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Autore: margheritanikolaevna    31/10/2012    14 recensioni
“V-vuoi dire che credi che io e Danny abbiamo visto un fantasma, Stella?” ribatté Lindsay che, nonostante il terrore appena provato, tentava di serbare il suo autocontrollo e valutare la situazione con tutta la razionalità di cui era capace.
“Non dirai sul serio?” insisté Danny.
Avevano sperato che la collega li rassicurasse con qualche spiegazione ragionevole anche se altamente improbabile, e invece…

One-shot seconda classificata (su dodici partecipanti) all'"Halloween contest", indetto da Betrayed89 su efp.
Questo è il link: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10336444
Si richiedeva di scrivere un racconto avente come tema centrale la paura, scegliendo una citazione che doveva costituirne l'incipit. Io ho scelto questa: "quando un uomo muore in preda a una rabbia feroce, nasce una maledizione" tratta dal film horror "The Grudge".
Buon Halloween a tutti voi, amici di CSI NY!
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: margheritanicolaevna (sul forum), margheritanikolaevna (su efp);
Fandom: CSI NY;

Titolo della storia: “Taidshee”;
Incipit usato: numero 1;
Rating: giallo;
Genere: thriller, soprannaturale;

Personaggi: un po’ tutti, più uno minore ripescato da un episodio;
In una piovosa notte d’autunno i componenti della squadra di Mac Taylor si troveranno a fare i conti con fenomeni apparentemente inspiegabili. Mettendo insieme tutti gli indizi, come in un’ordinaria indagine di polizia, arriveranno alla verità, che segnerà in modo irreparabile il destino di ciascuno di loro.


                                                                Taidshee (1)
                                        L’odio, non l’amore, sopravvive alla morte

 
 
“Quando un uomo muore in preda a una rabbia feroce nasce una maledizione, Stella. Una maledizione”.
 
Le parole senza suono attraversarono l’ufficio in penombra, facendo trasalire la detective Bonasera: non c’era nessun altro nella stanza insieme a lei - di questo era certa - eppure aveva distintamente udito una voce, una voce umana ma dal timbro strano, distorta come se per giungere fin lì avesse percorso distanze inimmaginabili. Forse sarebbe meglio dire che l’aveva sentita riecheggiare nei meandri oscuri del suo cuore e del suo cervello, più che materialmente ascoltata. 
Si guardò intorno nervosamente, quasi a sincerarsi una volta per tutte che quelle sillabe agghiaccianti non fossero state uno scherzo di cattivo gusto e che non ci fosse  - acquattato nel buio della camera o magari dietro la porta a vetri - un collega burlone deciso a farle prendere un colpo, inscenando la visita di un fantasma negli uffici della polizia scientifica di New York City.
Accese la luce principale, che aveva inizialmente spento per concentrare l’illuminazione solo sul fascicolo che stava studiando, si levò da dietro alla scrivania e, col cuore che le martellava ancora furiosamente in mezzo al petto, attraversò l’ufficio da un capo all’altro percorrendo quei pochi metri quadrati con ansia e respiro affannoso.
Incapace di vincere un timore del quale non riusciva a spiegare l’origine, scrutò in ogni angolo: dietro le tende accuratamente chiuse, sotto la scrivania, nel cono d’ombra che s’insinuava tra la libreria e la porta d’ingresso…
Era consapevole dell’assurdità del gesto e del fatto che, se qualcuno l’avesse colta in un atteggiamento del genere, avrebbe potuto dire addio alla reputazione di agente serio e scrupoloso che si era costruita in anni di duro lavoro sul campo; ne era consapevole, eppure non riusciva ad evitarlo.
Nessuno.
Decisamente, nel suo ufficio tutto era come al solito: non c’era nulla che avrebbe dovuto turbarla, ma nonostante ciò non riusciva a smettere di sentirsi stranamente inquieta, mentre un senso di oppressione le gravava sul petto stringendolo come in  una morsa.
L’accurato esame del locale, tuttavia, produsse almeno l’effetto di calmarla quel minimo che occorse perché fosse in grado di tornare alla sua postazione e chinare nuovamente il capo sul fascicolo che si era ripromessa di ricontrollare quella sera, in vista dell’udienza alla quale doveva partecipare l’indomani presso la Corte penale.
Esplorò ancora una volta con lo sguardo le familiari pareti, i mobili, i quadri che lei stessa aveva appeso, questa volta tutti immersi in una luce piena e rassicurante, e fece per abbassare finalmente gli occhi sulle carte che aveva davanti, quando d’improvviso i pesanti tendaggi che oscuravano la vista dei grattacieli circostanti si riaprirono d’un tratto, mentre un forte colpo la fece sobbalzare una seconda volta, strappandole allo stesso tempo un gemito. Dall’esterno giungevano attutiti i rumori del traffico e il ritmico ticchettio della pioggia sui vetri: il vento ululava e fischiava nell’oscurità della notte e la donna considerò - con fugace ironia, ma non senza un tremito - che si trattava senza dubbio della serata ideale per un incontro ravvicinato con uno spettro.
La sua attenzione venne attirata poi da un altro suono, questa volta soffocato, proveniente da un luogo che non riuscì a individuare: era come un bussare timido, appena accennato, o prodotto da mani incorporee. Così tenue che la detective si convinse di essersi anche potuta ingannare e che, anzi, molto probabilmente si era trattato solo del frutto distorto della sua immaginazione sovreccitata.
Stella ricordò, tuttavia, di avere chiuso a chiave e senza alcuna spiegazione razionale si sentì immensamente rassicurata dalla cosa; tirò un respiro profondo e ancora una volta si alzò in piedi, tentando di  tranquillizzarsi. Era sicura di aver sentito la voce e di aver visto aperte le cortine che prima si era preoccupata di tirare accuratamente, ma quando volle verificare di nuovo la situazione non trovò niente di insolito né tanto meno di spaventoso: si sentiva accaldata e, passandosi una mano tra i capelli, scoprì di avere la fronte imperlata di sudore diaccio.
Si sentiva stranamente debole, disorientata come di rado le era accaduto, tanto che un momento credeva di essere perseguitata da spiriti maligni e l’istante dopo di essere in preda alla febbre.
All’improvviso la luce fredda e netta che rischiarava l’ufficio ondeggiò rabbuiandosi, l’aria divenne ghiacciata e Stella udì il terribile ruggito del temporale che sembrò per un istante scuotere il grattacielo dalle fondamenta.
 
