Ed
eccoci agli sgoccioli della Kurtbastian Week, questo è il
nostro penultimo
appuntamento.
Devo
dire che è stata la traccia, questa, che mi ha dato
più da pensare, soprattutto
l’inghippo del comprendere se “perso” si
riferisse ad una questione puramente geografica
e di orientamento o uno stato d’animo ma, come sempre, ho
interpretato la
traccia a modo mio.
Prima
di cominciare, come sempre ringrazio tutti voi che commentate, inserite
tra
preferiti, ricordate e seguite.
Ci
tengo poi a dare un personale benvenuto alla mia Blaininuccia (SuperAmy82) approdata su EFP da poche
ore e che già ha fatto lievitare il numero di recensioni in
generale, come se i
commenti in privato e i suoi betaggi a posteriori non fossero
abbastanza
preziosi. E’ un onore e una gioia averti con noi! :D
E,
come sempre, a ringraziare la mia Sebastian (therentgirl)
per le sue splendide recensioni e l’entusiasmo con cui
legge ma anche perché, nello specifico in questa fanfiction,
è stata così
gentile da leggerlo la scorsa settimana, dandomi un suo parere sulle
parti in
lingua straniera e in un italiano (che poi sarebbe inglese nella
narrazione)
maccheronico, oltre a qualche dubbio dell’ultimo momento :D
Buona
lettura! :)
LOST...
SO VERY LOST
Ça
va?
Kurt amava darsi all'esplorazione della soffitta: in vero spesso e volentieri si rammaricava molto di non avere abbastanza tempo da farlo. Ogni volta che si rinchiudeva nella mansarda, era come trovarsi di fronte ad innumerevoli tesori e reliquie del passato: ognuno di quegli oggetti – per quanto adesso impolverato o rotto o usurato dal tempo – recava un pezzo della sua storia, un pezzo di sé. Con particolare cura, lui e suo padre avevano conservato oggetti che erano appartenuti a sua madre: la spazzola d'avorio, ad esempio, o lo specchio che Kurt non mancava di tenere sempre sullo scaffale dalla propria toeletta. Ognuno di quei ninnoli di valore economico più o meno elevato, aveva visto una fase della sua vita e così come ogni capitolo era parte del libro, ciascuno aveva rappresentato qualcosa, l'uomo che era adesso.
E quale occasione migliore del
trasloco nella nuova
casa, con la sua nuova vita per cercare – con un approccio un
po' sentimentale
e nostalgico – un piccolo segno del suo passato?
Un suggello del presente, scavando in ciò che era stato.
Aveva già catalogato gli oggetti: in una scatola separata delle altre aveva tratto qualche gingillo che, dopo l'approvazione di Carole e di suo padre, avrebbe portato nella nuova casa. All'interno ne spiccavano alcuni: dal guanto che aveva cucito lui stesso per esibirsi in “Single Ladies” fino alla divisa della Dalton, la toga rossa del suo diploma, un poster di Taylor Lautner (quello avrebbe dovuto nasconderlo) fino agli spartiti delle sue canzoni preferite.
Restava da togliersi un ultimo sfizio prima di tornare alla realtà: aveva occhieggiato lo scaffale con tutti gli album di famiglia fino a trarne il primo della pila.
Rimirò a lungo le fotografie di sua madre: una splendida donna dai capelli biondi ed ondulati, i suoi stessi occhi azzurri baluginanti di serenità nello stingere il ventre dolcemente ricurvo. Si soffermò sulle fotografie di quella che era stata la famiglia Hummel fino a quando la malattia non se l'era portata via: quanta gioia nel volto di suo padre e quanto entrambi apparissero innamorati e devoti l'uno all'altro. Aveva sospirato all'ennesima fotografia che lo ritraeva, ancora neonato, tra le sue braccia fino a quando gli occhi non si erano inumiditi e aveva ripreso a sfogliare le pagine, una per una.
Giunse all'estate del suo settimo anno, l'ultima che avevano trascorso tutti insieme, erano andati in vacanza in Europa e non avrebbero mai immaginato quanto le loro vite sarebbero cambiate da lì a poco. Se aveva sorriso di fronte agli scatti familiari o di se stesso vestito di tutto punto ed elegante, particolarmente compiaciuto in un completo perfettamente abbinato alle valigie che trasportava, si fermò di fronte ad un'ennesima fotografia.
