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Autore: Fairy_tale    29/10/2012    3 recensioni
One shot ambientata durante il decimo episodio della quarta stagione di The Mentalist che ripercorre i fatti della puntata seguendo da vicino Lisbon e i suoi pensieri, tutto ciò che lei può aver provato dentro di sè e che la storia non ha raccontato. Dalla storia:
"Non può essere vero.
Non può essere accaduto realmente, non è possibile.
Non posso e non voglio credere a tutto questo.
Probabilmente è solo un incubo, tra poco mi risveglierò e tutto sarà come prima, come è sempre stato, e come deve essere.
Tu ritornerai quello di prima."
Spero solo che vi piaccia.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FORGETTING

 

 

 

 

Non può essere vero.

Non può essere accaduto realmente, non è possibile.

Non posso e non voglio credere a tutto questo.

Probabilmente è solo un incubo, tra poco mi risveglierò e tutto sarà come prima, come è sempre stato, e come deve essere.

Tu ritornerai quello di prima.

Era tutto così normale, così semplice, così ripetitivo. La solita segnalazione anonima, il solito cadavere, le solite indagini di procedura e tu, il solito consulente curioso che non vuole mai seguire i miei ordini.

Ti avevo detto di non allontanarti, ti avevo pregato di non addentrarti da solo in quella palude buia, ma tu non mi hai ascoltato.

Non lo fai mai.

Ma se per una volta avessi messo da parte i tuoi giochetti da mentalista io ora non sarei qui, con le lacrime agli occhi, a cercare di dare una spiegazione a tutta questa storia senza senso.

Ad un tratto mi sono voltata e tu non c’eri più.

Ho iniziato a cercarti, ho urlato invano il tuo nome mentre mi lasciavo alle spalle la squadra per trovarti, ma non mi sarei mai immaginata di assistere ad un simile spettacolo.

Di fronte a me uno stagno acquitrinoso. La superficie è piena di rifiuti, legna, giunchi e, più in là, un corpo.

Il tuo corpo.

Mi getto senza pensare in quelle acque fangose, aggrappandomi con ferocia al tuo corpo ormai quasi privo di vita, nel tentativo di riuscire a riportarti a galla. E urlo, urlo come non penso di non avere mai fatto, chiamo aiuto con tutto il fiato che ho in gola e con le ultime forze che mi rimangono tento di toccare la riva.

Quello che segue è solo un groviglio confuso di immagini e suoni che si ripresentano alla mia mente senza un apparente ordine logico preciso.

La prima cosa che ricordo chiaramente sei ancora tu, questa volta sei steso su una barella, le braccia aperte e la camicia strappata. Intorno a noi ci sono molte persone che attendono un tuo segno, un tuo gesto, per far capire che ci sei, che stai ancora lottando, come hai sempre fatto.

I ragazzi, ancora sconvolti, sono tutti qui, intorno a te. Grace piange, non riesce a trattenere le lacrime e Wayne la sorregge, anche lui è ancora sconvolto. Persino Cho ha abbandonato la sua usuale maschera di imperturbabilità ed ora è preoccupato, come tutti del resto.

Io sono qui, accanto a te e ti guardo mentre lentamente il tuo cuore riprende un ritmo normale, ma non riesco a vedere i tuoi occhi, i tuoi bellissimi ed oscuri occhi, aprirsi e rivolgersi ancora a me, con quello sguardo scrutatore che ti appartiene e ti caratterizza.

Nel frattempo prego.

Prego per me, ma soprattutto per te.

Invoco tutte le divinità esistenti in questo mondo affinché tu rimanga qui, rimanga con me.

So che tu non credi in niente ed in nessuno, l’unica cosa su cui fai affidamento è te stesso, ma ti prego, ti scongiuro, lasciami almeno la mutua speranza di credere di poterti essere in qualche modo di aiuto attraverso i miei taciti voti in questa tua personale lotta.

Lascia che ti aiuti, lascia che mi prenda cura di te.

Ed ora, non so come, sono qui, in questa asettica sala d’attesa dell’ospedale in cui ti hanno ricoverato in terapia intensiva qualche ora fa.