“Verrò da te, anche se i vermi mi divorano la pelle e mi distruggono il corpo, e tu dovrai parlarmi guardandomi in faccia”.
 
Ecco, l’aveva sentita di nuovo.
Ora non poteva più avere dubbi: era la medesima voce dal timbro metallico, stridente e spaventoso.
Istintivamente si volse verso la finestra, da dove le era sembrato che quel suono provenisse, e fissò la sua attenzione sul lembo di cielo solcato da nuvole plumbee che si intravedeva tra i due palazzi vicini, incapace di staccare lo sguardo dal vetro.
In quell’istante si impadronì nuovamente di lei un terribile senso di ansia: solo che stavolta divenne in qualche modo consapevole del fatto che, in un luogo sconosciuto, un arcano potere stesse preparando qualcosa di indefinibile – ma senza dubbio orrendo  - ai suoi danni.
Dopo un certo intervallo comparve come dal nulla un’apparizione: l’immagine incollata ai vetri - esterni - della finestra era quella di un uomo, la cui espressione malvagia e sinistra incarnava una strana mescolanza di intelligenza, odio e potere.
I contorni del viso erano sfocati come se lei li stesse guardando attraverso una cortina di vapore acqueo, al punto che la poliziotta non fu in grado, per quanto si sforzasse, di  riconoscere a chi appartenessero quei lineamenti.
L’essere aveva il volto grigio e livido come quello di un cadavere, mai suoi occhi chiari erano brillanti di una luce fredda e crudele; lo sguardo di quel volto infernale era fisso su di lei e lei lo contraccambiava, presa da un’inspiegabile fascinazione che le impediva di gridare, di scappare o anche solo di guardare altrove.
Vide le labbra esangui della creatura aprirsi appena e in quel momento udì per la terza volta la voce che già prima l’aveva terrorizzata.
 
Sono morto, eppure sono qui” disse “ma tu non mi riconosci, vero?”.
Sono il frutto della dannazione eterna e sono qui per te.
Per tutti voi”.
 
Le sillabe echeggiarono questa volta in tutta la loro inequivocabile chiarezza, pronunciate con un tono alto e forte a dispetto del movimento delle labbra che parevano atteggiate solo a un flebile sussurro.
Stella seguitava a guardare, i nervi tesi fino allo spasimo e il respiro che le moriva in gola, come incatenata da una forza demoniaca che non le lasciava scampo.
Era quasi paralizzata, ma non al punto di rinunciare a un pietoso tentativo di fuga. Fece qualche passo indietro, senza tuttavia spezzare l’incantesimo in cui la teneva quel volto ripugnante; i suoi occhi continuarono a rimanere ostinatamente spalancati, rifiutando di chiudersi e mostrandole anzi in modo distinto la tremenda apparizione. Cercò di alzare una mano per escludere del tutto l’orribile vista, ma i suoi nervi erano tanto scossi che il braccio non le obbedì.
La detective non seppe quanto tempo durò quella straziante agonia; si rese conto del suo cessare solo quando udì qualcuno bussare alla porta dell’ufficio con veemenza. I colpi ravvicinati e violenti erano accompagnati da una voce - che subito riconobbe come quella di Lindsay Monroe - che la chiamava disperatamente per nome, implorandola di aprile e farla entrare.
Stella si riscosse dalla paralisi che l’aveva soggiogata e scattò verso la porta, non senza voltarsi fugacemente verso la finestra e constatare che la terribile visione era svanita; non appena girò la chiave nella serratura, subito l’uscio fu spalancato con violenza dall’esterno e Lindsay e Danny fecero irruzione nell’ufficio, entrambi in preda a una tremenda agitazione.
 