Sbatté le palpebre a più riprese nel leggere la data riportata in basso e la scritta “Paris” prima di osservare il bambino ritratto al suo fianco.
Sentì un vuoto
d'aria alla realizzazione, una mano
andò a coprirsi le labbra: scollò delicatamente
la fotografia dall'album e se
la portò vicino al viso per studiarne i lineamenti.
Lo stesso sguardo, lo stesso sorrisino compiaciuto e sicuro di sé malgrado fosse poco più che un bambino ma aveva già la stessa sicurezza e lo stesso savoir-faire.
Quello ritratto nella fotografia non era altri che Sebastian Smythe.
~
Quella delle vacanze in Europa
era stata
sicuramente una delle idee più meravigliose che i suoi
genitori potessero mai
avere.
Erano sempre entrambi troppi
impegnati, a suo
parere, ma avevano stretto la promessa di trascorrere molto
più tempo insieme e
quel proposito non avrebbe potuto iniziare che in un momento lieto,
come le
vacanze estive.
Così era accaduto.
Avevano lasciato l'Ohio, pieni
di entusiasmo e di spirito d'avventura ed erano partiti per
l’estero.
Kurt non era stato capace di
frenare l'entusiasmo
al conoscere la meta del loro viaggio: Parigi. La città
dell'amore nonché una
delle principali icone della moda: già prima di partire
aveva immaginato come
sarebbe stato bello camminare sui boulevard, mangiare baguette, bere
acqua
frizzante e rimirare il paesaggio dalla Tour Eiffel. Se aveva sempre
pensato
che Parigi fosse una meravigliosa città, a giudicare dalle
immagini della
televisione e dalle fotografie nei suoi libri di scuola, poterla vedere
dal
vivo e poterla vivere, era
sicuramente ciò che si era prefisso.
Anche se solo per quei pochi
giorni, prima che la
famiglia Hummel terminasse il suo piccolo tour europeo per poi
rientrare negli
Stati Uniti.
Aveva già terminato
un rullino di fotografie ma era
inevitabile: ogni piazza o luogo rinomato era ricco di fascino, dai
monumenti
storici fino ai giardini con le fontane e i giochi d'acqua e persino le
boutique con l'esposizione delle nuove collezioni di Coco Chanel.
Stare a Parigi, checché ne dicesse il padre che lo punzecchiava sorridendo, era un calarsi in quello stato d'animo e lui, con l'aiuto della mamma, poteva dire di esservi perfettamente riuscito.
“Kurt, sbrigati” lo
aveva richiamato l'ennesima
volta suo padre e Kurt aveva annuito distrattamente: aveva dovuto
indietreggiare per poter cogliere
Sorrise soddisfatto dopo aver premuto il pulsante per azionare la macchina fotografica e rimirò l'immagine che aveva catturato.
“Guarda, papà, ho-”.
Sbatté le palpebre, guardandosi attorno e sgranando gli occhi alla ricerca della sua familiare fisionomia.
“Papà?” lo
richiamò a voce più alta, avanzando nella
piazza gremita di persone e sollevandosi su una panchina per cercarlo.
Il cuore
prese a scalpitare furiosamente e si morsicò il labbro prima
di continuare a
chiamarlo, a voce sempre più alta, attirando l'attenzione
generale.
Si era perso. Solo a Parigi. E non aveva la benché minima idea di come poter far ritorno all'albergo: si erano spostati con il taxi per giungere fin lì, senza contare che non avrebbe saputo ritrovare la strada.
Cercò di placare i battiti convulsi e mantenersi calmo. Suo padre sarebbe sicuramente tornato indietro: insomma quando gli diceva “guarda che ti lascio qua e raggiungo tua madre” stava soltanto scherzando, non lo avrebbe davvero lasciato solo e sperduto. Nessun genitore lo avrebbe mai fatto.
Con aria afflitta si sedette sulla panchina: le manine sulle ginocchia, lasciò penzolare le gambe, in attesa. Suo padre sarebbe tornato a cercarlo, avrebbe soltanto dovuto attendere.
Ma i minuti trascorrevano e l'angoscia diveniva sempre più opprimente, aveva gli occhi lucidi ma si era imposto di mantenersi calmo. Quasi a rinvigorire quel monito, aveva stretto i pugni e corrugato le sopracciglia.
Andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene…
“Comment tu t'habilles?” [1]
Si era voltato al sentire il suono di quella voce e aveva scorto un bambino più o meno della sua età che lo scrutava con le sopracciglia inarcate e gli occhi verdi fissi su di sé. Lo stava squadrando dall'alto al basso tanto che, seppur non ne avesse compreso le parole e non conoscesse la sua lingua, poté intuire che quella che gli aveva rivolto era una critica.
Tuttavia, aveva un problema ben più urgente da risolvere: si morse il labbro ma riprese a scrutare la folla, ancora cercando la fisionomia familiare del padre.
“Alors?” lo aveva
apostrofato l'altro che, senza
attendere invito, si era seduto al suo fianco, dopo aver appoggiato la
bicicletta contro la panchina. Il braccio si era sporto sullo schienale
della
panchina, alle sue spalle.
“Répondes-moi, donc!” [2].
Sapeva che era maleducato non rispondere alle persone ma come dire a quel bambino, con tutto il rispetto possibile, che in quel momento aveva un ben altro problema da risolvere? Si era morso il labbro prima di voltarsi mentre questi continuava a fissarlo con lo stesso atteggiamento critico: aveva anche notato come la sua voce fosse apparsa imperativa.
“Scusa, io non capisco” aveva balbettato e l'altro sembrò intuire perché il sorriso si fece più suadente.
“Non palli la mia langue, donc”.[3]
Kurt aveva scosso la testa ma era evidentemente sollevato che il bambino fosse, invece, abbastanza pratico di inglese così da poterlo comprendere e, inoltre, il suo accento era particolarmente simpatico.
“No” aveva risposto contrito seppur sollevato: avrebbe sempre potuto chiedere a lui un aiuto per far ritorno in albergo o almeno ritrovare suo padre.
“Sei un turissa?”. Lo incalzò di nuovo, prima che potesse aprir bocca.
“Turista” lo corresse
automaticamente Kurt e il
bambino sembrò accigliarsi perché si
sollevò dalla postazione, le braccia
incrociate al petto.
“E io cosa ho detto? Turissa!” aveva ribattuto e Kurt dovette trattenere il sorriso: non era educato sorridere degli errori altrui e, dopotutto, era lui il bambino straniero tra i due.
“Scusa” aveva
ribattuto ma era tornato ad osservare
la folla.
“Comment ti chiami-tu?” aveva chiesto ancora, evidentemente facendo una fusione tra le due lingue che, Kurt lo doveva ammettere, era davvero molto buffa a sentirsi.
“Kurt e tu?”. Aveva risposto distrattamente.
“Sébastien” replicò subito, il sorriso pronto sulle labbra e il dardeggiare del suo sguardo mentre si stringevano le mani come avevano visto fare dagli adulti in simili occasioni.
“Alors, Katt” dovette
mordersi il labbro per
ricordarsi che non sarebbe stato educato ripetere e scandire meglio il
proprio
nome ma sembrava avere dei particolari problemi a pronunciare la erre.
“...
comment ti sei habbiliato?” e di fronte al suo sguardo
confuso, aveva indicato
i suoi vestiti come a dargli prova della propria perplessità.
Fu il momento di Kurt di
apparire spiazzato.
“Non ti piacciono?”
aveva domandato quasi
mortificato e lui stesso aveva osservato nuovamente il proprio
completo: una
maglietta a strisce azzurre e blu, jeans, scarpe da ginnastica e un
basco abbinato
al foulard azzurro allacciato al collo. Aveva persino degli occhialini
da sole
che aveva appuntato alla maglietta.
“Ci si veste
così in Francia” aveva ribattuto con
tono sicuro, le braccia adesso incrociate al petto mentre l'altro si
accigliava
nuovamente.
“C'est ne pas vrai!”
Aveva ribattuto indignato. “Non
è velo!” aggiunse poi tornando all'inglese per poi
indicarsi e Kurt lo scrutò a
sua volta dubbioso: non era poi così diverso da come si
vestiva lui per giocare
al parco.
Cosa aveva di tanto speciale? Dov'era lo spirito parigino?
“Come vuoi” aveva
ribattuto, sollevandosi dalla
panchina e morsicandosi il labbro al pensiero del padre che, nel
frattempo,
ancora non era tornato.