È tutto così spoglio, innaturale, inumano.

Ora capisco perché non ti piacciono gli ospedali, neanche a me sono mai piaciuti. Arriva un medico, alto, brizzolato, con la carnagione abbronzata che contrasta con il bianco ottico del camice medico, spezzato solo dal pallido blu di un sottile stetoscopio che gli circonda il collo. Lo fermo e gli chiedo tue notizie. Mi dice che ora stai meglio, che la mancanza prolungata di ossigeno ti ha quasi ucciso, che sei in condizioni ancora non del tutto stabili ma che ci sono buone possibilità che tu ti possa svegliare presto. Saresti morto senza un soccorso così tempestivo, conclude.

Lo vedo muovere la bocca ancora e ancora, ma non presto la minima attenzione a quello che dice.

Che importanza potrebbero avere le sue parole infondo?

Morto. Saresti potuto essere morto.

Non poter più scorgere il mare tempestoso dei tuoi occhi, l’oro ribelle dei tuoi capelli; non poter più osservare da spettatrice divertita e complice le tue stravaganti imprese da indovino da strapazzo. Non potermi più confrontare con la profondità dei tuoi pensieri, o non potermi più affacciare nel baratro di odio e malinconia che incombe su di te.

Non riesco ad immaginare un inferno peggiore di questo.

Ore, minuti, secondi, ma anche settimane, mesi, anni.

Lo scorrere del tempo non è nulla in confronto al rischio di perderti che ora più che mai si materializza dinnanzi a me.

Non ho idea di quanto tempo sia passato prima che qualcuno mi si avvicini e mi dica che sei sveglio, che stai bene, che sei vivo.

Mi precipito nel corridoio alla ricerca del numero della porta che mi separa da te e, quando finalmente la trovo, mi blocco. L’emozione che provo in questo istante è talmente potente ed impetuosa che non riesco nemmeno a definirla, ma mi faccio coraggio e giro quella piccola maniglia.

Ti vedo, lì nel letto, immobile come è inusuale vederti, che mi osservi con quei tuoi occhi curiosi da bambino che si lancia alla scoperta di un mondo nuovo e fantastico. Mi avvicino lentamente mentre continui a scrutarmi come fosse la prima volta che mi vedi e ti chiedo come stai. Mi rispondi che stai bene e pronunci altre parole cui significato non arriva alle mie orecchie così concentrate nell’assaporare la tua voce.

La tua voce. Quanto mi è mancata.

Ritorno faticosamente alla realtà appena in tempo per ascoltare delle parole che mi sconvolgono.

Non sai chi sono, non mi riconosci.

All’inizio penso che tu stia scherzando, che mi stia prendendo in giro come sei solito fare.

Ma non è così, non lo è affatto.

Esco intimorita e confusa dalla tua stanza.

Sto scappando. Io sto scappando da te.

Ma questa situazione non è reale, non può esserlo, non deve.

Poco dopo, la conferma dei miei timori arriva: è amnesia, un’amnesia parziale e passeggera la cui guarigione non può essere prevista in quanto la prognosi cambia da soggetto a soggetto. Potrebbero volerci delle ore, come anche dei mesi o degli anni. Nessuno è in grado di darmi le risposte che cerco, nessuno è in grado di aiutarmi.

Mi consigliano di farti tornare al lavoro, di riportarti in un ambiente familiare che potrebbe rievocare in te delle sensazioni conosciute e così stimolare la tua memoria. Accetto. Farei qualsiasi cosa per mettere fine a questa agonia.

E intanto tu sei così diverso.

Nei tuoi occhi, dove un tempo riuscivo a scorgere la tua perenne malinconia, i sensi di colpa ed il rancore, ora non c’è nulla.

Sei vuoto.

Sei ritornato ad essere quello che eri, un finto sensitivo truffatore che ci prova con tutte e che non conosce il dolore, il tormento che dilania la tua anima.

E così, quella parte di te che con tanta fatica sei riuscito a rinchiudere nella più angusta e nascosta stanza del tuo animo, alla fine ha preso il controllo, ti ha soggiogato. Ancora non riesco a pensare che lo scherzoso e irriverente individuo che ho davanti possa essere tu, davvero tu.