***

 
Il dottor Sheldon Hawkes non era ancora riuscito a trovare un nuovo appartamento (2): dopo che aveva perso tutti i suoi risparmi in un avventato investimento in borsa ed era stato costretto a lasciare la sua vecchia casa (che non poteva più permettersi ormai), per qualche tempo si era sistemato sul divano di un amico e, quando anche questa soluzione si era fatta impraticabile, aveva ripiegato sulla stretta brandina che anni prima - quando era solo un novellino confinato al turno di notte - aveva fatto collocare in un piccolo locale nel seminterrato, dove si trovavano anche le sale destinate alle autopsie.
Col permesso di Mac, al quale aveva spiegato le sue difficoltà, si era sistemato lì con l’intento di passarvi qualche notte fino a che non fosse riuscito a procurarsi una sistemazione più dignitosa; in passato gli era capitato più di una volta di appisolarsi senza difficoltà su quello scomodo lettuccio cigolante, ma quella sera proprio non ce la faceva.
Aveva provato ad ascoltare un po’ di musica rilassante, a leggere il romanzo che si era portato dietro, ma il sonno tardava lo stesso a venire e come se non bastasse il medico non poteva liberarsi del vago senso di inquietudine che gli cagionava il trovarsi in quel locale angusto e buio, immerso nel più totale silenzio e attiguo alle camere mortuarie, a quell’ora di notte deserte.
 “Almeno per quanto riguarda i loro occupanti viventi” considerò il medico con un brivido, sorprendendosi di non riuscire affatto a esercitare in quel frangente la sua consueta e adamantina ragione.
A un tratto, dato che rimanere sdraiato non serviva a niente, si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro mormorando tra i denti, quasi senza accorgersene, una preghiera che aveva imparato decenni prima e che da allora non gli era più capitato di ripetere, tanto che si meravigliò di ricordarla ancora: il tutto con l’unico risultato che dopo pochi minuti si ritrovò affannato e tutto coperto di sudore e senza essere riuscito a calmarsi nemmeno un po’.
Allora tirò fuori da una tasca della giacca una piccola fiaschetta metallica piena di bourbon e ne trangugiò avidamente alcuni sorsi.
“Forse, se ci provassi, riuscirei a dormire” biascicò e detto questo si trascinò stancamente fino al lettino che aveva sistemato in un angolo e vi si accomodò di nuovo come meglio gli fu possibile; suo malgrado, però, non poteva fare a meno di lanciare ogni tanto un’occhiata ansiosa alla porta, la cui sagoma si stagliava indistinta nell’oscurità della stanza.
Cercò di pensare a qualcosa di rilassante e - giacché era veramente stanco - un paio di volte fu anche lì lì per addormentarsi, se non fosse stato per la tempesta che fuori dall’alto finestrino che dava sulla strada gemeva e ululava. Poi all’improvviso il temporale cessò d’un tratto e tutto fu silenzioso e quieto come in una sera di luglio.
Il vento non aveva smesso di fischiare da più di un minuto, quando Sheldon udì una sorta di  rumore, amplificato da quel silenzio improvviso e singolare: era un suono metallico, come di un oggetto scagliato sul pavimento con forza.
Aprì gli occhi quel tanto che bastava per farsi un’idea di ciò che stava succedendo e intravide nella penombra un tenue scintillio all’altezza della sua testa; diede una rapida occhiata e poi chiuse di nuovo gli occhi, il cuore che gli martellava furioso nel petto, senza sapere esattamente nemmeno spiegarsi da principio il motivo di questo comportamento. 
Ma mentre le sue palpebre rimanevano così chiuse, esaminò mentalmente le ragioni che l’avevano indotto a serrarle: era stato un movimento impulsivo per guadagnare tempo alla sua riflessione, per essere certo che la vista non l’avesse ingannato, per calmare e indurre la sua immaginazione a una più fredda e razionale contemplazione.
Pochi attimi dopo fissava, senza riuscire ad articolare parola,  il piccolo accendino d’argento che scintillava sul linoleum del pavimento accanto alla branda, lì dove era certo che fino a qualche istante prima non vi fosse assolutamente nulla. Deglutì a fatica e si sollevò per far scattare l’interruttore situato sopra il letto:  non  poteva dubitare di vederci più che bene adesso, poiché la luce aveva dissipato il trasognato stupore che si stava impossessando dei suoi sensi annebbiati e lo aveva destato immediatamente.
Resistendo alla lieve carezza di un dito gelido lungo la spina dorsale, si mise in piedi una seconda volta e si avvicinò al piccolo oggetto; quando lo sfiorò fu attraversato da uno spiacevole brivido, ma fece del suo meglio per controllarsi.
Continuò a fissarlo, spingendo i capelli scuri indietro sulla nuca e facendo ripetutamente correre le mani lungo le tempie, all’estremo di un’angoscia febbricitante. Era un bell’oggetto, di argento massiccio e di ottima fattura, ma soprattutto lo colpirono le iniziali incise sul fondo: R. M.
Dapprima non ci capì nulla: poi d’improvviso fu attanagliato da un turbamento così violento che dovette sedersi - o meglio lasciarsi cadere - sulla brandina, che esalò un cigolio spettrale. Di nuovo si raddrizzò d’un balzo per guardarsi intorno e quindi tornò a sedersi, pazzo di stupore e di paura; guardava fisso davanti a sé, le mani tremanti.
Rimase un tempo che non riuscì a quantificare in quello stato, senza poter  distogliere lo sguardo da quell’oggetto che - pur non avendo in sé nulla di minaccioso - diveniva una stortura del reale, una singolare interferenza del mistero nella sua ordinata esistenza di scienziato, proprio per il modo in cui era comparso all’improvviso dal nulla. I suoi sensi, le sue facoltà, le sue idee, tutto era concentrato in quella vista, tutto lo attirava; voleva guardare altrove, allontanarsi, uscire, ma non gli era possibile.
Poi d’un tratto sentì un nuovo rumore, come di qualcuno che stesse svolgendo lentamente una corda sul pavimento, poi la sollevasse e infine la facesse ricadere piano piano in spirali; ma durò solo qualche istante e fu talmente flebile che il poliziotto non poté essere nemmeno certo di non essersi ingannato a causa dei suoi sensi alterati dalla paura.
Tornò a fissare l’accendino e le lettere impresse sulla lucida superficie metallica.
Chi mai avrebbe capito la sua angoscia? Chi avrebbe potuto comprendere il terrore di un uomo sano di mente, ragionevole, ben desto, che aveva tra le mani un oggetto misteriosamente apparso dal niente a pochi centimetri dal proprio letto?
 