Quanto tempo era passato? E se
si fosse perso a sua
volta? Non avrebbero dovuto separarsi dalla mamma, e avrebbero dovuto
comprare
una cartina della città.
Sentì nuovamente l'angoscia stringergli la gola.
“Pourquoi sei qui tutto solo? Dove sono i tuoi paronti?[4]”.
“Ero qui con il mio
papà” rispose Kurt, la voce più
rauca ad indicare che stava per mettersi a piangere.
“Ma adesso non lo
vedo più” si era nuovamente volto
ad osservarlo, adesso speranzoso.
“Puoi aiutarmi? Devo tornare all'albergo”. Gli aveva descritto l'edificio e il quartiere nel quale si trovava fino a quando l'altro non aveva annuito con sguardo illuminato.
“Sai dove si trova?”.
“Absolument. Scerto che lo so!”.
“Allora mi ci puoi portare, per favore?” aveva domandato, adesso in tono quasi supplichevole nel congiungere le mani ed osservarlo, si stava nuovamente morsicando il labbro ma Sébastien continuò a scrutarlo vagamente divertito.
“No” rispose con una scrollata di spalle.
“Cosa?! Perché?!”. Si sentì chiedere con voce più stridula, aggrappandosi al braccio del bambino che in risposta aveva sorriso ancora più divertito prima di stringersi nelle spalle.
“Ti sci potto, va bien... ma après devi faire una cosa per moi” aveva dichiarato: le braccia strette al petto nello scrutarlo con il sopracciglio inarcato al che Kurt aveva annuito, un sorriso sollevato.
“Quello che vuoi... grazie. Messì”. Cercò di pronunciare quel “merci” che la madre aveva spesso pronunciato in quei giorni, rivolgendosi alle persone dell'albergo, accompagnando la parola con un bel sorriso. Ma Sébastien aveva sorriso maggiormente prima di stringersi nelle spalle.
“Allora devi passare toute la sgiornata con me. Poi ti potto dai tuoi paronti”.
~
Non c'era stato modo di
dissuadere Sébastien e
aveva constatato già in quei primi momenti quanto potesse
essere cocciuto e
dispotico quando si metteva in testa qualcosa. In fondo, tra il restare
tutto
il giorno in quella piazza ad attendere da solo e poter trascorrere la
giornata
con qualcuno che già si ambientava abbastanza da uscire da
solo, sapeva che
avrebbe preferito la seconda opzione. Aveva tuttavia scongiurato
l'altro
bambino perché gli permettesse di telefonare ai genitori per
avvisarli che
stava bene e che sarebbero potuti tornare a prenderlo quella sera,
perché –
come promesso – avrebbero trascorso insieme quella giornata.
Così, nonostante
la sua cocciutaggine, il parigino si era lasciato convincere,
assicurandolo che
sarebbero subito andati da sua madre e che lei avrebbe avvisato i suoi
genitori.
Lo stupore e la meraviglia di
Kurt aveva raggiunto
l'apogeo quando il bambino lo aveva condotto, con perfetta nonchalance,
al
ristorante del primo piano della splendida Tour Eiffel. Era da quando
erano
giunti a Parigi che desiderava scalarla – magari non
facendosi tutti i più di
mille scalini a piedi – per rimirare il paesaggio notturno e
i giochi d'acqua
delle fontane.
Aveva osservato quell'ambiente
lussuoso con gli
occhi sgranati e le labbra schiuse ma, quasi intimorito, era rimasto
fuori
dalla porta fino a quando l'altro non si era voltato a guardarlo.
“Che fai
lì impalatò? Viens, Katt, devi dile a
Maman come si chiama la tua mamma così può
chiomare l'albeggo” il bambino,
tuttavia, era arretrato maggiormente.
Aveva osservato il locale dalle vetrate con evidente desiderio ma sembrava incapace di compiere un passo in avanti.
“Non posso” aveva
commentato, morsicandosi il
labbro.
“Non sono vestito per venire al ristorante: non ho neppure una cravatta! O una spilla!”. Aveva esclamato con tono evidentemente palese del suo dilemma e della sua vergogna al riguardo.
Sébastien aveva sorriso divertito prima di scuotere il capo ed avvicinarsi.
