentre cenavano, il vecchio Bookman non poté fare a meno di notare la tensione che c’era a tavola. Deak mangiava in silenzio come sempre, lanciando rapide occhiate al televisore mentre ascoltavano il Tg serale, ma Lavi… Lavi sembrava su un altro pianeta. Si vedeva che mandava giù i bocconi tutt’altro che convinto, come se a bloccare il cibo ci fossero quelle parole che, insistenti, premevano dalla sua lingua per uscire. Di solito era il primo a commentare le notizie, mentre quella sera non aveva alzato una sola volta lo sguardo sulla televisione, che proseguiva imperterrita nella sua programmazione. Il vecchio depositò le bacchette sull’apposito appoggio, prima di ripulirsi la bocca e piantare gli occhi scuri sul nipote più pensieroso.
«Ti vedo preoccupato, Lavi.».
Il ragazzo sobbalzò leggermente, fermando a mezz’aria la corsa delle bacchette dalla ciotola alla bocca. Ricambiò per qualche attimo lo sguardo dell’anziano, per poi scuotere la testa.
«Non è niente, nonno. Pensavo solo… che forse ho trattato troppo male una persona che voleva aiutarmi.» mormorò, riprendendo a mangiare.
Per la prima volta da quando avevano iniziato a mangiare, Deak prese parola lanciandogli un’occhiata scettica.
«Che avevi, eri rimasto indietro col compito?».
Lavi negò nuovamente con un cenno del capo, alzando il viso a cercare quello sguardo smeraldino simile al suo, facendogli capire che forse gliene avrebbe parlato più tardi.
«Ti sei scusato, allora?» chiese il vecchio Bookman.
«Certo, certo.» replicò prontamente il ragazzo «È che mi dispiace davvero, sono stato brusco e non se lo meritava. Ma con lo stress di questi giorni, l’esame e via dicendo… le ho risposto un po’ male.».
«“Le”?» ripeté il gemello «Stai forse parlando di Rukia?».
Stavolta gli toccò annuire, dopo qualche istante d’esitazione. Non avrebbe retto ancora a lungo, voleva parlare, dannazione, dirgli quel che pensava. Ma non voleva far impensierire anche il vecchio, non era decisamente il caso vista anche l’età non proprio giovanissima. Cercò d’ignorare il verso stizzito di Deak, che aveva stretto l’occhio fino a renderlo una fessura da cui quell’iride verde lo scrutava con evidente rimprovero. Non era così che doveva comportarsi, Lavi. Stava rischiando di mandare all’aria anni di duro lavoro, aveva faticato tanto per rendersi insensibile al resto del mondo. Non doveva lasciarsi influenzare, assolutamente – e per farlo doveva evitare qualsiasi legame. Era difficile, tanto difficile, e Lavi se ne rendeva conto ogni giorno di più. Eppure non voleva rischiare ancora di stare così tanto male. I suoi precedenti bastavano e avanzavano, non c’era bisogno di aggiungere altri problemi alla lista. Finì velocemente il proprio pasto e si alzò per portare via i piatti, andando a rifugiarsi in cucina per lavarli. Il vecchio Bookman fece per seguirlo, ma un cenno di Deak lo portò a desistere: ci avrebbe parlato lui, lasciò intendere, giustificando quell’intesa tra loro alla classica complicità tra gemelli che condividevano anche i medesimi trascorsi.
Si appostò per una manciata di minuti alla porta della cucina, osservando il fratello che era del tutto ignaro dell’attento esame a cui Deak lo stava sottoponendo – del resto non poteva vederlo, considerato il fatto che l’altro stava alla sua destra, dal lato dell’occhio bendato. Deak cercò di capire cosa diavolo gli stesse passando per la testa, ma invano: lui non riusciva a comprendere quel ragazzo dal viso identico al suo, ma con uno sguardo cento volte più triste e vulnerabile. Si rese conto che, pur condividendo i lineamenti, quegli stessi capelli rossi e le iridi verdi, sebbene fossero nati dalla stessa madre, fossero stati insieme sin da quand’erano nel ventre di quella donna, lui non conosceva affatto quel ragazzo chiamato “Lavi”. Anni e anni passati ad isolarsi da tutti, anche da lui, l’avevano portato inconsciamente ad allontanarsi anche da quel solido legame di sangue che li teneva uniti, almeno sulla carta. Aggrottò per un istante le sopracciglia, senza staccare lo sguardo da quel profilo così simile al suo: aveva fatto davvero bene a trincerarsi dietro al cinismo e all’indifferenza anche con suo fratello? Lavi aveva cercato tante volte il suo sostegno, anche da bambini, in quelle notti in cui si rintanava nel suo letto e gli stringeva il pigiama, ma lui aveva sempre continuato a voltargli la schiena. Nemmeno quando lo sentiva singhiozzare nel sonno, stretto a quell’ingombrante peluche a forma di coniglio, s’era mai preoccupato di sincerarsi delle sue condizioni – e intanto lo sentiva, non mollava la presa sulla stoffa della sua giacca, stropicciandola nel pugnetto. Ma lui, ostinatamente, preferiva non pensarci. Aveva già abbastanza rogne a cui pensare, si diceva sempre, senza stare a tormentarsi anche per quelle degli altri. Sapeva che Lavi sarebbe stato l’ultima persona al mondo che l’avrebbe tradito, eppure… preferiva andarci cauto, in ogni caso, onde evitarsi brucianti delusioni in seguito. Aveva eretto anche contro di lui spessi muri, di quando in quando sentiva che Lavi tentava di riavvicinarsi – ma ecco che il timore, l’abitudine a fregarsene di lui, lo portava ad ignorarlo. Intimamente era consapevole del fatto che Lavi si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che tradirlo, i loro trascorsi li avevano saldamente uniti, ma anche divisi. Perché Deak aveva paura e per proteggersi ancora, per non soffrire più, aveva sbarrato le porte del proprio cuore con tutti, proprio con tutti. Ecco cosa l’aveva portato a non capire nemmeno più il proprio fratello.


Quando Lavi tornò in camera trovò Deak seduto sul suo letto, in attesa con le braccia blandamente poggiate contro le ginocchia. Deglutì con un certo nervosismo, richiudendo la porta dietro di sé e cercando di evitare il suo sguardo. Digrignando appena i denti l’altro si alzò e gli si piazzò davanti, incrociando le braccia al petto e cercando insistentemente quell’iride verde che continuava a sfuggire alla sua.
«Allora, si può sapere che hai?» sbottò dopo pochi attimi.
«Niente.» fu la pronta risposta dell’altro, che lo sorpassò per andare a prendere posto sul letto.
«Niente un corno, Lavi, non sono fesso. Che diavolo ti sta passando per la testa, eh? Prima hai accennato a Rukia ed a quel che le hai risposto oggi.».
Lavi abbassò lo sguardo, tormentandosi nervosamente le mani. Nemmeno lui sapeva cosa fare, se raccontare o meno al fratello quel che era accaduto in facoltà – e da una parte, temeva che spifferare tutto avrebbe oltremodo peggiorato la situazione. Ma Deak non era tipo da lasciarsi liquidare tanto facilmente, non era di certo stupido e sapeva che a lui non era capace di mentire, neanche volendolo.
«Loro… cioè, Rukia e sua sorella… hanno capito qualcosa.» mormorò, ben tenendo la testa bassa. Non poté notare quanto i lineamenti di Deak si fossero induriti in quel momento, mentre aspettava che dicesse altro «Non cosa c’entri davvero quel tipo, ma… a Capodanno non siamo passati inosservati, ecco.».
«Se ne sono accorte, dici? Rukia ti ha fatto qualche… domanda?».
«Oh, no, no. Rukia pensava che in questi giorni… insomma, tenessi le distanze e fossi nervoso per colpa di qualcosa che avevano fatto lei e sua sorella. Era venuta a chiedermi cos’avessi, se era colpa sua, per scusarsi, ma… ha capito che quei documenti che hai trovato, che hai visto, c’entrano qualcosa.».
Deak masticò un’imprecazione, passeggiando inquieto per la stanza. Ogni tanto tornava a scrutare il viso del fratello, nella speranza che aggiungesse altro – tipo che a scanso di equivoci futuri, le sarebbe stato ben distante. Era quella la cosa giusta da fare, sì. Se le gemelle erano coinvolte anche minimamente con quell’individuo, la cosa migliore da fare era tagliare al più presto i ponti con loro. Diavolo, possibile che tra tutte le persone che dovevano incontrare, gli erano capitate tra capo e collo proprio le sorelle di un avvocato che aveva dichiarato guerra a quel bastardo? Sapeva da sé che le ritorsioni non si sarebbero fatte attendere. E questo lo sapeva bene anche Lavi.
«… dovremmo avvertirle.» disse infatti il ragazzo seduto sul letto, ingoiando a fatica quel boccone amaro.
«Non se ne parla. Sai meglio di me che se le mettessimo in guardia contro quello lì, si chiederebbero come e perché ne siamo tanto sicuri. E io non ho nessuna intenzione di sbandierare ai quattro venti quello che è successo.» fu la secca replica di Deak, che gli scoccò un’occhiata truce.
