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Autore: Lunkas    28/10/2012    2 recensioni
 """""...pensa di non essere un buon padre, perché i buoni padri non portano i loro figli al parco in taxi. I buoni padri si mettono il proprio figlio in spalla e fingono di essere feroci destrieri. I buoni padri portano il proprio figlio agli incontri culturali, alle mostre, ai musei, anche se è piccolo e non capisce niente."
 
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Brian Molko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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  Disclaimers: Questa storia è un'opera di fantasia: i personaggi ivi citati non mi appartengono. Non scrivo a scopo di lucro.
 



Daddy Cool
 




Suona il campanello della villetta a schiera numero 268 ed osserva il suo riflesso frammentato nella vetrata della porta. Istintivamente, una mano pinza dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle e resta sospesa in aria, alla ricerca di altri ciuffi scomposti.
E’ sabato, e come ogni sabato lui è fermo davanti a quella porta alle otto e trenta del mattino con gli occhi rossi per il poco sonno ed un sorriso tirato sulle labbra. Come ogni sabato mattina alle otto e trenta, aspetta impalato sullo zerbino per dieci minuti, giusto il tempo di farle scendere sbadigliando le scale, attraversare il salone stiracchiandosi e quindi andare in cucina a bere un bicchiere di acqua ghiacciata. Il tutto a piedi scalzi e con i capelli arruffati, perché non le piace alzarsi presto durante i weekend. Lui ricorda ogni sua singola abitudine, sebbene non le abbia mai sopportate.
Comincia a dare piccoli calci alla porta, distrattamente, seguendo un ritmo sconosciuto di quelli che la mente crea all’improvviso e poi dimentica. Sbuffa e sospira, perché odia aspettare e perché lei lo sa, ed è per questo che è così lenta. Quando vivevano ancora insieme era più svelta.
Sicuramente il piccolo sarà ancora a letto, pensa mentre il motivetto che aveva in testa si dissolve come nebbia. Sicuramente il piccolo sarà ancora a letto e lei mi farà entrare e mi farà sedere su quell’orrido divano e mi dirà “Vuoi un caffè?”; poi toglierà il posacenere dal tavolo perché davanti al bambino non si fuma, poi accenderà la TV e la sintonizzerà su Buongiorno, America! e scomparirà di sopra, mentre io mi sorbisco la storia lacrimevole e scontata della grassa in vestito rosso di turno alle otto e trenta del sabato mattina.
E lui odia tutto questo. Ed odia soprattutto le otto e trenta del sabato mattina. E lei sa che lo odia, per questo gli ha imposto questo giorno e questo orario, adducendo come scusa che in questo modo il bimbo non perde la scuola e può stare con lui un giorno intero invece delle sole cinque ore del pomeriggio del mercoledì.
Passano dieci minuti e la porta non si apre. Probabilmente non l’ha sentito. Pigia di nuovo sul campanello, tenendolo premuto a lungo. Così a lungo che il drin gli si ficca nel cervello e lui comincia a non sentirlo più. Così a lungo che da dentro si sente il grido: “Arrivo, cavolo!” e poi, più piano ma non troppo: “Coglione” . Allora lui lascia il campanello e sorride, perché stizzirla gli è sempre piaciuto, e lei lo sa e lo odia per questo.
Passano due minuti e mezzo e la porta si spalanca violentemente. Lei ha i capelli arruffati e gli occhi gonfi. I piedi sono scalzi, ovviamente. Si massaggia la testa con una mano, mentre appoggia la schiena allo stipite e tiene gli occhi chiusi, perché il sole le dà fastidio. Anche se è novembre, ed il sole non c’è.
“ ‘Giorno” borbotta lui, facendole un cenno con la testa.
Lei non risponde, ma mugugna qualcosa stropicciandosi gli occhi. Poi sbadiglia, stiracchia le braccia e, finalmente, lo guarda.
“Entra” dice, facendosi da parte. Gli lancia un’occhiata ammiccante.
Lui odia quella casa, lei lo sa.
Per questo lo fa entrare.