“Va tutto bien, devi solo
stammi viscino” aveva
commentato e, senza attendere risposta, ne aveva cinto la mano per poi
entrare
finalmente nel locale. Kurt sentì un improvviso calore al
viso, sembrò scivolare
lungo la spina dorsale fino e fargli bruciare le guance ma non aveva
nulla a
che vedere con il calore del locale. Era la sensazione di quella mano
dalle
dita affusolate che aveva stretto la propria con tanta delicatezza ma
sicurezza.
Un gesto che, a quanto Kurt ne sapeva, si compiva quando ci si trovava in presenza di una persona importante per la quale si provasse un forte affetto. Non aveva comunque esitato a stringergli a sua volta la mano, notando come le loro dita riuscissero perfettamente a combaciare tra loro e quanto fosse piacevole abbandonarsi a lui, senza paura. Non sapeva neppure da cosa nascesse quel riuscire a seguirlo senza timori di sorta: nella sua città avesse spesso problemi a interagire coi compagni di classe o i bambini della sua età. Ma non era una sua colpa se, a differenza loro, non amava praticare gli sport, o fare giochi di lotta o qualsiasi altro espediente che gli facesse macchiare i suoi bei vestiti. Per la prima volta, provava quel dolce calore al petto e non avrebbe voluto per alcun motivo che dovesse finire.
Sébastian si muoveva con incedere sicuro, salutando di tanto in tanto qualche cameriere, evidentemente non era la prima volta che entrava nel locale e se anche qualcuno osservò curiosamente Kurt, ma tutti sorridenti, nessuno sembrò trovare qualcosa da ridire sulla sua presenza. E la sua mamma era davvero una splendida signora, vestita con un tailleur elegante – Coco Chanel registrò Kurt osservandone il marchio dei bottoni e della cintura – ed era il maître: aveva un viso ovale dai lineamenti cesellati ad arte. Gli stessi occhi di quella sfumatura di verde e qualche neo a punteggiarle la guancia, proprio come quelli di Sébastien che Kurt aveva trovato deliziosi alla vista malgrado lui, invece, si fosse sempre rammaricato di quelle piccole efelidi a coronarne il nasino o la mezzaluna sotto l'occhio.
Oltre ad essere bella, la sua
mamma era anche molto
gentile ed affabile: parlava un perfetto inglese – dovevano
essere moltissimi i
turisti che incontrava tutti i giorni, a ben pensarci – e fu
subito disponibile
a telefonare agli Hummel e persino invitarli a cena, quella sera, nel
suo
locale, così da assicurare ai due bambini di poter
trascorrere del tempo
insieme.
Si era dimostrata non poco
entusiasta
dell'iniziativa del figlio ed aveva insistito perché
pranzassero lì malgrado
Kurt fosse apparso molto imbarazzato per la mancanza di denaro.
La donna si era limitata a scompigliargli i capelli e ridere della sua preoccupazione, rassicurandolo che per gli amici del figlio avrebbe potuto far bene altro.
L'idea di sedere,
però, in quel ristorante era
stata non poco elettrizzante e, sorseggiando la sua acqua frizzante,
aveva
osservato il panorama dalla vetrata prima di volgersi al bambino seduto
dall'altro lato.
“Allora è
vero?” aveva domandato, ripensando alle parole della madre di
Sébastien.
“Mh?” aveva chiesto l'altro, lo sguardo già volto alla sua crème brûlée che prese a gustare con evidente golosità mentre Kurt ne studiava la forma e la composizione – chissà quante calorie aveva quel dolce? - prima di sollevare la posata.
“Siamo amici?” aveva domandato e avrebbe voluto che la sua voce non tradisse quell'imbarazzo e quell'anelito di emozione ma il bambino di fronte si era limitato a sorridere con evidente sicurezza, stringendosi appena nelle spalle.
“Ça va[5]” aveva risposto e, di fronte allo sguardo perplesso di Kurt, aveva riso.
“Forse” aveva
soggiunto, scrollando le spalle come a
sminuire il tutto ma, in fondo al suo cuore, Kurt seppe che si trattava
di una
dolce conferma ma proclamata a bassa voce.
Un po' come il suo papà che sembrava burbero a chi non lo conosceva e magari si impressionava a sentirlo parlare con la voce grossa ma, in realtà, era l'uomo più buono al mondo.