«Ma hanno il diritto di sapere! Sai benissimo cosa sarebbe in grado di fare, anche solo per ripicca!».
«Lo so, Lavi! Cazzo, lo so! E sentiamo, se Rukia ti chiedesse come fai a sapere che è gente pericolosa, tu come risponderesti? “L’ho sentito dire in giro”? Non crede più nessuno a certe cazzate, e Rukia non mi pare una stupida.».
«Potrebbe farle qualcosa, però. A lei, o a Darukia.».
Stavolta Deak si prese diversi istanti prima di rispondere. Strinse i pugni con forza, scostando lo sguardo dal fratello e digrignando i denti. Sapeva che ciò che stava per dire poteva risultare una carognata, ma sottilmente rispecchiava anche i suoi pensieri.
«Te ne importerebbe qualcosa? Diavolo, Lavi, meno ci troviamo tra i piedi chi ha a che fare con lui anche così poco, e meglio è. Non ho nessuna intenzione di rivederlo, nemmeno per sbaglio, men che meno per colpa di quelle due. Se dobbiamo dircelo chiaramente, meglio loro che noi.».
Lavi lo guardò con tanto d’occhi, incredulo. Non riusciva a credere di aver sentito davvero quelle parole. Al cinismo di Deak era abituato, ma non pensava potesse spingersi a tal punto.
«Stai scherzando, vero? Non hanno fatto niente di male per meritarsi tanta bastardaggine da parte tua!» ribatté, accigliandosi «Sono pur sempre nostre amiche!».
«Scusa?!» ripeté l’altro, portandosi una mano dietro l’orecchio «“Amiche”? Ora sono io che spero in un tuo scherzo, Lavi. Sei davvero un idiota se credi ancora nell’amicizia, se ancora provi a fidarti degli estranei, quando sai benissimo che non aspettano altro che un’occasione per fregarti. Possiamo fidarci solo di noi stessi, tra di noi, e STOP.».
«Non dire stronzate!» Lavi si tirò in piedi, fronteggiando il fratello. Non era da lui dargli contro così, lui che era sempre stato il più pacato e che aveva sopportato tante parole velenose da parte sua, perché era pur sempre suo fratello, per il quieto vivere di casa «Cristo, Deak, ci hanno accolti a braccia aperte! Chi altri mai ci ha invitati a casa loro per studiare, per fare una festa, anche solo per uscire una sera tutti insieme? Mai, tu per primo hai sempre tenuto un muso tale da spaventare chiunque provasse ad avvicinarti! Qui non ci hanno fatto niente di male, anzi! Ci hanno trattati come se fossimo sempre stati loro amici!».
Deak rimase alquanto sorpreso dalla reazione di Lavi. Era forse la prima volta che lo vedeva infervorarsi così, ribattergli qualcosa, contestargli pareri che non gli andavano a genio. E gli rodeva da morire ammetterlo, ma aveva ragione – mai, in nessun’altra città in cui avevano vissuto erano stati accolti così bene dai ragazzi della scuola. Certo, a parte i saluti e le frasi di circostanza, ma mai un invito, mai un pomeriggio passato insieme, seppur a studiare. Ma lui si rifiutava di darsi la colpa di ciò, la sua era… una naturale reazione alle mazzate ricevute. Il mondo si era rivelato troppo presto infido con loro e, piuttosto che permettere a qualcuno di ferirlo di nuovo, preferiva isolarsi completamente. Perché Lavi non la vedeva allo stesso modo? Perché? Era forse la lotta interiore peggiore che avesse mai passato. Lavi lo stava facendo incavolare di brutto, lui si preoccupava che nessuno potesse più nuocere ad entrambi e suo fratello che faceva? Si rifiutava di allontanarsi da quelle persone che, seppur inconsciamente, stavano per gettarsi tra le braccia di uno psicotico da manicomio. Se solo quello fosse venuto a conoscenza della loro presenza in quella città, si sarebbero visti costretti ad organizzare in fretta e furia un altro trasloco, il più lontano possibile. Sì, scappavano da anni eppure a Deak non costava ammetterlo. Non si vedeva un vigliacco. Desiderava solo poter vivere in pace.
«Okay, su questo hai ragione. Mi stai dicendo che, se capitasse l’occasione di rischiare di finire negli intrallazzi di quell’uomo, ti ci butteresti tu per salvare loro?».
Lavi fece un passo indietro, abbassando leggermente lo sguardo. Messa così, non poteva dare del bastardo a Deak. Forse avrebbe avuto paura e sì, probabilmente avrebbe spinto nella trappola Rukia o la sorella per salvarsi la pelle. Non aveva alcun diritto di criticare il fratello, anche se più combattuto era un vile proprio come lui. D’altro canto, però, non poteva nemmeno esserne sicuro. Kaien, Rukia, Grimmjow, i gemelli Kurosaki, Kukaku, Orihime, Kanda… erano tutti così diversi, sì, eppure l’avevano accolto a braccia aperte tra di loro. Nessuno l’aveva giudicato per la benda che portava, per il suo inusuale colore di capelli naturale, o per il fatto che non parlava volentieri dei suoi trascorsi o della sua famiglia. Lo avevano trascinato senza porgli domande, senza obbligarlo, facendolo sorridere sinceramente come non faceva da troppo tempo. Kaien in particolare si era rivelato il miglior amico che avesse mai avuto, con la sua irrefrenabile parlantina, gli scherzi che combinava a Grimmjow, e tutte le volte che l’aveva invitato a casa sua a studiare o passare un pomeriggio all’insegna dell’assoluto relax, con chiacchiere, patatine e coca-cola. E poi… beh, sì, c’era anche Rukia. Quella stessa ragazza che aveva conosciuto facendo una figuraccia assurda, facendola arrabbiare, e che poi si era fatta avanti per prima quando l’aveva visto allontanarsi senza spiegazioni, prendendosi una colpa che non aveva, scusandosi per qualcosa che non aveva fatto. Non aveva mai avuto tempo da dedicare all’amore o ai rapporti con le ragazze, Lavi. Anzi, non ne aveva mai avuto l’occasione. Ai tempi delle medie era l’amichetto da tenersi buono per i compiti, un po’ ingenuo e timido, ma che le ragazzine evitavano per via di quella benda nera che per loro nascondeva qualcosa di orribile e con cui non volevano aver nulla a che fare. Prima dell’inizio del liceo si erano trasferiti, ma le cose non erano di certo migliorate. Era sempre stato un tipo abbastanza amichevole, nel suo costante bisogno di farsi accettare, di sentirsi dire che non era anormale per quella benda, per quei capelli dal colore così particolare, per il fatto che non avesse i genitori. Eppure si era sempre visto relegare tra “gli sfigati” che nessuna si filava particolarmente, che non vestiva di marca per tirarsela, che non frequentava locali “giusti”, che non passava da una ragazza all’altra solo per tenere il conto delle paia di gambe che apriva al mese. Era riservato, sì, forse pure troppo, e nessuna tra le ragazze che aveva conosciuto sembrava disposta ad aspettare pazientemente, scavare con discrezione per capire cosa si celasse dietro quelle mura invisibili che Lavi aveva eretto attorno a sé. Però lei, così piccola eppure così forte, si era avvicinata in punta di piedi, con delicatezza, cominciando a grattare sulla spessa coltre di ghiaccio. Certo, si trovava bene anche con Lenalee, Kukaku, Orihime o Tatsuki, e anche Darukia si era rivelata una compagnia piacevole, ma… ma Rukia, senza far nulla di speciale, faceva oscillare quelle mura. A parole, gesti, silenzi. Con quel suo essere così preoccupata a vederlo allontanarsi, come se non volesse, come se le dispiacesse. Ormai non era più “quello nuovo”, era da mesi che si conoscevano, non poteva ritenersi tra i veterani della sua sfilza d’amicizie ma non si sentiva più in imbarazzo quando stava in mezzo a loro, in attesa che qualcuno lo tirasse in mezzo per scambiare quattro chiacchiere, o travolgendo a propria volta gli altri con un fiume di parole. Certo, aveva la battuta pronta, sapeva far ridere e affascinare con le parole, ma sapeva anche quando era il momento di tacere, evitando di intervenire in mezzo ad un discorso che non lo riguardava. Non aveva neanche mai sperimentato l’amore, Lavi. Stava inconsciamente scoprendo cosa volesse dire affezionarsi a qualcuno. E a Rukia ci teneva, accidenti, e non sapeva nemmeno spiegarsi cosa l’avesse spinto a tal punto. Forse, ed era un forse… per il bene di quelle persone che senza volerlo aveva iniziato a reputare importanti l’avrebbe fatto, si sarebbe buttato al posto loro.
«… Non lo so, Deak. Non me la sento nemmeno di dirti che no, manderei loro ad occhi chiusi. Non sono così bastardo da… da non accorgermi di quanto siamo stati accettati, qui.» mormorò infine, tenendo la testa bassa.
«Stai dando del bastardo a me, però.».
«Non ho detto questo! Oddio, forse sì, e… e capisco anche la tua paura. Ma non è giusto, Deak, non dopo quello che hanno fatto per noi. Mamma non lo vorrebbe.».