***

Mac Taylor amava la notte: era il momento in cui, concluse le fatiche della giornata e messi da parte i casi di ordinaria amministrazione, poteva dedicarsi allo studio dei fascicoli riguardanti vecchi crimini rimasti fino ad allora senza un colpevole e che lui si era ripromesso di risolvere prima di lasciare il suo posto di tenente della scientifica.
Di notte, nella silenziosa solitudine del suo ufficio, trovava la concentrazione necessaria per venire a capo di indagini farraginose e per scovare il proverbiale bandolo della matassa - l’indizio risolutivo che tutti prima di lui avevano trascurato - in mezzo a pile di inutili carte polverose.
Quella sera, come molte altre, il detective sedeva perciò dietro alla sua scrivania forte di una consistente provvista di caffè nero e in procinto di dedicarsi a un’altra proficua nottata di lavoro.
L’ufficio a quell’ora era poco frequentato e non si udiva altro rumore che il sommesso ronzio del p.c. acceso e il vento che di tanto in tanto faceva vibrare i vetri delle ampie finestre: tutto era tranquillo come al solito e nulla lasciava presagire ciò che sarebbe avvenuto di lì a qualche minuto.  
Mac Taylor sollevò gli occhi dal faldone che aveva davanti e rabbrividì, scosso da un improvviso tremito che lo attraverso dalla testa ai piedi e che attribuire solo al freddo di quella tetra serata di fine ottobre sarebbe stato illusorio.  
Senza alcuna spiegazione razionale, per la prima volta nella sua vita sentì che stava per accadere qualcosa di strano, di nuovo; gli sembrò d’improvviso che facesse freddo nella stanza per lui così cara e familiare, che l’aria si ispessisse, che la notte - la notte che sempre aveva amato - gravasse sul suo cuore e gli opprimesse il petto, impedendogli di respirare normalmente.
Adesso lo aveva invaso un’inquietudine incomprensibile, quasi che le tenebre nascondessero per lui una terribile minaccia; cercò di leggere il rapporto che aveva lasciato aperto sulla scrivania, ma la sua mente era talmente sconvolta che non capiva le parole e anzi distingueva appena le lettere. 
Allora si alzò e iniziò a misurare l’ufficio con passi veloci e precipitosi, avanti e indietro come una fiera in gabbia, spinto dall’oppressione di un timore confuso eppure irresistibile.  Si diresse a un tratto verso la porta per controllare se fosse chiusa e la trovò, invece, aperta come di consueto: quella circostanza di per sé innocua lo riempì di un terrore inesplicabile, tanto che si affrettò a girare la chiave nella serratura con le mani tremanti e il respiro mozzo.
Aveva paura.
Lui che fino ad allora non aveva temuto niente.
Aveva paura.
Ma di che?
Si guardò spasmodicamente intorno: gli oggetti familiari del suo ufficio, le fotografie appese alla parete, il computer, le pile di fascicoli sulla libreria, anziché rassicurarlo gli ispiravano un senso di atroce diffidenza, come fossero estranei e nemici… 
Gli pareva insomma che ogni ombra celasse dietro di sé un orrendo pericolo. 
Scosse la testa e trasse un respiro profondo: doveva assolutamente calmarsi.
Vincendo il senso di repulsione che gli cagionava il rimanere oltre in quella stanza, tornò a sedersi di nuovo dietro alla scrivania e si prese la testa tra le mani, tentando di comprendere cosa gli stesse accadendo: forse si trattava di un semplice malessere, stava risentendo dello stress accumulato durante il giorno o magari era solamente stanco. Troppo stanco.
Ed effettivamente la stanchezza lo colse alle spalle a tradimento, facendolo scivolare nel sonno senza che se ne accorgesse nemmeno; d’improvviso reclinò il capo sul tavolo e il sopore l’inghiottì come una gora di acqua stagnante.
Il poliziotto non seppe mai per quanto tempo aveva dormito prima che l’incubo lo afferrasse: d’un tratto sentì che c’era qualcosa nella stanza e che questo qualcosa gli si avvicinava, lo guardava e - rimanendo alle sue spalle senza mostrargli mai il volto -  gli prendeva il collo tra le mani e stringeva con tutta la sua forza per soffocarlo.
Mac tentò di dibattersi, ma era immobilizzato dalla terrificante impotenza propria dei sogni: avrebbe voluto levarsi in piedi, gridare, scappare, ma non poté. Avrebbe voluto respingere l’essere che gli toglieva il respiro, ma non ci riuscì.
Poi, repentinamente come si era assopito, si destò, angosciato e coperto di sudore gelido.
 

***

 
Sid Hammerback faceva il patologo da tanti anni che aveva ormai perso il conto dei cadaveri che aveva visto, toccato, ripulito e poi sezionato per lavoro. Ciò che alla stragrande maggioranza delle persone incuteva ribrezzo o paura per lui era semplicemente questo: lavoro
I corpi raccontavano delle storie, a saperle ascoltare, e se ben analizzati molto spesso fornivano le prove necessarie per incastrare i criminali cui lui contribuiva a dare la caccia.
Perciò il dottore non solo aveva fatto l’abitudine all’odore tipico della sala mortuaria - una mescolanza lieve, ma rivoltante, di disinfettanti e sentore di putrefazione - ma quel posto gli era persino divenuto familiare, anzi in qualche strana maniera quasi gradito.
E poi sapeva che un cadavere è una cosa naturale, così come la morte fa parte della vita, e non già qualcosa di cui avere paura: in verità temeva molto di più i vivi, con tutto ciò che aveva visto nel corso degli anni, che non i morti…
Aveva appena terminato l’ultima autopsia della giornata e, sfilati i guanti di lattice e la cuffia azzurro cupo, si accingeva a lasciare l’edificio per tornare a casa, quando sbirciando con la coda dell’occhio ebbe l’impressione che qualcosa alle sue spalle si fosse mosso.
“Non è possibile!” considerò mentalmente in una frazione di secondo, consapevole del fatto che sul lettino di ferro lungo la parete giacesse solo, coperto da un lenzuolo bianco, il cadavere che aveva sezionato fino a poco prima.
Era più che certo che fosse morto stecchito, il signor Hugo Reiss, eppure avrebbe giurato di avere intravisto un movimento fugace del telo che copriva il tavolo autoptico e udito un leggero, ma distinto, fruscio di stoffa.
Ancora tranquillo e senza alcuna particolare inquietudine si voltò indietro, ma ciò che vide gli strappò un urlo di terrore dal petto: dove prima c’era un lembo di tessuto biancastro, ora un viso diafano e terreo lo fissava con occhi disperati, nei quali brillavano la malignità e una furia che andava al di là di ogni possibile sopportazione.
L’essere si sedette su lettino metallico - le labbra gonfie e aperte, i denti stretti e gli occhi socchiusi in modo da lasciar vedere solo il bianco - e il lenzuolo ricadde, scivolando senza rumore sul pavimento. Gli occhi semiaperti luccicavano in mezzo al viso enfio e bluastro e il patologo in una frazione di secondo si accorse che quell’orrendo viso dai lineamenti fissi e rigidi non apparteneva al signor Reiss, il cadavere al quale aveva appena praticato l’autopsia.
Il volto gli era in qualche modo familiare, eppure non riuscì a comprendere di chi potesse trattarsi.
Era uno spettacolo da incubo, grottesco e raccapricciante insieme, e Sid rimase come pietrificato a fissarlo fino a che il cuore non gli resse più e serrò le palpebre per un istante: quando le riaprì la visione era svanita e tutto all’apparenza era tornato al suo posto.
Allorché il medico, ancora sconvolto e col cuore in gola, si avvicinò al tavolo autoptico e sollevò un capo del lenzuolo, scorse sotto di esso solo il viso livido della vittima della rapina di Central Park dalla quale aveva estratto un proiettile non più tardi di un quarto d’ora prima.
Indiscutibilmente morta.
 