Eri una persona così diversa, così frivola prima di conoscere tua moglie. È stata lei a renderti così come sei? Se è così, sappi che hai ragione, era davvero una donna meravigliosa.

Io però ancora non riesco, non posso associare te a questa specie di mago che ipnotizza le persone per spillargli un po’ di soldi.

Non siete la stessa persona, non potete esserlo.

Mi manchi, lo sai? Non credo di avertelo mai detto, eppure adesso è così.

Mi manca la tua tristezza, il tuo rancore e la tua ossessione per Red John. Mi manca tutto di te e non posso fare a meno di sentirmi una grande egoista.

Tu adesso sei qui, sei vivo, e sei felice.

Felice come credo tu non sia mai stato e libero finalmente da quel passato che ti imprigiona e che ti opprime. Dovrei essere contenta per te, eppure non riesco ad esserlo.

Dimmi cosa devo fare, ti prego.

Devo ricordarti chi sei oppure lasciare che tu sia felice e libero di ricostruirti una nuova vita lontano da lui e lontano da me? Lontano da tutto ciò che ti lega al tuo passato fatto di odio, vendetta e sofferenza? Ti prego, dammi un consiglio, perché non credo di riuscire a farcela da sola.

Dopo ore, finalmente, credo di aver deciso. Spero di aver fatto la scelta giusta, e che non mi odierai a vita per il gesto che sto per compiere. Comunque vada, voglio che tu sappia che l’ho fatto per te.

Ti chiamo e ti do appuntamento nel parcheggio, di fronte alla mia macchina. Ti vedo, stai sorridendo, mi godo il momento perché so che non rivedrò mai più quel sorriso. Saliamo in silenzio, non mi chiedi dove stiamo andando, stai zitto e basta, forse dentro di te sai già qual è la nostra meta. Dopo qualche ora arriviamo di fronte ad una casa immersa nel buio della notte e circondata da fitti arbusti troppo cresciuti che circondano il perimetro.

Entro in silenzio.

Erano otto anni che non mettevo piede in quella magnifica villa, eppure è tutto come lo ricordavo, tranne che per l’assenza dei mobili e il fitto strato di polvere che ricopre ogni cosa.

Saliamo le scale e mi dici che la casa è molto bella, che ti piace.

È tua, ti rispondo, ma non sei molto convinto.

Arriviamo sul secondo livello e mi fermo a pochi metri dalla porta in fondo al corridoio.

Quella porta.

Sei dietro di me, ma dopo poco ti vedo avanzare nel buio fino a raggiungere la maniglia. La sfiori e ti giri lentamente verso di me, guardandomi negli occhi con i tuoi dove non c’è più alcuna traccia di allegria.

Forse hai già capito, forse lo sai già, ma mi rivolgi comunque una muta preghiera affinché io ti fermi.

Ma io non posso farlo, lo sai.

Ti volti ancora e giri piano il pomello fino a socchiudere l’uscio. Dentro, la stanza è avvolta nell’oscurità. Fai un piccolo passo incerto, poi un altro, ed un altro ancora. L’unica cosa che riesco a sussurrare prima che tu sparisca ai miei occhi avvolto nell’oscurità è un timido:

- Mi dispiace.

E, ancora una volta, ti chiedo di perdonarmi Patrick.

Perché non è vero, non lo è affatto.

Mio piccolo spazietto:

Devo dirvi la verità, questo episodio mi ha sempre fatto riflettere molto.

Ho sempre cercato di immaginare come si possa essere sentita Lisbon nello scoprire che del Patrick che conosceva, ormai, non era rimasto più niente mentre la sua vecchia personalità aveva preso il sopravvento.

E, soprattutto, cosa l'abbia davvero spinta a far ritornare Jane alla sua vecchia vita, fatta solo di vendetta e rancore, per evitare che potesse essere, per una volta, felice in un certo senso.

Spero solo di essemi avvicinata un pochino all'idea che tutti voi vi siete fatti.

Grazie mille in anticipo e un bacio,

Fairy_tale ;*

  
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