«Tsk, come se potessi sapere cosa vorrebbe. Alla fine ci ha mollati pure lei.».
«Ci ha salvati, vorrai dire!».
«Salvati? SALVATI?!» ringhiò Deak, nero di rabbia, stringendo il bavero del maglione di Lavi e guardandolo con odio «Se avesse voluto salvarci davvero, non ci avrebbe mollati davanti alla porta di un orfanotrofio! Sarebbe rimasta con noi, ma lontani da quella casa! Invece no, ha preferito piantarci lì come rifiuti, piuttosto che scappare con noi, piuttosto che rinunciare ai lussi di quella villa! Che cazzo di madre è una che smolla i figli davanti ad un istituto senza la minima spiegazione, buttandoli tra le braccia di gente sconosciuta, e che non si fa più viva nemmeno per telefono?! AVEVAMO SOLO QUATTRO ANNI, LAVI! COME CAZZO FAI A DIRE CHE CI HA SALVATI?!».
«Deak, in quella casa ci stavano uccidendo! Anch’io avrei preferito che venisse con noi, cosa credi?!» ribatté l’altro, stringendo le mani sopra quelle del gemello, che gli stavano stritolando il colletto del maglione. Diamine, non l’aveva mai visto così arrabbiato «Per lo meno non siamo rimasti lì. Non siamo più stati obbligati a sorbirci quei trattamenti!».
«Ah, perché i dispetti e le bastardate che ci riservavano quegli stronzi che stavano con noi all’istituto erano meglio, vero?! Era meglio la pietà dei grandi che se ne uscivano con quei “Poverini, non siate cattivi, hanno pure un occhio che non va, non fategli i dispetti”, manco fossimo dei cretini indifesi, quando sapevano benissimo che quei dispetti erano intenzionali! Ti sei mai sentito accettato, Lavi?! Siamo sempre stati guardati con ribrezzo, per queste bende, per… per tutto! Con che coraggio puoi ancora fidarti degli estranei?!».
«Lo so, Deak, e dammi pure dello stupido. Ma ormai siamo grandi, tutti e due. Anch’io ho paura, accidenti! Però sono stanco di scappare, di… di tenermi a distanza da tutti per paura di rimanerci ancora male. Qui – sì, proprio qui, anche se c’è qualcuno che conosce quel bastardo – possiamo rifarci una vita, avere rapporti… normali, come tutti. Non dico che… che dobbiamo raccontare tutto a tutti. Ma almeno un inizio… un briciolo di fiducia…».
«Ma nemmeno per sbaglio. Se hai voglia di farti fregare di nuovo prego, accomodati, non sperare che ti segua come un idiota.» lo zittì ringhiando tra i denti, mollandogli la maglia con sgarbo e avviandosi verso la porta, rivolgendogli un ultimo sguardo «Ma lo giuro, guai a te se te ne esci con quello che ci è successo, cosa c’è sotto queste fottute bende. Parlane con qualcuno e lo giuro su quel che ti pare, te ne farò pentire amaramente. A costo di dimenticarmi che sei mio fratello.».
Lavi lo vide uscire sbattendo pesantemente la porta, restando piantato in mezzo alla stanza senza riuscire a reagire. Non aveva mai litigato così con Deak e, contrariamente a quel che poteva pensare, non era nervoso o arrabbiato con lui. Era più che altro… mortificato. Perché a Deak voleva un bene dell’anima, anche se aveva un carattere tutt’altro che facile, e l’idea di vederlo così deluso e amareggiato gli dispiaceva. Lo capiva, sì, ma… ma era ingenuo, forse. Voleva fare un tentativo, provare a fidarsi di quei ragazzi che l’avevano accolto con un affetto che in più di vent’anni Deak non gli aveva mai dimostrato.

 

** ** **

Byakuya non l’avrebbe mai ritenuto possibile. Dagli albori della sua carriera di avvocato si era ritrovato giusto un paio di volte a farsi sfiorare dal pensiero, ma quel giorno si rese conto fin troppo bene di quanto pesasse la mancanza di una persona che occupasse degnamente il posto di segretaria. Hisana in quei mesi l’aveva letteralmente viziato – sempre pronta e disponibile a sobbarcarsi di lavori e chiamate, silenziosa ed efficiente, non perdeva mai tempo a fargli gli occhi dolci o a chinarsi per sbattergli sotto il naso la scollatura della camicetta per accalappiarlo. Era composta, pure troppo per una ragazza così giovane, quasi castigata – e se mai avesse notato in lei comportamenti ammiccanti, l’avrebbe sicuramente ritenuta sotto effetto di alcolici. La sua semplicità disarmante contrastava assurdamente con le sottili avances che le altre impiegate gli rivolgevano per attirare le sue simpatie. Come se bastasse un ammiccamento e uno spacco un po’ provocante della gonna per fargli perdere la testa. Ecco perché aveva imparato ad ammirare Hisana: non era tipo da grilli per la testa, di quelle che tentano di acchiappare lo scapolone per assicurarsi una bella vita o favorismi. Se davvero era sola significava che non aveva nemmeno un fidanzato – e lì per lì se n’era anche stupito, ragazze così deliziosamente modeste e buone erano rare, e poi aveva una bellezza semplice dalla propria, chiunque con un po’ di sale in zucca ci avrebbe fatto un pensierino. Ma forse era proprio quello il motivo per cui non aveva un uomo accanto – lei per prima non si metteva in mostra, dando la precedenza a cose che riteneva ben più importanti, la casa e il lavoro in primis. O forse era terrorizzata dall’idea di perdere ancora qualcuno di caro, e per questo evitava di dar vita ad una qualsivoglia storia d’amore con un’altra persona.
Per quel giorno aveva messo Yuki al posto di Hisana, dato che aveva anche competenze in quel lavoro. Un vero peccato che non ci fosse assolutamente paragone con l’operato di Hisana! Infatti non ci pensò due volte a salutarlo al finire dell’orario di lavoro, lasciandolo impegolato con una pila di documenti e fascicoli alta come un dizionario. Byakuya sospirò snervato, chiudendo brusco un dossier in cui aveva infilato un miscuglio di appunti e orari d’appuntamenti che doveva combinare, per poi schiaffare il tutto dentro ad un cassetto. Di solito era Hisana ad occuparsi di quei dati, senza contare che aveva probabilmente preso accordi di cui lui era momentaneamente all’oscuro. Decise di uscire, chiudendo gli uffici con un espressione più accigliata del solito, quasi amareggiato da se stesso – si era sempre ritenuto un tipo che non aveva bisogno d’aiuti esterni, eppure quel giorno se n’era accorto definitivamente: aveva bisogno di Hisana come braccio destro. E non solo perché era sempre pronta e disponibile a tutto, ma anche come persona in sé, era sicuramente meglio di tanta gente con cui si era ritrovato a lavorare. Aveva avvisato le gemelle che forse avrebbe tardato anche quella sera, dato che aveva promesso a Hisana di farle visita dopo il lavoro. Guidò fino al complesso residenziale della giovane, trovando posto dopo un largo giro di vie e parcheggi assurdamente pieni. Ripose la ventiquattrore sotto un sedile e si avviò verso il portone, dove suonò il citofono al nome corrispondente. Ci volle un po’ prima che la voce di Hisana si facesse sentire, bassa ed esitante, probabilmente non era ancora pienamente in forze. Una volta entrato salì velocemente le scale, il solo rumore del leggero tacco delle francesine nere rimbombava sulla tromba delle scale, accompagnandolo fino al terzo piano. Hisana lo accolse stretta in una calda vestaglia in pile rosa tenue, tenendosi un po’ a distanza per non rischiare di attaccargli la febbre. Mormorò circa il fatto che sarebbe tornata a letto per via della pressione un po’ bassa, scusandosi per le pessime maniere con cui trattava l’ospite. Byakuya scrollò le spalle, tutt’altro che offeso, e la esortò a tornare in camera. La giovane prese posto sotto le coperte, rivolgendo subito lo sguardo verso di lui.
«Non ho ancora avuto modo di scusami per essermi addormentata, ieri… e ringraziarla per il tè che mi ha preparato. Era veramente buono, come l’ha fatto? Le foglie sono le stesse che uso io, ma…».
«È tutta questione di gradi di temperatura. Ad esempio, gli aromi migliori delle foglie di tè nero vengono rilasciati se l’acqua è di 95°. Inevitabilmente, però, i gradi calano quando si travasa il tè dal pentolino alla teiera, e dalla teiera alla tazza. Sono piccoli accorgimenti che sentivo spesso dire da mia madre.» spiegò lui, prendendo posto sulla sedia della scrivania, ancora vicina al letto «Piuttosto, come si sente?».
«Meglio… penso. Sì, sono ancora parecchio indebolita e mi gira la testa se mi alzo, ma… con un buon sonno ed una pastiglia, forse sono migliorata almeno un po’. Stamattina la febbre era scesa a poco meno di 38°.».
«Capisco.».
«Oh, a proposito, dottore… avrei voluto avvertirla prima, ieri non sono riuscita a finire quei fogli… e c’erano accordi per questa settimana che dovevo ancora sistemare e comunicarle…».