~
Parigi sembrava vestire il suo abito migliore quando calavano le luci e, avvolto nel suo soprabito più elegante, stava rimirando il paesaggio della città con l'immancabile presenza di Sébastian al suo fianco. La città appariva così minuscola da quella prospettiva ma lo sguardo abbracciava un paesaggio strabiliante: persino le automobili che attraversavano i lunghi boulevard apparivano come giocattoli, osservava con occhi sgranati la luce che dalla Torre scendeva ad illuminare tutto ciò che vi era al di sotto. Si sentiva come un sovrano che osservava il suo vasto impero che si apriva di fronte a lui, in tutto il suo splendore: si era stretto maggiormente nella giacca a causa dell'aria più fresca ma aveva riso con entusiasmo quando i giochi d'acqua delle fontane erano stati attivati. Le labbra schiuse e negli occhi azzurri si riflettevano quelle molteplici luci ma l’entusiasmo non era condiviso dal bambino al suo fianco per il quale quella vista doveva aver perso ogni attrazione. Ma non aveva lasciato il posto vicino al suo e sorrideva del suo divertimento: era stato in quel momento che Kurt si era voltato e aveva notato il suo sguardo su di sé. Aveva sgranato gli occhi e aveva sentito il cuore battere più forte ma puerilmente si era scostato una ciocca di capelli dalla fronte che sembrava sempre voler sfuggire alla sua pettinatura più ordinata.
“Ho i capelli in disordine?” aveva chiesto ma Sébastien aveva scrollato le spalle. L'attimo dopo, tuttavia, si era chinato con un ghignetto a scompigliarli completamente, strappandogli uno strillo di disappunto che aveva fatto voltare molti altri turisti e ridere i genitori. Questi ultimi avevano scosso il capo prima di tornare a loro volta ad ammirare il paesaggio, vicini ai genitori di Sébastien.
“Oui, sono tutti dissordinoti” lo aveva canzonato ma Kurt aveva imbronciato le labbra seppur cercasse di nascondere il sorriso divertito: era tornato ad osservare il paesaggio prima di volgersi nuovamente ad osservarlo.
“E' vero che Parigi
è la città dell'amore?” aveva
chiesto dopo un breve istante di silenzio e aveva sentito il bambino al
suo fianco
ridere di cuore. E
ra arrossito furiosamente prima di imbronciarsi e volgere lo sguardo altrove per non fargli capire quanto si sentisse offeso dal fatto che non lo prendesse sul serio. Cosa c'era di male nel rispondere ad una sua domanda? Lo considerava una femminuccia come tutti gli altri bambini? Era per questo che si faceva beffe di lui?
“Non lo so” aveva
risposto dopo un attimo, il
sorriso sulle labbra nel tornare ad osservarlo.
“Forse
sì”
si era avvicinato a Kurt fino ad abbassarsi ad appoggiare le labbra
contro la
sua guancia. Un tocco delicato e soffuso che gli fece aumentare i
battiti del
cuore e sgranare gli occhi mentre Sébastien, lo sguardo
ancora ridente, lo
osservava dall'alto, quel cipiglio che aveva ormai imparato ad
associare al suo
viso e al suo carattere.
“Vuoi sposammi, Katt Ammèl?” aveva chiesto, infine, con un sorriso così presuntuoso in quell'ammiccargli che Kurt aveva dovuto distogliere lo sguardo, le guance arrossate malgrado ridesse lui stesso. Si strinse nelle spalle.
“Sa va” cercò di storpiare la stessa risposta che Sébastien gli aveva fornito quando erano seduti al ristorante, seppur non avesse ben capito cosa significasse. A quel punto l'altro bambino aveva sorriso trionfante.
“
Quando saremo grondi,
viendrò in Amerique e sci
sposseremo, ça va?” aveva domandato con un sorriso
scintillante che, suo
malgrado, Kurt aveva ricambiato, annuendo vigorosamente.
Ne rimirò ancora una volta il profilo e provò ad immaginare quale linea avrebbe potuto disegnare per congiungere tutti i suoi nei.
“Sa va” aveva replicato in un sussurro.
~
Aveva osservato il suo operato con evidente soddisfazione, prima di togliersi il grembiule. La tavola era già stata apparecchiata per due, le candele erano accese per creare un'atmosfera più romantica, il sottofondo musicale e aveva indossato un completo nuovo e ancora lustro.