***

 
Don Flack aveva appena terminato il suo turno; aveva consegnato l’ultimo rapporto stilato quel pomeriggio e adesso aspettava l’ascensore pregustandosi la doccia bollente e la partita in tv che si sarebbe concesso una volta a casa. Una pizza e un paio di birre, tanto il giorno dopo era di riposo e non doveva preoccuparsi di alzarsi presto; il poliziotto sospirò e le sue labbra si schiusero in un sorrisetto considerando che per le successive ventiquattro ore il suo principale problema sarebbe stato come occupare il tempo senza lavorare.
A un tratto iniziò a pizzicargli il naso in un modo inequivocabile, come gli accadeva ogni volta che si trovava nella stessa stanza insieme a un gatto: sgranò gli occhi e represse a fatica uno starnuto, mentre pensava che forse la sua allergia si stava aggravando, dato che era assolutamente improbabile che al trentaquattresimo piano del grattacielo della polizia fosse capitato - e per di più a quell’ora di notte e con quel tempaccio - uno di quegli insopportabili esserini pelosi.
Il suo stupore fu enorme quando al contrario vide avanzare verso di lui, con la coda ritta e la schiena ingobbita come un ponte, proprio un grosso gattone bianco dal pelo lucente e con due occhi verdi grandi come monete da un dollaro.
Allora era proprio vero - considerò l’agente, senza riuscire a staccare lo sguardo dall’animale che adesso si era fermato a pochi passi da lui -  ma come era possibile? Un gatto, lì?
Flack batté le mani e mandò un breve grido con l’intento di scacciare la bestiola, ma quella non parve minimamente impressionata dal gesto e anzi si mosse avvicinandosi a lui ancora un poco; i suoi occhi mandavano bagliori sinistri nella semioscurità e il suo sguardo pareva animato da un’espressione di assoluta intelligenza e volontà.
L’uomo rimase a fissare il gatto per qualche istante, fino a che da un cantuccio della sua memoria, sepolto sotto un’infinità di altri ricordi più recenti e importanti, riemerse una storia - una leggenda sulla sua famiglia - che gli aveva raccontato sua nonna materna quando era solo un bambino.
Con un brivido rammentò che l’anziana donna, irlandese di Cork, gli aveva parlato di un gatto bianco con splendenti occhi verdi che appariva sempre poco prima della morte di uno dei componenti della famiglia: era accaduto con il suo prozio Jim Doolan, che si era visto seguito dall’animale fino a casa, nonostante avesse tentato più volte di seminarlo, e poco tempo più tardi era morto di un’improvvisa malattia senza speranza.
Era accaduto anche a Ned, un cugino di alcuni anni più giovane, al quale il gatto bianco era finito tra i piedi, con la coda arricciata e lo sguardo fiammeggiante, mentre tornava da una battuta di caccia e che qualche giorno dopo si era accidentalmente sparato un colpo mortale col suo fucile.
Era capitata la stessa cosa alla zia Peg, che si era trasferita col marito a Dublino e aveva fatto ritorno a casa per partecipare al matrimonio della sorella, e un mese dopo aver visto il felino bianco che saltava sulla siepe di bosso che circondava la casa degli sposi era stata trovata morta nel suo letto senza alcuna apparente spiegazione. 
Don Flack deglutì e scosse il capo, deciso a scacciare la fastidiosa sensazione che quel ricordo gli aveva lasciato addosso e mentalmente maledicendo la propria memoria per avergli giocato quel tiro proprio nel momento meno adatto.
Fissò l’animale, affascinato dalla sua espressione così terribilmente umana e consapevole, e poi fece un balzo verso di lui con l’intenzione di allontanarlo spaventandolo; per tutta risposta il felino iniziò a correre lungo i corridoi bui e deserti dell’ufficio e il poliziotto lo seguì, senza comprendere esattamente il motivo e come affascinato dallo sguardo ipnotico dell’animale.
La bestiola lo precedeva, rallentando giusto l’indispensabile affinché l’uomo non lo perdesse di vista; a un tratto si fermò e Don Flack si rese conto che l’aveva condotto fino al locale ove erano archiviati tutti i fascicoli dei casi risolti. Ansante per la veloce camminata, il poliziotto rimase un istante e fissare il felino, sentendosi la gola impastata e un groppo alla bocca dello stomaco.
All’improvviso un rumore lo fece sobbalzare: si voltò e vide che dal terzultimo scaffale sulla sinistra era caduto sul pavimento un faldoncino dalla copertina gialla.
“Chi è là?” gridò allora il detective, col fiato mozzo “C’è nessuno?”.
Non ottenendo risposta, si chinò sul fascicolo che si era aperto a causa della caduta e istintivamente ne raccolse i fogli sparsi sul pavimento e poi lo prese in mano, senza nemmeno leggere il nome dell’accusato, scritto sulla costa.
Quando tornò a guardare davanti a sé, si accorse che il gatto era svanito senza lasciare traccia. Scosse la testa, disorientato: allora aveva sognato? Oppure si era trattato di un’allucinazione?
Sì, decisamente doveva essere stata un’allucinazione.
Don Flack era un eccellente investigatore, ma in quel frangente era troppo scosso per ricordare che uno dei fenomeni più interessanti connessi alla pratica del mendacio è proprio il gran numero di bugie che raccontiamo deliberatamente a noi stessi che, fra tutti, siamo coloro che abbiamo meno probabilità di ingannare.