«Sì, lo so.» annuì Byakuya, con un leggero cenno del capo «Stamattina mi ci è voluto un po’ per pareggiarmi con il programma, ma effettivamente ci sono alcune cose di cui è a conoscenza solo lei.».
«Esattamente.» concordò la giovane, puntando lo sguardo verso la scrivania «Prima me ne sono ricordata e… ho buttato giù alcuni appunti e gli appuntamenti per questa settimana, così non avrà più problemi.».
Lui seguì il suo sguardo, sporgendosi per prendere il bloc-notes su cui c’erano quasi tre fogli di appuntamenti e annotazioni varie. Possibile che nemmeno con la febbre riuscisse a star buona ed a non pensare al lavoro? Si accigliò lanciandole un’occhiata severa, facendole nascondere metà viso sotto le coperte per la vergogna.
«Non ho mai trovato tanta testardaggine in una donna, mi creda sulla parola.».
«Ma non volevo perdesse tempo per via del mio ritardo!» si giustificò lei, stringendo tra le mani la coperta «È che ha sempre così tanto da fare, ho pensato che le sarebbe potuto tornare utile…».
«Ed è utile, in effetti.» la interruppe «Ma vorrei che ogni tanto pensasse a qualcosa di diverso dal lavoro. È andata a memoria per scrivere questi?» e agitò leggermente il bloc-notes.
«No, avevo alcuni appunti da parte. Spero di non aver sbagliato niente, ogni tanto m’interrompevo e perdevo un po’ il filo, se…».
«Mi fido.» tornò a zittirla, incrociando le braccia al petto e stringendo i fogli in una mano «Ora mi dica che devo fare: sequestrarle tutti i fogli e tutte le penne che tiene in casa, fidarmi della sua parola che se ne starà buona a riposare, oppure licenziarla in tronco per convincerla a riguardarsi seriamente?».
«Oddio, no!» esclamò la ragazza, tirandosi su a sedere e guardandolo allarmata, ignorando le vertigini «G-giuro che non farò più niente! Davvero, dottore, mi alzerò solo per mangiare o per il bagno, ma per favore, non mi licenzi!».
«Devo fidarmi?» la guardò scettico, agitandole sotto il naso i fogli «Anche dopo questi?».
«Lo giuro, mi riguarderò per bene, non prenderò più in mano una penna o un foglio finché non starò meglio, non… non penserò al lavoro, promesso.» annuì freneticamente con il capo, stritolando la coperta nei pugni.
Quando lo vide piegare le labbra in un leggero sorriso sentì la morsa della tensione sullo stomaco sciogliersi pian piano, inumidendole leggermente gli occhi. Non era mai stata tipo da piagnucolare per un nonnulla, ma ci teneva troppo a quel lavoro per permettersi di poterlo perdere. Senza contare che non voleva proprio vederselo portare via per un motivo simile, lei era sicura di aver fatto una buona cosa – e probabilmente lui apprezzava davvero, anche se non condivideva il fatto che lei pensasse al lavoro anche da malata. Ma non sapeva mai se prenderlo sul serio o meno, non si sarebbe azzardata a ridergli in faccia scambiando un avvertimento per una battuta.
«Hisana, per favore, si calmi.» mormorò lui, sporgendosi un po’ verso di lei «Non arriverei a mezzi così estremi, vorrei solo che si riguardasse con la dovuta attenzione, o in ufficio non ci rientrerà mai.».
«Sì… mi scusi.» mormorò lei, abbassando la testa.
Byakuya si lasciò andare ad un sospiro, poggiandosi contro lo schienale della sedia e guardandola un po’ divertito.
«Sa, ha le stesse identiche reazioni che le mie sorelle avevano quando le sgridavo.».
«Le sue sorelle…?» Hisana alzò lo sguardo verso di lui, strisciando piano per rimettersi stesa sotto le coperte «Sono molto più piccole?».
«Frequentano entrambe il secondo anno di università, ora. Abbiamo poco meno di dieci anni di differenza.» spiegò lui. Quando però si rese conto di dove quel discorso sarebbe andato a parare, preferì troncare. Non voleva certo sbatterle in faccia quanto lui fosse legato alle sue sorelle, alla sua famiglia, non davanti a chi non aveva più nessuno. Si sistemò meglio sulla sedia, osservandola per qualche istante «Piuttosto, ha già cenato?».
«No, ma…».
Il borbottio del suo stomaco parlò per lei, facendola arrossire. Mormorò qualcosa circa il fatto che sarebbe andata a prendersi il brodo che aveva preparato prima del suo arrivo, e gli chiese se per caso volesse qualcosa a propria volta. Byakuya negò con un cenno del capo, alzandosi. Poco gli sarebbe costato andare a scaldarle il brodo per poi andare con calma a casa per cenare. Col permesso della padrona di casa si diresse in cucina, una stanza un po’ più piccola del salotto che comprendeva anche la zona pranzo. Scaldò al microonde la scodella che gli era stata indicata da Hisana e, dopo essersi accertato che fosse ad una temperatura accettabile, la portò alla giovane.
«Siete davvero gentile, dottore. Posso chiederle una cosa?» mormorò, girando distrattamente il cucchiaio e fissando il liquido ambrato contenuto nella ciotola.
Lui annuì, piegando appena la testa di lato – e sottilmente si chiese cosa mai stesse pensando, continuando a girare quel cucchiaio che distruggeva ogni tentativo di vedere il proprio riflesso su quella superficie increspata di leggere onde.
«Perché sta facendo tutto questo? Voglio dire… perché viene anche a trovarmi? Sono una semplice impiegata, dopotutto, non mi deve niente.».
Bella domanda, davvero. Il problema era che la suddetta domanda non aveva una risposta. Abitudine, si era detto: Hisana somigliava un po’ alle gemelle, di cui lui si era preso cura sin da quando erano piccine. Ma no, forse non era nemmeno quello. Curiosità, pensava. Trovava curiosamente interessante quella ragazza dall’animo tanto umile e modesto, pronta a farsi in quattro per gli altri e per riuscire al meglio nel proprio lavoro, anche arrivando a scrivergli fogli di appunti pur avendo la febbre. Le sue però erano nient’altro che ipotesi, un motivo vero e proprio che l’aveva spinto a ritardare il rientro a casa per andare a trovarla non ce l’aveva. Anche perché doveva riconoscerlo da sé, era alquanto strano che un avvocato andasse a trovare la segretaria ammalata a casa, neanche fossero stati amanti. Non che Byakuya fosse il tipo che delle donne se ne fregava, aveva avuto un po’ di storie ma il tutto s’era sempre concluso con un nulla di serio, tanto più che dopo il liceo si era impuntato solo nello studio trascurando tutto il resto, ragazze comprese. Hisana era una bellezza semplice e senza grandi pretese, non era di quelle che si ricoprivano la faccia con una montagna di trucco, anzi, la si poteva definire la semplicità incarnata – eppure non era neanche attrazione ciò che lo spingeva ad andare a trovarla.
«Non lo so, se devo essere onesto.» mormorò dopo un po’, ricambiando lo sguardo che lei gli aveva rivolto a sentire la sua risposta.
La vide aggrottare leggermente le sopracciglia e sistemarsi meglio la giacca in pile sulle spalle, fermando momentaneamente il lento giro del cucchiaio.
«Glielo dicevo perché… se è la pena a spingerla a venire qui, vorrei chiederle di andarsene.» disse piano, stringendo la scodella «Non voglio che il fatto di aver saputo che non ho parenti in vita la porti ad assistermi per pietà. Posso farcela da sola.».
Byakuya rimase spiazzato. Non gli era mai passata per la testa l’idea di fare una cosa del genere – certo, gli dispiaceva per lei, ma non era per quello che in quel momento si trovava seduto nella sua camera mentre lei era a letto con la febbre. E non era nemmeno la semplice necessità di avere quei fogli di appuntamenti.
«Hisana, la prego, non fraintenda.» replicò, alzando appena una mano «So che è odioso sentirsi compatiti, ma sono davvero l’ultima persona che assisterebbe qualcuno per pietà. Ci tengo che lei stia bene, al di là che in ufficio si sente la sua mancanza e, detta fra noi, dopo questi mesi non riesco a vederci qualcun altro alla sua scrivania. Diciamo che voglio assicurarmi che si curi per bene e che torni in salute al più presto.».
«Mi crede una sconsiderata, dottore?».
«Non ho detto nemmeno questo. Né la ritengo tanto disgraziata da non potersi permettere delle cure adeguate. Non entro nel merito di come lei gestisce il proprio stipendio, in fondo non è affar mio. Le dà fastidio che mi preoccupi per lei?».
«No, no… è che…» Hisana strinse di nuovo la ciotola, abbassando lo sguardo «È brutto sentirsi compatiti. Gli sguardi di pietà della gente non sono belli da ricevere, anche se magari loro agiscono con le migliori intenzioni. È vero, ho faticato tanto per arrivare dove sono, non è molto in confronto alla sua posizione, per esempio, ma nel mio piccolo ci provo. È che quando cedo per un attimo, mi sembra di rivedere i vicini di un tempo che mi guardavano come se fossi stata un cane abbandonato per strada. La compassione altrui, anche se involontaria, non è piacevole per nessuno. Per questo le chiedevo… se era quello il motivo che la spingeva a venire qui.».