Eccolo là, parcheggiato di fronte alla televisione, su quell’orrendo divano in cuoio rosso. Sullo schermo la cicciona in abito rosso racconta qualche aneddoto sulla vita di qualcuno, ma lui non lo sente. Si sta guardando intorno, come fa ogni sabato mattina. Ricorda ogni cosa. Quell’arredamento squallido e pacchiano, la cucina a penisola con gli sgabelli accanto al bancone, la libreria colma delle classiche enciclopedie  comprate e mai sfogliate che – chissà perché – fanno sempre bella figura. Le foto di lei incorniciate alle pareti. Paesi, paesaggi, donne, lei e il bambino.
Quella casa apparteneva a lei per eredità della madre. La madre non voleva che lei lo sposasse e lei non aveva voluto cambiare gli interni. Lui avrebbe voluto non fare niente di ciò che poi aveva fatto. Volevo solo che non restasse incinta, dopo una sola notte; ma che vuoi? si chiama sfiga. Alcuni dicono: “Ma hai avuto il bambino, non sei felice?”. No, non sono felice. Non sono felice perché mi hanno costretto ad essere padre, ad abitare in questa casa e a non cambiare l’arredamento. Non sono felice perché ogni sabato mattina alle otto e trenta devo venire qui, e devo aspettare su questo divano comodo come un masso per più di un’ora. E non sono contento perché, per più di un’ora, devo vedere questa cicciona ripugnante, con il vestito fuori moda ed il rossetto sbavato. E non sono contento per..
Ma più di un’ora è passata, e dalle scale si sente il rimbombo dei passi. Poi dalla tromba esce il bambino, ordinato e profumato. E lui si alza e lo abbraccia, e il bimbo gli dà un bacio e gli dice buongiorno. Dietro di lui arriva la madre, anche lei pettinata, truccata e profumata, come se stesse per andare a far visita alla regina. Li guarda e sorride, ma lui sa che non vuole realmente sorridere. Il bimbo si stacca dall’abbraccio e prende la mano del padre, pronto ad uscire di casa. Allora lei comincia ad elencare una sfilza di raccomandazioni: deve pranzare a mezzogiorno in punto, altrimenti non digerisce; deve tornare a casa alle otto e trenta della sera, perché deve dormire; non  fargli mangiare schifezze, solo cibi sani e genuini al ristorante biologico in questa via; portalo al parco, così prende aria; non lo perdere di vista, mi raccomando, sii responsabile.
Lui annuisce, conferma, non controbatte, dice ciao e va via, con il bambino alla mano che parla con vocina sottile di quello che gli ha detto la maestra il giorno prima, e a lui non importa niente.


Sono in taxi, perché lui non ha la macchina. Lei sì, e gli ha sempre rinfacciato questo. Non sei un uomo vero, se non hai un’auto. E tu sei una rompiballe fatta e finita. Ha detto al tassista di portarli al parco, perché è lì che porta sempre il suo bambino, senza un apparente motivo. Forse perché ci sono le giostrine e altri bambini. Forse perché è l’unico luogo dove può essere lasciato in pace. Forse perché il parco piace a lui stesso, mentre al bambino dà solo noia. E’ seduto accanto a lui e gli dice di allontanare il viso dal vetro del finestrino.
“Sì, papà”.
Rabbrividisce inconsciamente. Sono ormai tre anni che viene chiamato così ogni sabato mattina, ma non è ancora abituato. E’ strano sentirsi chiamare “papà”. E’ strano essere papà di qualcuno ed aver odiato il proprio, di padre. Il bambino continua a guardare un punto imprecisato fuori dal finestrino, divorando tutte le immagini che scorrono davanti ai suoi occhi, che sono sempre le stesse di ogni sabato, ma lui non se ne rende conto. Lui segue il suo sguardo e pensa di non essere un buon padre, perché i buoni padri non portano i loro figli al parco in taxi. I buoni padri si mettono il proprio figlio in spalla e fingono di essere feroci destrieri. I buoni padri portano il proprio figlio agli incontri culturali, alle mostre, ai musei, anche se è piccolo e non capisce niente.
Ma il bambino sembra felice e lo chiama papà con naturalezza, mentre lui ogni sabato mattina beve tre caffè e fuma due sigarette per fronteggiare la giornata. E si sente ancora stanco. Il bambino però crede di essere figlio di un principe e di una principessa che si sono sposati sotto la luce della luna, accompagnati da un coro di angeli dalle ali dorate. Lui invece conosce la realtà, sa che l’unico coro era quello degli ubriachi del venerdì e che l’unica luce era quella della lampadina del corridoio, di quelle usate per chi ha paura del buio. Lui sa tutto questo, quindi ha il diritto di bere i tre caffè.
Tuttavia vuole provare ad essere un buon padre. Si volta verso il figlio, gli sorride e, per la prima volta in tre anni, gli chiede dove vorrebbe andare. Il bambino non coglie la novità e gli risponde che – ti prego, papà – vuole visitare il museo dei dinosauri.
E lui odia il museo dei dinosauri.
E il tassista sorride, perché la strada verso il museo dei dinosauri gli frutterà un sacco di soldi.
 