 

***

 
 

“Se sulla Terra esistessero altri esseri all’infuori di noi, come potremmo non averli incontrati dopo tanto tempo? Come potrebbe la nostra scienza, che tutto vede e indaga e penetra, non averli mai visti?”  domandò con percepibile angoscia Lindsay Monroe a Stella.
Dopo essere entrati precipitosamente nel suo ufficio, lei e Danny avevano raccontato alla collega cosa li avesse spinti a fuggire col cuore in gola dal laboratorio dove si erano trattenuti per ultimare un esperimento: pareva tutto normale - il fidanzato faceva lo spiritoso come al solito e lei si sentiva bene,  era tranquilla e allegra persino, nonostante la stanchezza - quando all’improvviso avevano entrambi, nel medesimo istante, avvertito distintamente una corrente d’aria gelida attraversare la stanza e subito dopo avevano percepito di non essere più soli lì dentro, giacché un'altra presenza vi era appena entrata.
L’avevano sentita arrivare col cuore e con i nervi in maniera così chiara da non aver nessun dubbio al riguardo, anche se nella camera illuminata tutto era in apparenza rimasto come era sempre stato; e prima di riuscire a formularsi una qualche domanda sensata avevano udito il contatore EMF (3), che impiegavano sulle scene del crimine per misurare eventuali oscillazioni del campo elettromagnetico e che giaceva sul tavolo accanto a loro, cominciare a ronzare come impazzito. 
Era durato pochi istanti e poi era finito, improvvisamente come era iniziato.
Una frazione di secondo dopo, voltatisi istintivamente verso la parete di fondo del laboratorio, i due agenti vi avevano visto campeggiare una grande scritta, vergata con qualcosa che aveva tutta l’aria di essere sangue.
C’era scritto: “Sarah”.
Solo questo, sul muro che fino a un secondo prima era pulito e immacolato.
Ecco, quello era stato troppo e Danny e Lindsay, senza dirsi una parola ma scambiandosi uno sguardo d’intesa, erano corsi via chiudendosi dietro la porta e avevano corso fino all’ufficio di Stella, sperando che la collega fosse ancora lì e potesse aiutarli a capire cosa fosse successo. 
Danny scosse il capo pensieroso alla domanda della ragazza e Stella rispose in tono grave, ancora turbata da ciò che aveva visto a sua volta poco prima:
“Non so… non credo che questa sia una spiegazione sufficiente: l’uomo è in grado di vedere solo l’8% di ciò che lo circonda, mentre il restante 92% non gli è percepibile. Come possiamo essere certi delle nostre percezioni, dei nostri sensi così imperfetti?”.
“V-vuoi dire che credi che io e Danny abbiamo visto un fantasma, Stella?” ribatté la giovane, che nonostante il terrore appena provato tentava di serbare il suo autocontrollo e valutare la situazione con tutta la razionalità di cui era capace.
“Non dirai sul serio?” insisté Danny.

 

Avevano sperato che la collega li rassicurasse con qualche spiegazione ragionevole anche se altamente improbabile, e invece…

“Ragazzi” rispose la detective “forse fino a ieri vi avrei dato una risposta diversa, ma ciò che ho visto in questa stanza ha messo in discussione tutte le mie certezze, tutto ciò su cui ho basato la mia carriera e la mia vita”.
Fece alcuni passi per allontanarsi dalla finestra e, dopo aver lanciato uno sguardo fugace e pieno di angoscia oltre i vetri, disse: “Ascoltatemi, vi prego”.

 

 
***

 

 
“In fondo, Mac, di case infestate se ne sente parlare fin dall’antichità e la prima testimonianza risale addirittura a Plinio il giovane (4), che nel primo secolo d.C. raccontò di come il filosofo greco Atenodoro avesse risolto un caso di infestazione ad Atene, dando giusta sepoltura alle ossa del fantasma che infestava la casa. E da allora i casi  sono stati infiniti e hanno coinvolto una moltitudine di persone: pensiamo allo spiritismo di fine ottocento… ”.
La voce di Sid Hammerback riempiva l’ufficio del detective Taylor, dove il patologo si era rifugiato in seguito alla strana allucinazione che l’aveva colto di sotto, in sala autopsie.
“Bah” esalò il tenente che, nonostante la brutta esperienza appena vissuta a sua volta, cercava di conservare il suo approccio scettico e razionale.
“Andiamo, Sid, non vorrai tirare in ballo la solita storia delle sorelle Fox (5) e del loro stravagante codice per comunicare con gli spiriti?” proseguì, sforzandosi di condire la frase con un sorrisetto freddo e sarcastico.
“Rifletti” ribatté allora il patologo con improvvisa energia “e se il fantasma appartenesse alla nostra dimensione come essenza energetica, memoria di una persona morta, ma che rimane sospesa nel tempo e nello spazio perché magari si crede ancora viva, oppure non ha adempiuto durante la vita a tutti i suoi compiti o non accetta di essere morta?”.
“Insomma” proseguì, accalorandosi sempre più “la mente o la coscienza sono prodotte dal cervello? Se possiamo provare che la mente è un prodotto del cervello, allora dobbiamo pensare che non ci sia nulla dopo la morte.
Ma se, al contrario, il cervello non è altro che una specie di intermediario che manifesta la mente - come una tv che traduce le onde elettromagnetiche sotto forma di suono e immagine - allora anche dopo la morte del cervello la mente può esserci ancora…”.
 

***

 
“Mac! Mac, ci sei ancora?” Don Flack non perse neppure tempo a bussare e, con un balzo, spalancò la porta dell’ufficio del tenente chiamandolo con voce ansiosa e sperando ardentemente che il suo capo quella notte non fosse ancora andato a casa.
Ciò che non immaginava, recandosi lì in quell’orario così inusuale, fu di trovarsi nel bel mezzo di una vera e propria riunione: l‘ufficio era infatti occupato da tutti i componenti della squadra e pareva che ciascuno di loro avesse molta urgenza di raccontare qualcosa di assolutamente grave agli altri, tanto che nel vociare concitato le parole si sovrapponevano disordinatamente.
La scena meravigliò il poliziotto oltre ogni dire, facendogli scordare per qualche istante persino la paura che si era preso poco prima inseguendo il gatto fantasma per i corridoi bui dell’archivio; avanzò nella stanza e subito i colleghi si volsero all’unisono verso di lui, rivolgendogli poi un’occhiata carica di percepibile sollievo.
Insomma - rifletté il detective - ma cosa stava succedendo? Quegli uomini e quelle donne avevano distintamente trasalito sentendolo entrare nell’ufficio e si erano rassicurati solo nell’istante in cui si erano resi conto che si trattava di lui: chi o che cosa temevano di vedere?
Si avvicinò ancora, considerando che non gli era mai capitato di cogliere Mac e gli altri cervelloni della Scientifica in preda a un’inquietudine tale da far loro abbandonare i soliti atteggiamenti composti e rigorosi…
 