«Allora la veda in questi termini, Hisana: ci tengo che lei stia bene per un mio tornaconto, perché voglio che la scrivania da segretaria sia occupata da lei. Lo preferisce?».
«Così sa più da ipocrita…» si lasciò scappare un leggero sorriso, guardandolo «Ma è sicuramente meglio della pietà.».
«Non mi prenda in parola, eh. Certo, non nego che prima torna e meglio è, ma vorrei che rientrasse nel pieno delle forze con i tempi di cui necessita, senza sforzarsi. Me lo può fare, questo favore?».
Hisana sorrise nuovamente, posando la scodella sul comodino e ritornando ad accoccolarsi sotto le coperte.
«Certamente, dottore.».
«Piuttosto… non ho ancora avuto modo di vedere il suo gatto, oggi.».
«Shiro? Dovrebbe essere qui intorno… rinuncia anche alle passeggiate fuori per stare qui con me. Stanotte ha dormito sempre poggiato contro la mia gamba.».
«A modo suo le fa la guardia, quindi.».
«Già… non lo credevo possibile da parte sua. Non che me ne intenda molto di animali, non ne ho mai avuto uno… Shiro è il primo gatto con cui ho strettamente a che fare. Li ho sempre ritenuti animali menefreghisti… son contenta di essermi sbagliata, riguardo a lui.».
«È anche tremendamente geloso, lo sa? Sembra non tollerare presenze maschili.».
«Ho notato… in effetti non pare averla accolta benissimo il mese scorso, quando… insomma…» Hisana sviò per un attimo lo sguardo, ricordando la disgraziata macchia sui pantaloni che Byakuya indossava per la cena in programma quella sera di dicembre. E lei s’era indaffarata per smacchiarlo alla bell’e meglio, vergognandosi pure per la pessima figura fatta.
«Oh, sì, ricordo. Ha voluto aromatizzarmi i pantaloni con fragola e frutti di bosco.».
«Spero non si siano rovinati…».
«No, ci mancherebbe. Come le avevo fatto notare, non avevo zuccherato la bevanda. Senza contare che s’è prodigata a tentare di smacchiarli.».
«Mi pareva il minimo, dottore…».
Byakuya rimase ad osservarla per diversi istanti, in silenzio. Aveva la tendenza a nascondere parte del viso sotto le coperte quand’era in imbarazzo, quasi si vergognasse a mostrare il rossore che le imporporava le gote, e questo lo fece sorridere. Fu allora, in quegli attimi in cui le loro voci tacevano, che sentì parlare qualcos’altro. Aggrottò le sopracciglia, guardandosi attorno: non ci aveva fatto caso fino ad allora, preoccupato più a sentire le parole di Hisana per prestare attenzione a ciò che faceva da contorno a ciò che diceva. La musica era molto bassa, a stento udibile – eppure riconobbe le note di un violino ed un pianoforte. Era una melodia lenta e molto calma, senza particolari variazioni di ritmo fino a quel momento, infondeva un vago senso di serenità – e forse era proprio quello che aiutava Hisana a rilassarsi per poter riposare. Il piccolo stereo era poggiato a terra vicino al comodino, a portata di mano anche per la ragazza, a cui bastava allungare un braccio per raggiungere i tasti di comando. Restò ad ascoltare fino alla fine della canzone, ed anche parte della successiva – eppure, nonostante amasse la musica strumentale tradizionale e classica occidentale, non riusciva a riconoscere gli artisti all’opera. Lei sembrò quasi decifrare i suoi meditabondi tentativi di azzeccare i nomi di coloro che in quel momento si stavano prodigando in una melodia vagamente più vivace, con il pianoforte che prendeva il predominio sul violino.
«I miei genitori erano musicisti.» mormorò a bassa voce «Mio padre era pianista, mia madre violinista. Si conobbero al conservatorio e non si lasciarono più. La musica li ha sempre accompagnati, passo per passo. Avevo cominciato anch’io a prendere lezioni di pianoforte, mio padre era severo ma molto bravo. Diceva che non appena sarei stata abbastanza brava, avremmo suonato insieme. Mi sarebbe piaciuto tanto poterlo fare. Una volta nascosi un registratore nella stanza dove provavano e li registrai a loro insaputa. Ho ancora la cassetta, mi fa sorridere ancor’oggi la dolcezza che c’era tra loro, anche quando si correggevano a vicenda o si prendevano in giro quando per caso steccavano. Non nego che a volte li invidio davvero, per quel loro rapporto e la loro complicità.».
Si zittì per diversi istanti, accennando un vago sorriso e fissando davanti a sé – e quasi involontariamente, lo sguardo si spostò lento fino al piccolo altarino.
«Anche quando morirono la musica era con loro. Si stavano dirigendo a teatro per esibirsi in un concerto con l’orchestra, ma non riuscirono ad arrivare. Un camionista ubriaco perdette il controllo del camion che guidava e si schiantò contro l’auto dei miei genitori. Mamma morì sul colpo, mio padre non riuscì ad arrivare in ospedale a causa dell’enorme perdita di sangue e delle lesioni interne. Nella radio dell’auto c’era ancora l’ultimo cd che avevano registrato insieme. Me ne sono fatta fare una copia, non volevo correre il rischio di perdere anche quel poco che era rimasto. Ah, mi scusi. Non dovrei tediarla con discorsi così angoscianti e che probabilmente non la interessano.».
«… erano davvero molto bravi.» replicò lui, accennando un vago sorriso e lanciando un breve sguardo allo stereo «Mi spiace sinceramente, Hisana.».
«Ormai è passato tanto tempo…» sospirò in risposta, sistemandosi sotto le coperte «Ma mi piace ascoltare le loro canzoni per rilassarmi. Certo, non è piacevole avere un disco come unico mezzo per sentirli di nuovo, ma… era la loro musica, mi piace pensare che mettessero anche il cuore in ciò che suonavano. Ho imparato a… a non vedere solo il lato malinconico della cosa.».
Restarono ancora in silenzio, fino alla fine dell’ennesima canzone. Non erano movimentate, non vi era altro che un violino e un pianoforte, ma erano armonie che di studiato e costruito non avevano nulla, se non una corretta esecuzione – non erano suonate come un banale esercizio di scuola, c’era trasporto in ogni singola nota, anche in quei brevissimi attimi di silenzio. Erano melodie dolci, rilassanti eppure non noiose. I due strumenti sembravano fondersi perfettamente l’uno con l’altro in quel susseguirsi di note.
L’ultimo brano era finito da una decina di minuti, quando si congedarono. La ciotola vuota del brodo giaceva a sgocciolare nel lavandino, lo stereo era rimasto in standby. E un leggero sorriso piegava ancora le labbra di Hisana, quando Byakuya la salutò per tornare a casa.

 

** ** **

Il mercoledì era giorno di accurate pulizie, in casa Kuchiki. Rukia era solita approfittarne per pulire da cima a fondo il grande appartamento che condivideva con il fratello e la gemella, mentre il primo era al lavoro e l’altra seguiva le lezioni mattutine riprese dopo gli esami. Nella settimana riuscivano ad organizzarsi per tenere in ordine e pulito ma, dato che proprio a metà settimana aveva il giorno libero dalle lezioni, tanto valeva fare i lavori per bene. Le piaceva avere la casa per sé, poter mettere a palla i Within Temptation o i Nightwish allo stereo e pulire cantando senza che qualcuno la prendesse per pazza. La musica e l’aspirapolvere le impedirono, sulle prime, di sentire il campanello che suonava – e fu nel bel mezzo del ritornello di “Nemo”, seguito dall’elettrizzante assolo di chitarra di Emppu Vuorinen, che se ne accorse. Ripose in un angolo l’aspirapolvere e abbassò il volume dello stereo, correndo al citofono. Rimase parecchio perplessa quando, dallo schermo, vide in bianco e nero il mezzobusto di Lavi che si guardava attorno, leggermente a disagio.
«Lavi?!» fece, prendendo in mano la cornetta.
Il ragazzo sobbalzò per un attimo, grattandosi la nuca da sopra il berretto, e si avvicinò al microfono.
«Scusa l’improvvisata, Rukia… potresti scendere un momento, per favore?» mormorò lui, alzando a stento lo sguardo verso di lei, inconsapevolmente.
«Dai, sali. Non sono tanto cafona da lasciarti giù al freddo!» replicò, premendo il tasto per aprire il portone principale.
Il ragazzo rimase incerto per una manciata di secondi, prima di decidersi a spingere il cancello per salire. Nel mentre Rukia rimise velocemente via l’aspirapolvere e le pezze per spolverare, lasciando la porta aperta per permettergli di entrare. Sentì i suoi passi lungo le scale, dietro le ormai basse note della canzone, fino a quando se lo trovò sulla soglia con le mani cacciate in tasca e la testa bassa. Lo invitò ad entrare, scusandosi per il disordine dovuto alle pulizie interrotte e facendolo accomodare in cucina, seduti faccia a faccia davanti ad una tazza di caffè preparato al momento. Lavi si tolse con esitazione il giubbotto e il berretto, quasi a disagio, prima di sospirare e alzare lo sguardo sulla ragazza che gli stava seduta davanti.