Quando sentì la porta dell'ingresso schiudersi non poté che sorridere, pieno di aspettative, mentre l'uomo annunciava il suo ritorno. C'erano ancora molte e molte scatole di oggetti da riporre nonché la tappezzeria e la moquette, le decorazioni di cui occuparsi ma aveva tutto accatastato nel salotto perché la sala da pranzo fosse perfettamente in ordine.
“Perché è tutto buio, non dirmi che hai dimenticato di pagare la bolletta della luce e...?” si era interrotto nell'osservare lo scenario romantico che il giovane aveva creato in sua assenza.
“Oddio, non dirmi che ho dimenticato una ricorrenza” si era lasciato sfuggire mentre Kurt solleva gli occhi al cielo ma accettava di buon grado quel bacio sfiorato a mo' di saluto.
“Zitto e siediti” aveva convenuto e non si era meravigliato dello sguardo allusivo e divertito di Sebastian che aveva fatto scoccare la lingua sul palato prima di prendere posto, un sorriso a dir poco sornione.
“Mhm, mi eccita quando cominci
a darmi ordini” e
Kurt dovette ringraziare che la penombra della stanza celasse ad
entrambi il
suo rossore. Si domandò distrattamente se mai sarebbe stato
in grado di
fronteggiare quella sincerità tanto sfrontata e sfacciata.
Non rispose ma depositò di fronte a Sebastian un piatto con coperchio, prima di fargli cenno di sollevarlo: cosa che fece rivelando una crème brûlée.
“Non è il mio
compleanno” aveva ribattuto l'altro
per poi sorridere. “E non conterrà un po' troppe
calorie?” aveva chiesto
sornione, cingendogli la vita sottile e strappandogli un vezzoso verso
di
divertimento. Si era dolcemente divincolato prima di estrarre una
fotografia
dalla tasca e porgergliela. Lo vide inarcare le sopracciglia nel
prenderla per
poi osservarla e i suoi lineamenti ne tradirono l'iniziale sorpresa
prima che
un sorriso più suadente gli sfiorasse le labbra.
Inarcò le sopracciglia.
“E così te lo sei
ricordato, infine, Ammèl” aveva
convenuto.
Era passato molto tempo,
eppure lo sguardo aveva
ancora lo stesso scintillio sicuro di sé, lo stesso
sorrisetto suadente ed
allusivo che gli fece sgranare gli occhi alla realizzazione.
Sentì le proprie guance imporporarsi e il cuore sembrò restare sospeso in gola mentre il dubbio diveniva sempre più palese.
“Tu lo ricordavi... fin dal
primo momento?”.
Persino da quando si erano conosciuti e tra loro era subentrato quell’antipatia? E non ne avrebbe mai fatto parola se lui non avesse trovato, per puro caso, quella fotografia? Lo aveva ricordato per tutti quegli anni, mentre lui – dopo la morte della madre – aveva smarrito ogni ricordo?
“Ci ho messo un po' di tempo a collegare le due cose” convenne con una lieve scrollata di spalle che, se possibile, fece solo accrescere la curiosità e l’incredulità di Kurt.
“E non mi hai detto nulla”. Si era morsicato il labbro quasi a disagio.
“Sapevo che prima o poi ci saresti arrivato ma se credi che userò questo aneddoto per il tuo compleanno, allora mio caro Hummel-”.
Non aveva terminato la frase
perché Kurt gli aveva
appoggiato un dito sulle labbra e si era chinato in sua direzione.
Avrebbero
avuto tutta la vita davanti per discutere di questo e
dell’inizio di quel loro
rapporto. Avrebbe avuto altre occasioni per ripercorrere quel primo
incontro,
ma vi era una dolce consapevolezza che, in fondo, avevano sempre saputo
di
appartenersi.
Ad una maniera del tutto particolare.
“Hummel-Smythe,
prego” aveva sussurrato, la fede che
scintillava al riflesso delle candele mentre la metteva in bella mostra.
Lo sguardo smeraldino guizzò compiaciuto mentre lo attirava dolcemente a sé.
“Tutto si
può dire di me, dopotutto, tranne che non
rispetti le promesse”.
Sarà il mio ultimo appuntamento, quello stabilito per domani:
Ho optato per il Crossover ma non vi svelerò altro, a domani dunque! :)