La sera squilla il suo cellulare e lui risponde. E’ lei che gli chiede com’è andata questa volta. Lui dice bene. Cala il silenzio.
Lui non ha mai capito le telefonate del sabato sera alle nove. Durano in media venti minuti, il tempo di intrattenere una conversazione sulle generali. Ma quando cala il silenzio è pericoloso: vuol dire che la conversazione continua.
“Ho pensato che tu debba vederlo più spesso” lancia lei. Lui chiude gli occhi. Inspira. Espira. Riapre gli occhi e fissa un punto davanti a sé: “Ne abbiamo già parlato”.
“Ed io ne riparlo ancora” la voce è acuta, ma torna subito un sussurro. Forse il bimbo si è appena addormentato. “Non puoi essere il padre del sabato, lo sai”.
“Lo sono stato per tre anni: ci ha fatto l’abitudine”. Sospira, incrocia nervosamente le gambe e corruga la fronte: odia questi discorsi.
“Potresti venire a passare una settimana da me, lo faresti…”
“No”.
Lei sospira. Si schiarisce la voce e tossicchia. Dalle scale la guarda il figlio, senza essere visto.
“La dottoressa dice che sbagli. E quando comincerà le elementari e gli faranno domande non saprà cosa rispondere: non crederà alla storiella dei principi ancora a lungo” argomenta, pur sapendo che è tutto inutile.
“Non dovrà dare risposte: il suo cognome basta e avanza” risponde lui, massaggiandosi gli occhi e preparandosi a chiudere la chiamata. Ma lei lo precede: “Aspetta”, dice, e lui sente dei rumori di fondo, come si stesse trascinando o tirando qualcosa. Stringe più forte il cellulare, senza farci caso. Una ciocca di capelli gli ricade sugli occhi, e lui pensa soltanto che in quella casa orrenda non metterà più piede.
Rumori diversi, di qualcosa che viene preso. Avvicina ancor di più il telefono all’orecchio e sente un’altra voce, sottile.
“Ti voglio bene, papà”.






Precisazioni varie e necessarie:
Comincio con il dire che questa storia non è stata concepita in questo modo, in origine. Alla genesi doveva essere una raccolta di tre brani, ognuno dei quali con un io narrante differente (rispettivamente Stefan Olsdal, Steve Forrest e Brian Molko). Purtroppo - o per fortuna - interpretare ciascun personaggio mi è risultato troppo complicato, anche perché cambiare stile di scrittura ad ogni racconto avrebbe fatto venir fuori un aborto peggio di questo LOL. Ergo, TA-DA', ho partorito ciò che avete appena letto.
Sicuramente Brian Molko ed Helena Berger hanno un rapporto tutto rose e fiori, lui è un padre esemplare ed onnipresente (probabilmente anche un po' rompiscatole, checcevuoifa') ed ama i dinosauri come fosse un paleontologo, e magari ha tutti i fascicoli della DeAgostini sull'argomento. Ripeto: sicuramente. Ma, insomma, la tristezza piace a tutti, e più qualcosa è scuro e nero più a me personalmente piace. Ciò non vuol dire che la storia che ho scritto mi piaccia; ma, se avete scritto qualcosa di nero e triste, sappiate che l'ho letto.
Avrete notato che un paio di volte sono passata dalla terza persona alla prima, volutamente. E' la prima volta che uso questo espediente "letterario", perché mi piace molto. E poi credo trasmetta un maggior senso di coinvolgimento nei pensieri del personaggio. (Smentitemi se non è vero. )
Vorrei sottolineare, anche se credo l'abbiate notato, il non aver usato i nomi propri di tutti e tre i personaggi coinvolti. Questo perché volevo "spogliarli" del loro essere noti, e renderli solo persone... comuni e neutre, senza nome. Solo Lei, Lui e il Bambino.
Ho detto tutto?
Mh. Credo di sì.
AH! Volete fare contenta un'anima che arranca nell'erba alta della scrittura? Lasciate un commentino-ino-ino sotto qualsiasi bandierina-ina-ina! Le critiche costruiscono, non abbattono, e quindi sono piùchebenaccette!




  
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