«Rukia, come dire… mi dispiace per quel che è successo l’altra settimana. Davvero, non volevo risponderti così male ma… ero un po’ sotto stress. Non che voglia giustificarmi, è che… insomma, ho esagerato e volevo chiederti scusa.».
Rukia l’osservò tenendo la tazza di caffè tra le mani, sorpresa – non si aspettava che si presentasse a casa sua solo per chiederle scusa. Poggiò la testa contro la mano chiusa a pugno, soppesando le parole per una manciata di secondi, prima di riportare le dita a stringere la tazza azzurro ancora mezza piena.
«Lavi, davvero, non ce n’era bisogno. Sono stata indiscreta io ad insistere, vuoi anche lo stress post-esame, capisco che…».
«No, no.» la interruppe lui, agitando leggermente una mano «Non sei stata affatto indiscreta, sono io quello che è strippato così, di colpo… è che è un periodo un po’ pesante, diciamo così.».
La ragazza si appoggiò allo schienale della sedia, sospirando e limitandosi ad annuire con il capo. Lavi non sembrava affatto a suo agio, nemmeno mentre sorseggiava distrattamente il caffè. Aveva intuito che stava nascondendo qualcosa, non ci voleva un genio per capirlo, ma del resto non poteva nemmeno forzarlo a parlargliene – sarebbe stata una prepotenza del tutto ingiustificata e soprattutto ingiusta.
«Se non vuoi parlarne non ti obbliga nessuno, Lavi.» mormorò dopo un po’, avvicinandosi la tazza alle labbra «Tutti abbiamo segreti che preferiamo tenere per noi.».
Lo vide sollevare di colpo lo sguardo verso di lei, stringendo per un attimo il manico sottile un po’ più del dovuto, fissando poi altrove, quasi stesse considerando le sue parole. Apprezzava il fatto che Rukia avesse capito la faccenda – “in fondo non dobbiamo niente a nessuno”, avrebbe pensato suo fratello. Il che era anche vero, ma d’altro canto lì si erano dimostrati tutti gentili con loro, anche Hichigo, sebbene il suo primo approccio con Deak non fosse stato dei migliori. Non erano gli amichetti di comodo per i compiti, né appestati da evitare per i loro capelli o la benda. Chissà se anche Hichigo era stato trattato come loro per via del suo albinismo. Ad ogni buon conto pareva uno capace di farsi rispettare con le buone e anche con le cattive, cosa che né a lui né a Deak veniva istintivo. Il fratello era più il tipo che colpiva a parole, senza usare eccessive volgarità, non ne aveva bisogno. Ma lui… lui non era capace neanche di quello. E non poté che restare sorpreso, quando vide Rukia poggiarsi sul tavolo coi gomiti per sporgersi un po’ verso di lui.
«Nessuno di noi vuole obbligare te o tuo fratello a dire ciò che non volete, davvero.» disse «Ma per favore, non allontanarti così. Certo, ci conosciamo da poco, ma dispiacerebbe a tutti, me per prima, vederti tagliarci fuori. Non siamo tanto carogne da pugnalare la gente alle spalle, Lavi, cattiverie del genere non fanno bene a nessuno. Ti sembrerà strano detto da chi conosci da poco tempo, ma per piacere, fidati di noi. Siamo amici, no?».
Non lo so, Rukia. Ho paura a definire gli altri “amici”, anche se si tratta di voi.” fu il suo primo pensiero, che però non riuscì ad esternare. Certo, non si aspettava quelle parole da Rukia, come in ogni caso gli pareva ancora strano sentirsi accettato in quel gruppo di ragazzi così scalmanati, ma si era detto che era colpa della poca abitudine. Ma dall’altra parte quel timore di abituarsi e vedersi deluso lo bloccava ancora – sebbene tentasse di convincersi che era grande e vaccinato da poter affrontare una cosa del genere. Non poteva scappare per sempre, lo sapeva bene. Del resto, però, era un terreno pericoloso e che conosceva ancora poco, un po’ come un campo disseminato di trappole – e doveva muoversi cauto, per non rischiare di farsi veramente male. Si rese conto da solo che a furia di scappare non avrebbe mai risolto nulla, sarebbe rimasto imprigionato in quel limbo di solitudine in cui si era volutamente rinchiuso – ma forse, Rukia e gli altri ragazzi sarebbero stati un buon aiuto, un incentivo a smuoversi da quell’invisibile prigione che puzzava di stantio.
«Sì. Credo… credo di sì.».
Rukia gli lanciò un’occhiata perplessa.
«“Credi”?».
«Il fatto è, Rukia…» Lavi sospirò, premendosi maggiormente contro lo schienale e alzando lo sguardo verso di lei «Il fatto è che né io né mio fratello siamo mai stati accettati. Vuoi per le bende, vuoi per i capelli rossi non tinti, vuoi perché ci spostiamo continuamente da una città all’altra. Non prenderlo come vittimismo, con il tempo ci siamo abituati alla cosa, tutto sommato dopo un po’ non ci fai nemmeno più caso e vivi sereno anche senza essere circondato da altre persone. Per questo per noi è strano avere attorno gente “amica”, capisci? Cioè, questo vale per me. Deak si rifiuta a priori di provare a fidarsi ancora di qualcuno.».
«Ma c’è… insomma, un motivo particolare?».
«Temo di non potertelo dire, Rukia.».
«Capisco…».
«Cioè, lo so, ci sto facendo la figura del cane abbandonato che ha paura dell’uomo e che cerca la compassione altrui. Non è così, davvero, pietà da parte di altri è l’ultima cosa che voglio. Chiamami ridicolo se vuoi, ma… nemmeno io riesco ancora a fidarmi completamente di qualcuno.».
«Sono cose per cui serve tempo, Lavi. È chiaro che nessuno metterebbe i propri segreti in mano al primo che passa. E credimi che non sei affatto ridicolo, anzi. Siamo umani, in fondo, è lecito avere timori!» si sporse sul tavolo, poggiandogli entrambe le mani su un braccio «Ma vorrei che tu lo sapessi, anche come… toh, “informazione di servizio”. Io, mia sorella, Kaien, Lenalee… perfino Hichigo e Grimmjow, o Renji… insomma, ci siamo. Tra di noi abbiamo legato tanto in poco tempo, nessuno vi sbatterà le porte in faccia. Parlo ora per te, magari per tuo fratello ci vorrà qualcosina in più. Ma non vogliamo voltarvi le spalle, Lavi. Permettici di dimostrare a te, o a Deak… che non ci sono solo carogne in giro. Puoi fare questo tentativo?».
Il ragazzo rimase a guardarle per un attimo le mani, in silenzio, metabolizzando le sue parole. L’istinto fece subito nascere il pensiero del “a parole son bravi tutti”, ma s’impose di non farci troppo caso, o non ne sarebbe veramente mai uscito. Non ricambiò il suo sguardo, posando blandamente l’altra mano sopra le sue – e notando solo in quel momento quanto fossero piccole in confronto, e soprattutto calde nonostante ci fosse lo strato del maglione e della camicia a separare i suoi palmi dalla pelle del braccio.
Erano passati anni dall’ultima volta in cui aveva sentito un tocco così caldo e delicato, da troppo tempo si era circondato solo da freddo vuoto – figurarsi se Deak l’aveva mai consolato abbracciandolo, lui cercava un contatto che il fratello gli negava sempre, dovendosi quindi accontentare del tenero calore di un grande pupazzo a forma di coniglio che conservava ancora. Nemmeno i primi mesi dopo esser entrati all’istituto, quando si svegliava urlando e piangendo, Deak l’aveva abbracciato o gli aveva anche solo stretto la mano per fargli capire che c’era, che non era solo. Temeva il tocco degli estranei, nemmeno le giovani responsabili che prestavano servizio riuscivano ad avvicinarglisi senza vederlo indietreggiare spaventato. Si accoccolava contro la schiena del fratello per cercare un conforto da parte sua – quanto, quanto aveva sperato che si girasse e lo stringesse a sé? Eppure Deak non si era mai voltato, né gli aveva mai detto alcunché. Entrambi erano chiusi in una sorta di mutismo involontario, la voce dalla bocca di Lavi usciva solo nei mugolii che emetteva nel sonno, mentre il gemello non aveva spiccicato parola per mesi interi, comunicando con il solo sguardo quanto odiasse tutto ciò che lo circondava. Nemmeno il vecchio Bookman era mai stato incline alle coccole – nonostante fosse riuscito ad avvicinarsi a loro molto più di quanto non fossero riusciti a fare psicologi e pediatri in tutto quel tempo in cui erano rimasti all’orfanotrofio. Non li trattava con pietà, anzi. Mettendoli davanti a cose sempre nuove era riuscito a stimolare la loro infantile curiosità, tramutata nel tempo in vera e propria fame di conoscenza. Lavi ricordava fin troppo bene come, al posto delle classiche favole della buona notte, si facesse raccontare dall’anziano studioso gli aneddoti storici più curiosi e particolari che gli venissero in mente – e prima di dormire gli dava sempre una carezza sulla testa, lisciando i ciuffi di capelli rossi. Riusciva a dormire tranquillo, al sicuro, certo che il giorno dopo il vecchio sarebbe stato lì per farlo sedere in poltrona per raccontare qualche altro stralcio di storia che per lui era meglio di una fiaba. Certo, a parte quando veniva l’anniversario di quel giorno
Anche se il paragone gli sembrò un po’ azzardato, Lavi trovò il tocco gentile di Rukia rassicurante quasi quanto quello della madre che non vedeva da anni, e di cui ricordava veramente poco. Una blanda carezza dettata dalla sincera volontà di aiutarlo, di fargli capire che non era solo, non più. Anche se forse era un po’ troppo cresciuto per cercare gli abbracci altrui… ma proprio forse. Era passato così tanto tempo dall’ultimo abbraccio che aveva ricevuto, che quasi si era dimenticato cosa si provasse a sentire contro di sé il calore di un’altra persona.