***

“Bene” disse Mac Taylor, che dopo avere ascoltato i racconti dei suoi sottoposti e avere a sua volta narrato loro l’incubo terribile che l’aveva assalito, pareva aver recuperato almeno in parte il suo tono autorevole.
“Non fraintendetemi: io non ho mai creduto ai fantasmi e continuo a non crederci nemmeno adesso, eppure è certo che tutti noi abbiamo assistito a dei fenomeni apparentemente inspiegabili. Adesso che sappiamo quel che è ci successo stanotte, dobbiamo sforzarci di capire a cosa vadano attribuiti gli strani accadimenti che ci hanno turbato.
In altre parole, cercheremo di mettere insieme le prove che abbiamo, come se fosse un’indagine vera e propria. Una delle tante indagini di cui siamo venuti a capo”.
“Va bene” continuò Stella, la quale appariva a sua volta rinfrancata dal trovarsi insieme ai colleghi.
Sospirò sonoramente e proseguì: “Riesaminiamo tutti gli indizi uno per uno. Sheldon ha trovato un accendino con incise sopra le lettere R. e M., Danny e Lindsay hanno visto apparire sul muro  il nome Sarah”.
“Io” si inserì Don, posando sulla scrivania del tenente l’incartamento che aveva fino ad allora tenuto tra le mani “ho visto cadere per terra questo fascicolo, senza che ci fosse nei paraggi nessuno che potesse averlo tirato fuori dallo scaffale”.
“E poi Stella e Sid” completò Mac “hanno veduto l’immagine di un essere che sembrava un cadavere,  ma del tutto cosciente e vitale”.
“Mac” intervenne il patologo con un brivido “Quella… cosa, non so come altro definirla, mi guardava con odio assoluto, mortale, come se avesse voluto uccidermi soltanto con lo sguardo”.
“Anch’io ho avuto la medesima sensazione” aggiunse Stella, la voce incrinata “la creatura che mi è apparsa… nei suoi occhi brillava un furore demoniaco, un desiderio di vendetta che mi ha ghiacciato il sangue nelle vene più ancora della sua faccia orrenda”.
“Eppure c’era in quella maschera distorta qualcosa di familiare” continuò, stringendosi nel golfino di lana come oppressa da un freddo mortale, nonostante la piccola stanza fosse ben riscaldata e piena di persone.
“Io sono certa che fosse qualcuno che avevo già visto. Sì, ma dove? E quando?”.
“Vuoi dire” esclamò Mac pensieroso “che potrebbe trattarsi di una persona che ci odia e che sta cercando di spaventarci orchestrando questa carnevalata ai nostri danni? Qualcuno che ha disseminato degli indizi per divertirsi alle nostre spalle?”.
Questo pensiero, sebbene non spiegasse assolutamente ciò che era accaduto a lui in prima persona, ebbe però il potere di tranquillizzarlo un po’, regalandogli una conferma dell’idea che dietro quegli stranissimi fenomeni ci fosse una mano umana. Crudele e vendicativa, ma pur sempre umana.
“E chi potrebbe essere?” chiosò Danny con un sorriso che voleva essere baldanzoso, ma risultò solo forzato “Certo che di nemici ce ne siamo fatti un bel po’…”.
“Craig Hansen! (6)” esclamò a quel punto Lindsay.
“Guardate qui” disse, aprendo il fascicolo sulla scrivania - quello che aveva raccolto Flack - e che effettivamente conteneva gli incartamenti relativi al caso del Procuratore Distrettuale che avevano incastrato qualche mese prima per l’omicidio dell’amante della moglie, un giovane di nome Rob Meyers.
Hansen, che Stella e Mac conoscevano da almeno quindici anni e consideravano un amico, spinto dal timore che la moglie lo tradisse, aveva coinvolto il laboratorio strumentalizzandolo per scoprire il nome del fedifrago e, saputolo, l’aveva ucciso e ne aveva distrutto il cadavere passandogli sopra con una fresatrice. Ma in quell’aggeggio erano rimaste delle tracce di sangue, analizzando le quali i poliziotti erano risaliti al D.N.A. dello sfortunato Meyers riuscendo così a imbastire un’accusa di omicidio contro l’alto funzionario.
Era stata una gran brutta storia, l’intera New York ne aveva parlato; Hansen, fino ad allora stimato uomo del governo, era stato abbandonato da tutti e durante il processo, quando Stella aveva testimoniato contro di lui decretandone la condanna all’ergastolo, si era alzato in piedi e aveva gridato tutto il suo odio e la sua sete di vendetta contro coloro che l’avevano incastrato.
La detective rammentava alla perfezione la pena di quei momenti, in cui dentro di lei la pulsione verso la verità aveva sconfitto il dolore legato alla consapevolezza di stare segnando, con le sue parole, la rovina di una persona alla quale voleva, nonostante tutto, ancora bene.
Craig: Stella non avrebbe mai dimenticato le infinite volte in cui, durante i quindici anni precedenti, avevano lavorato insieme fianco a fianco, accomunati dal desiderio di vedere trionfare la giustizia sul crimine. Lei lo aveva persino ammirato per la sua determinazione incrollabile nel perseguire i delinquenti, giudicando del tutto fondata la reputazione che si era guadagnato di uomo implacabile, che avrebbe finito con l’inseguire il proprio accusato fin dentro alla tomba, pur di portarlo alla condanna definitiva.
Eppure anche lui era caduto: per amore di una donna infedele, per un malinteso senso dell’onore, per una rabbia senza rimedio. Sì, rifletté la poliziotta, il punto debole di Hansen era sempre stato l’incapacità di controllare il furore cieco che talvolta lo aveva assalito durante gli interrogatori e che, un paio di volte, le aveva fatto temere che prima o poi avrebbe sul serio ammazzato qualcuno. 
“Già!” intervenne Sheldon, posando a sua volta l’accendino sul tavolo accanto alle carte “Ricordate? Hansen lasciò un accendino come questo, che aveva trovato nella sua camera da letto, sulla scena di un crimine affinché noi del laboratorio rilevassimo le impronte digitali presenti su di esso, rivelandogli così il nome dell’amante della moglie”.
“Sarah” mormorò Mac, gli occhi fissi sul pavimento “La moglie di Craig si chiamava Sarah…”.
“Lui al processo ha detto che ce l’avrebbe fatta pagare, che prima o poi ci avrebbe uccisi tutti, uno a uno” ricordò Stella, pallidissima, con rinnovato orrore.
“E la voce che ho sentito parlava di una maledizione, diceva che era qui per noi”.
“Ma andiamo, Stella” esclamò a quel punto Flack “sai anche tu che non è possibile: il Procuratore Hansen si trova rinchiuso in una cella di massima sicurezza ad Auburn e ne uscirà solo dentro a una bara!”.
“E se fosse evaso?” domandò a quel punto Lindsay, stringendosi istintivamente al braccio di Danny perché le aveva trafitto la mente il ricordo di quando aveva visto sua figlia Lucy piangere disperata in braccio a quel pazzo di Shane Casey.
“Se dal carcere fosse riuscito a pagare qualcuno per portare a termine la sua vendetta?”.
 