«Sicura che non vi stancherete prima?».
«Non abbiamo tutti l’istinto da crocerossine che vogliono assolutamente aiutare il prossimo per il proprio ego, Lavi. Vi lasceremo i vostri tempi, è ovvio. Ma anche tu… insomma, puoi provare a venirci incontro.».
Lavi fece un leggero cenno d’assenso con il capo, alzando appena lo sguardo per sorriderle.
«Puoi provarci?» chiese ancora lei, ricambiando il sorriso.
«Posso provarci. Non assicuro nulla… ma posso provarci.».

 

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Aveva cercato per parecchio tempo di trovare l’occasione buona per riavvicinarsi a Deak e attaccare bottone con lui. Dalla sera di Capodanno, e pure durante il periodo degli esami, era stato fin troppo sfuggente: arrivava giusto cinque minuti prima dell’inizio dei test, appena finito usciva e se ne tornava a casa, al telefono si faceva negare con la scusa dello studio o che era fuori. Darkie non era mai stata tipo da impuntarsi o cercare insistentemente gli altri, men che meno un ragazzo, ma quella di Deak stava diventando quasi una questione di principio – non tanto perché le mancasse la sua compagnia in sé, era un ottimo compagno di studi e a Capodanno si era comportato pure bene, ma quei suoi precedenti tutt’altro che trascurabili non lo mettevano in pole position nella classifica di maschi con cui trascorrere un tranquillo pomeriggio di chiacchiere, quanto perché… beh, si sentiva quasi come se la cosa fosse rimasta in sospeso, tra loro. Poteva avere delle aspettative su di lui? Sarebbe riuscita a diventare un’amica, o anche semplicemente qualcuno a cui non rispondere male o lanciare occhiatine di sufficienza? Non riusciva a capire nemmeno lei perché ci fosse rimasta così male a vedersi voltare le spalle dal ragazzo – chiaro, se a “voltarle le spalle” in quella maniera fosse stato Hichigo sarebbe stato molto peggio. Si disse che voleva semplicemente mettere le cose in chiaro senza troppi giri di parole o tentennamenti che avrebbero già scoraggiato chiunque, sì, era solo per quello.
L’occasione sembrò capitarle a fagiolo il giorno di registrazione straordinaria dei voti di Psicometria. La volta precedente il professore era stato costretto a rimandarli a casa per via della mancanza dei registri, invitandoli quindi a tornare per quel giorno. Deak, tanto per cambiare, si era preso un posto in ultima fila, distante dai gruppetti di studenti che chiacchieravano tra di loro in attesa dell’arrivo dell’insegnante. Si aspettava di vederlo arrivare all’ultimo come agli esami, invece si era presentato in anticipo come gli altri. Quell’esame era stato parecchio critico un po’ per tutti, lei stessa aveva dovuto impiegare molto più tempo del solito per cercare di dare tutte le risposte agli esercizi. Ciò che l’aveva un po’ stupita era il fatto che in quell’occasione Hichigo si fosse rivolto a lei pochissime volte, per lo più tenendo la testa china sul foglio e scrivendo nervosamente in malacopia le prove delle esecuzioni. Ben decisa a non farsi sgamare aveva atteso che fosse lui a chiamarla, facendosi passare i fogli delle brutte copie più velocemente che riuscivano. Dopo l’esame, però, non aveva più voluto dire niente, né si era giustificato per quel suo bizzarro comportamento. A lei non dispiaceva aiutarlo, anzi, si prodigava ben volentieri per il suo migliore amico. Si guardò intorno per cercare la sua zazzera chiara, che solitamente spiccava più che facilmente in mezzo alla gente, ma niente, non c’era ancora. Sospirò, magari non era andata benissimo e si era ritrovato costretto a rifare il compito daccapo – sperò di cuore non fosse così, che in realtà fosse solo in ritardo, perciò  decise di occuparsi del soggetto a portata di mano. Appese la giacca all’appendiabiti in fondo all’aula e prese posto sulla sedia davanti a lui, poggiando i gomiti sul tavolo che aveva di fronte.
«Certo che potresti anche evitare di snobbarci così allegramente, eh.» disse, guardando avanti. Sapeva che Deak l’aveva sentita benissimo, come constatò quando lo sentì sospirare seccato.
«Non vi sto snobbando. Non mi pare ci sia nient’altro da dire, no?» ribatté lui, giocherellando con la copertina del libretto universitario.
Punta sul vivo, Darkie si girò verso di lui tutt’altro che convinta.
«Nient’altro da dire? Ma c’è bisogno per forza di avere qualcosa da dire per stare con qualcuno? E no, non t’azzardare a dire “sennò non c’è motivo per stare insieme”!».
Deak alzò lo sguardo verso di lei con espressione seria, a tratti quasi annoiata.
«Ti stai rispondendo da sola.».
Diamine, che voglia di tirargli un pugno in un occhio le stava facendo venire! Digrignò i denti ingoiando le imprecazioni che le stavano per uscire di bocca, stringendo il pugno sullo schienale della sedia, prima di sospirare pesantemente per calmarsi – o almeno, provarci.
«Okay, okay, allora sturati le orecchie perché io ho qualcosa da dirti. Non abbiamo forse lavorato bene, per antropologia? Oppure, che so… a Capodanno, ecco! Non ti sei divertito anche tu? Non hai nemmeno litigato con Hichigo, o tuo fratello… pensavo che…».
«Non so cosa pensassi e non m’interessa. Per antropologia mi son visto costretto a lavorare con voi.».
«Costretto un cavolo! Potevi benissimo lavorare con qualcun altro! Sbaglio, o sei stato tu a cercare quella “con il cervello valido nel gruppo”?».
Deak ebbe il buonsenso di tacere, riconoscendo che in effetti aveva ragione. Senza contare che era stato lui stesso ad ammetterlo, quando lei si era presentata per la prima volta a casa sua.
«E a Capodanno, allora? Non ti abbiamo ficcato una pistola in bocca per costringerti a venire da noi, né era una questione di cervello valido o meno.».
«Quello perché-…».
Venne interrotto dall’arrivo del professore, che intimò il silenzio in classe, costringendola così a girarsi per guardare avanti e interrompere quella quasi-chiacchierata – o pretesa di spiegazioni, più che altro. Chissà cosa si sarebbe inventato per giustificare la sua partecipazione alla festa di Capodanno. Sbuffando si guardò distrattamente intorno, cercando Hichigo: possibile che avesse veramente cannato il test e che quindi non si fosse presentato? Si rigirò il libretto universitario tra le mani, lisciando le pagine e giocherellando con i bordi della copertina plastificata, notando quasi per caso, al lato opposto della fila dove stava seduta, un ragazzo insaccato nelle spalle e con un berretto nero calcato sulla testa. Sulle prime non gli aveva minimamente prestato attenzione, presa com’era a cercare una certa zazzera bianca, ma alcuni ciuffi chiari che spuntavano da sotto il bordo lo tradirono in pieno.
«Hichi!» sibilò, sporgendosi verso di lui.
L’interpellato sobbalzò, guardando alla propria destra e incrociando lo sguardo di Darkie, ormai quasi stesa sulle sedie per potergli parlare senza farsi scoprire.
«Ma che hai da nasconderti, si può sapere?».
«Non mi sto nascondendo.» borbottò lui, spostandosi di un posto nella sua direzione.
«E ‘sto cappello, allora?».
«Non ho cavoli di togliermelo. Riesci a star buona e zitta dieci minuti, Darkie? Poi parliamo con calma.».
«Ma…».
«Kuchiki!».
La ragazza sobbalzò, sentendosi richiamare dal professore. Mormorò qualche scusa, abbassando la testa e tormentando il libretto che teneva tra le mani. Sentì lo sbuffo di Deak alle proprie spalle, ma fece finta di nulla. Nel mentre, uno alla volta, gli studenti presenti vennero chiamati per la registrazione dei voti. Era curioso notare le diverse reazioni, da quelli che ricevevano voti più alti del previsto e parevano felici come il giorno di Natale, altri che non mostravano particolare entusiasmo senza rinunciare ad un sorriso soddisfatto, a quelli che parevano usciti da un funerale. Accanto a lei, Hichigo stringeva i bordi della copertina del libretto fin quasi a piegarli, tanto era nervoso. Tra sé Darkie sperò che non si aggiungesse alla schiera di quelli che avevano rimediato l’insufficienza o un voto giust’appena superiore, le sarebbe dispiaciuto un sacco per lui – e d’altra parte, sperò a propria volta di aver preso un voto discreto. Quando venne chiamato, Deak si avviò con fare noncurante alla cattedra, porgendo al docente il libretto già aperto e i documenti d’identificazione. Non era il tipo che gioiva dei propri voti, nemmeno quando riusciva a prendere la lode – e i suoi voti, da quel che aveva visto, non andavano mai al di sotto del 28. Infatti, non appena tornò al proprio posto gettò noncurante il tutto sul tavolo, chinandosi per prendere la propria borsa.
«Ehi, non penserai di filartela.» sbottò Darukia, voltandosi verso di lui.
«Non me la filo, torno a casa.» replicò il ragazzo, infilando libretto e documenti in una tasca e chiudendo la zip con un colpo secco.
«Ma non ho ancora finito di parlare!».
Le rivolse un’occhiata di sufficienza, infilandosi la borsa a tracolla e facendo spallucce, accennando un sorrisetto sprezzante.
«Peccato per te che non me ne freghi niente.».
La lasciò lì, ferma al suo posto a fissare la sua schiena mentre usciva dall’aula. Mentre scendeva le scale si morse la lingua – e se la sarebbe tranciata piuttosto che ammettere che effettivamente in sua, anzi, loro compagnia stava paradossalmente bene. Aveva lavorato tranquillamente per la ricerca di antropologia, stuzzicare Hichigo lo aveva divertito parecchio, così come si era sentito accettato e tranquillo la sera di Capodanno, seppur in mezzo a gente che non conosceva – e aveva trovato pure gente con cui era quasi… piacevole scambiare due parole. Non che questo gli avesse fatto cambiare idea, meno si lasciava andare e meglio era, e l’esperienza gli aveva insegnato a non lasciare troppo scoperto il fianco con la scusante del “facciamo amicizia”. Non avrebbe compiuto di nuovo l’errore di fidarsi degli altri, di qualcuno esterno alla propria famiglia… anzi, di tutti, a parte se stesso.


«Dai, lascia perdere.» borbottò Hichigo, poggiando il mento sul pugno chiuso «Quel deficiente non si merita un briciolo di considerazione, parla per dar fiato alla gola e basta.».
La ragazza si strinse nelle spalle, tutt’altro che convinta. A dirla tutta si diede della stupida per essersi impuntata così testardamente su quel tipo che chiaramente non voleva aver niente a che fare con loro, e soprattutto per esserci anche rimasta male. Quel che non capiva era la ragione di quel palese rifiuto, non gli avevano fatto niente di male per meritarsi tanto menefreghismo da parte sua. Non sapeva veramente come comportarsi, se fregarsene una volta per sempre o provare a prenderlo con un approccio diverso. Era talmente presa dai suoi pensieri che Hichigo dovette tirarle una gomitata al fianco e farle cenno verso il professore, che la stava fissando spazientito. Recuperò le proprie cose in tutta fretta, avvicinandosi alla cattedra e porgendo il libretto all’insegnante, che le convalidò con una firma il 27 che si era guadagnata. Certo, non era uno dei suoi voti migliori, ma per lo meno si era levata dai piedi quell’esame infernale. Si accucciò a terra per sistemarsi la borsa, mentre Hichigo si avviava a propria volta verso la cattedra, tenendo stretti libretto e documento. Guardò verso la pagina che gli era stata firmata solo dopo che il docente gli ebbe spinto il libretto sotto gli occhi.
«Che, scherza?» buttò lì, sinceramente perplesso.
«Affatto, Kurosaki. Sarò sincero, da te non me lo sarei aspettato, ma a quanto pare mi sbagliavo.» replicò l’insegnante, sfogliando il registro per chiamare lo studente successivo «Su, fila al posto.».
«Oh. Beh… grazie.».
Tornò al proprio posto con un ghigno che andava da un orecchio all’altro, soddisfatto come non mai, ma non disse nulla alla ragazza che lo fissava incuriosita. Prese la propria borsa, buttando dentro il tutto e sistemandosi sottobraccio la giacca, avviandosi fuori dall’aula – e Darkie lo seguì pochi passi dietro, mentre si allacciava il cappottino.
«Allora? Dai, Hichi, sputa il rospo.».
Faceva tanto il prezioso, lui, soddisfatto come non mai di se stesso. Alla fine la sua prova aveva dato dei frutti discreti – certo, ben lungi dai livelli a cui era abituato grazie agli aiuti della ragazza, ma era comunque un buon inizio per lui. Sfregò una mano sulla testa di Darkie, che gli strattonava la manica per sapere cos’avesse da sorridere così. Rovistò quindi nella borsa, porgendole il libretto.
«Su, guarda, guarda cosa riesco a fare senza il tuo aiuto. Cioè, quasi senza. Però per di più da solo, ecco.» disse, guardandola mentre cercava la pagina, gonfiando il petto con soddisfazione.
Darkie non riusciva a crederci. Hichigo si era guadagnato un 22 tutto da solo – o quasi. Okay, qualche domandina gliel’aveva fatta, ma molte di meno rispetto al solito, e il risultato era stato quel 22, che un po’ stonava in mezzo ai 27 e 28 che costellavano il resto della pagina, ma probabilmente il ragazzo era molto più soddisfatto di quel voto più basso, ottenuto da solo, che non usando i suoi suggerimenti.
«Sei stato bravissimo, Hichi!» esclamò sinceramente contenta, rimettendogli il libretto in borsa «Hai visto che non sei proprio uno zuccone come credi? Se vuoi ci riesci benissimo!».
Lui annuì, passandole un braccio intorno al collo mentre scendevano le scale, rischiando di farla inciampare.
«E visto che oggi sono estremamente felice, ti offro pure da bere. Così non avrò più debiti con te, piccoletta malefica.» replicò, senza smettere per un istante di sorridere.
Si avviarono al bar più vicino, brindando alla sua piccola vittoria morale con due belle cioccolate calde. Niente a che vedere con quelle che servivano al Black Moon, ma per il momento andavano più che bene.
«E comunque…» borbottò lui, leccandosi i baffi di cioccolato «Non stare a pensare a quel testa di pirla. Avrà avuto le palle girate.».
«Sarà… ma insomma, ti pareva la maniera di rispondere? Dopo che abbiamo cercato di aiutarlo e l’abbiamo pure accolto nel nostro gruppo, che diamine!» ribatté la ragazza, azzannando un cornetto alla marmellata.
Hichigo scrollò le spalle, grattando sul fondo con il cucchiaino per raccogliere gli ultimi rimasugli di cioccolata e zucchero.
«È un pirla, te l’ho detto. Meglio perderlo che trovarlo, dai retta a me!».
«Non lo so, Hichi… cioè, è paradossale! Senza contare che ha ancora i nostri libri e quaderni, ma… non so, ti pare gli abbiamo fatto qualcosa di male?».
«Ovvio che no, è solo lui che ha troppe pippe per la testa. Fidati, quello non sta mica messo bene col cervello.».
«Uno che colleziona 30 e lode sul libretto non è del tutto scemo.».
«Tsk, ovvio che nello studio è così bravo, non fa un cazzo d’altro tutto il giorno! Sempre su libri e appunti, è già tanto che sia venuto a Capodanno senza portarsi dietro un libro per studiare. Lodevole senza dubbio, ma figliolo, fatti una vita.».
La ragazza sospirò di nuovo. Rukia si era ritrovata nella stessa situazione con Lavi, solo che quest’ultimo non le aveva sputato in faccia tutto il suo cinismo: la sorella le aveva raccontato di quella loro piccola chiacchierata in soggiorno, mentre lei era a lezione, e la cosa l’aveva sorpresa non poco. Ciò che infastidiva entrambi i gemelli doveva essere un fattore comune che avevano trovato in casa loro, e l’unica idea che le veniva in mente erano quelle famigerate carte. Ma che c’entravano loro con il titolare di quel colosso dell’industria farmaceutica contro cui Byakuya stava preparando un’accusa senza pari? Non aveva mai scoperto cosa avessero gli occhi di entrambi, il motivo per cui portavano una benda all’occhio destro, che c’entrasse qualcosa? Eppure, qualcosa le diceva che per attaccare bottone non era l’argomento più adatto da tirare in ballo, o avrebbe seriamente rischiato di ritrovarsi una porta sbattuta in faccia. L’orgoglio le impediva moralmente di presentarsi da lui implorando spiegazioni – nossignore, non si sarebbe abbassata a tanto, non ci teneva a far la figura simile a quella della fidanzata lasciata con il cuore a pezzi senza un perché. Sarebbe stata ferma senza dubbio, se si aspettava che dopo la sua rispostaccia cedesse le armi si sbagliava di grosso. Se possibile, in testardaggine a scoprire le cose eguagliava – e forse superava – perfino Byakuya.Aveva la scusante perfetta per presentarsi da lui il giorno dopo – i loro libri erano ancora lì. E, volente o nolente, le avrebbe fornito le risposte che cercava.

 

   
 
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