“Mi sembra difficile…” mugugnò Mac, avvicinandosi al telefono “ma comunque verifichiamo”.
Compose il numero del centralino del penitenziario di Auburn e, dato che era Mac Taylor, riuscì a farsi passare il direttore nonostante l’ora; l’uomo stava dormendo e i poliziotti dovettero attendere più di qualche minuto, in preda a un’angoscia atroce, prima che il funzionario raggiungesse l’apparecchio.
Gli agenti udirono Mac chiedere di Hansen e trattennero il respiro in attesa della risposta; poi lo videro d’improvviso sbiancare e sentirono la sua voce, solcata da un insolito tremito, domandare se la cosa era proprio sicura. Alla fine il tenente riagganciò e fissò i suoi uomini, sul volto uno sbigottimento disperato.
“Craig Hansen è morto” disse “Si è impiccato nella sua cella tre ore fa utilizzando i lacci delle scarpe”.
Stella deglutì serrando le mascelle e poi articolò a fatica: “Tre ore fa? Più o meno quando io ho visto il volto alla finestra…”.
“Quando è cominciato tutto” aggiunse Lindsay, scuotendo debolmente il capo.
“Ma” proseguì, inorridita “Ma… questo cosa significa?”.
  
Prima che la domanda potesse trovare una risposta, i poliziotti videro la porta dell’ufficio, che Flack entrando aveva lasciato semiaperta, chiudersi da sola con un sibilo. Poi la maniglia girare senza che nessuna mano visibile la toccasse.
Quindi, pietrificati dall’orrore, udirono distintamente la serratura scattare con un suono metallico che si propagò nel silenzio dell’ufficio deserto.
Nessuno udì le loro grida.
 
FINE
 
(1)La parola Taidshee indica il fantasma nel folklore irlandese: si tratta di esseri che vivono in uno stato intermedio tra la vita e la morte e che in tale condizione sono tenuti da un motivo particolare, quale un dovere o una vendetta da compiere, un lavoro lasciato a metà, un obbligo da estinguere. Fonte: Gianni Pilo, introduzione a “Carmilla e altri racconti di fantasmi e vampiri” di J.S. Le Fanu, Newton, 2010.
 
(2) Il riferimento è a ciò che Sheldon spiega ai colleghi nell’episodio “E’ successo anche a me”, numero sei della sesta stagione di CSI NY.
 
(3) Attualmente nelle indagini per verificare scientificamente l’esistenza dei fantasmi si misurano le variazioni di temperatura e pressione con contatori Gauss ed EMF (electro magnetic field detector), idonei a cogliere cambiamenti di radiazioni e campi elettromagnetici rilevanti. Tali tracce sono ritenute da alcuni studiosi prove del passaggio di un essere spettrale.
 
(4) Atenodoro di Tarso, o Atenodoro Cananita (Canana, 74 a.C.7d.C.), è stato uno storicoe filosofostoico. Plinio il giovaneracconta un episodio secondo il quale Atenodoro prese in affitto una casa a basso prezzo poiché era infestata da un fantasma. Mentre scriveva di filosofia a tarda notte, un fantasma incatenato gli apparve e lo invitò a seguirlo fino in cortile ove sparì. Il giorno successivo, con il permesso dei magistrati della città, Atenodoro fece scavare nel punto in cui il fantasma era scomparso e trovò uno scheletro incatenato; dopo che allo scheletro venne data una degna sepoltura si dice che il fantasma non abbia più infestato la casa. Fonte: wikipedia.
 
(5)Kate Fox (18371892), Leah Fox (18141890) e Margaret (Maggie) Fox (18331893) furono tre sorelle statunitensiche giocarono un ruolo fondamentale nella nascita e diffusione nei paesi anglosassoni del movimento spiritista(che si stava sviluppando parallelamente negli stessi anni in Franciae negli altri paesi latini sulla scia degli insegnamenti di Allan Kardec) e della relativa chiesa. Nel 1848le due sorelle minori, Kate e Margaret, abitavano in una casa situata ad Hydesville, New York, insieme con i genitori; la casa aveva la fama di essere stregata e verso la fine di marzo di quell'anno la famiglia Fox iniziò ad essere spaventata da suoni, simili a colpi o al rumore di mobilio spostato, la cui origine sembrava essere inspiegabile.Secondo le dichiarazioni delle sorelle, durante la notte del 31 marzo, Kate avrebbe sfidato il presunto spirito autore dei rumori a ripetere lo schiocco delle sue dita e dichiarò di averne avuto riscontro. Allora le sorelle gli avrebbero chiesto di battere tanti colpi quanti erano gli anni della loro età e anche in questo caso, secondo loro, il presunto spirito avrebbe fatto quanto richiesto. Furono allora chiamati i vicini a testimoniare di quell'evento e nei giorni successivi venne sviluppato una sorta di codice di comunicazione in cui i battiti era utilizzati per rispondere "sì" e "no" o per indicare precise lettere dell'alfabeto.Fonte: wikipedia.
 
(6) La storia è tratta dall’episodio numero 12 della sesta stagione di CSI NY (“Giustizia criminale”), in cui appunto la squadra incastra per omicidio il Procuratore Distrettuale Craig Hansen.
     



 
 

  
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