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Autore: MaTiSsE    01/11/2012    2 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Alla mia adorata Gypsy Rose,
in ritardo per il tuo compleanno tesoro.

 
 




 
 
Tic, tac.
Tic, tac
.

Tic.
Tac.
 
Flora girò il capo in direzione del comodino; sbuffò, allungò la mano e afferrò l’orologio da polso che qualcuno le aveva portato in ospedale, maledicendo il soggetto in questione per l’idea. Poi, lo scagliò sul pavimento con quel briciolo di forza che le restava, mandandone in frantumi il quadrante; il suo ticchettio continuo aveva il potere di farla impazzire e lei voleva soltanto liberarsene. Non le importava quanto costoso fosse quell’orologio: l’avrebbe ricomprato, se proprio ci teneva.
Tra l’altro, non figurava neppure nell’elenco dei suoi ninnoli preferiti: ne avrebbe fatto a meno in futuro, purché avesse smesso di ticchettare furiosamente nelle sue orecchie in quel momento.
Ma la sua violenta soluzione non servì a nulla, a conti fatti: l’orologio non si fermò. Le lancette continuarono a muoversi , dandole il tormento, anche dopo, quando ormai l’oggetto giaceva sulle piastrelle bianche della sua bella stanza d’ospedale.
 
Tic, tac. Tic, tac.
Perché diavolo quel rumorino fastidioso era così amplificato nella sua testa? Perché si ripeteva in maniera tanto insolente, ritmata, insopportabile?

Le trapanava il cervello, la ossessionava.

Tic tac, tic tac, tic tac.

Florinda lo sapeva molto bene che il tempo stava passando, non aveva bisogno che anche uno stupido orologio glielo ricordasse di continuo.
Le scivolava via tra le dita della mano, quel tempo bastardo, mentre si sistemava i capelli e sospirava, mentre versava una lacrima e poi si voltava di nuovo verso la finestra, quando qualcuno entrava nella stanza, soltanto per fingere di dormire ed evitare di parlare.
Voltare il capo a destra e sinistra, tra l’altro, era tutto ciò che poteva fare, tutto ciò che il suo corpo le consentiva in termini di movimento. Con quella gamba rotta non poteva andare molto lontano e la schiena le doleva anche quando cercava soltanto di sistemarsi meglio sul cuscino.

Il tempo dunque passava, anche se lei non lo voleva, anche se lei piangeva, anche se il suo cuore si frantumava. Il tempo passava e la gente continuava a vivere la propria vita, continuava a scherzare, mangiare, ridere, studiare, disperarsi, gridare, litigare, divorziare; di nuovo mangiare, poi dormire, sognare. Continuava a farlo mentre lei era immobile in un letto – ma viva – ed Emiliano lottava per restare sulla faccia della Terra.
Continuava a farlo perché loro due non erano nessuno per il resto del mondo, ma erano molto per se stessi e questo bastava.
 
Vorrei tenerti per mano, in questo momento, amore mio.
Lo vorrei così tanto…



Lo desiderava Flora, più di quanto desiderasse tutto il resto. Voleva stringergli le mani e promettergli che tutto sarebbe andato bene, proprio come fanno certi protagonisti di telefilm americani quando ogni cosa va a puttane, il protagonista sta morendo e loro continuano a giurare che troveranno una soluzione. Lo desiderava, dunque e, tuttavia, era consapevole che non avrebbe potuto. Era ricca, deteneva un certo potere, a suo modo, ma proprio quel desiderio così insignificante le era precluso. I suoi soldi, in quel caso, non sarebbero serviti a nulla: avrebbero potuto comprare tante belle cose come una stanza singola in un ospedale pubblico, per esempio, il silenzio della gente o il favore di qualche carabiniere compiacente che non avrebbe indagato sull’auto rubata su cui viaggiava e la marijuana che s’era fumata. Avrebbero potuto comprare tante altre cose ancora, ma non il tempo; il tempo prezioso, quello che continuava a scivolare via, a scappare, lasciandola spossata, palesandosi nel ticchettio ripetuto di un orologio che la mandava in bestia.
Il tempo con il suo Emiliano.
No, i suoi soldi non avrebbero potuto mai comprare altri momenti ancora con lui. Non di certo tutti quelli che stava perdendo adesso, mentre Emil se ne stava sospeso in quel limbo che era la terapia intensiva e aveva bisogno del suo coraggio e del suo cuore innamorato per stringere i denti e andare avanti.

Emiliano stava male.
Gliel’aveva detto Margherita, sua cugina. E che altro? Ah sì, le aveva detto pure che lei era l’unica a stare dalla sua parte.
Tradotto in italiano: avrebbe dovuto fidarsi di lei perché era la sola persona che le avrebbe dato tutte le informazioni che desiderava riguardo Emiliano. Del resto, anche se non aveva ancora parlato con suo padre – per propria volontà, andava detto –  Flora era certa che lui non sarebbe mai andato a raccontarle niente del suo presunto ragazzo. O ex ragazzo. O amante.

O grande amore. Sì, se ti dicessi che è il mio grande amore come la prenderesti, papà?

Con ogni probabilità, suo padre non avrebbe desiderato altro che la morte di Emiliano, in quel momento. Così avrebbe cancellato la vergogna, la delusione provocatagli da quell’unica figlia degenere che si ritrovava: sotterrandola sotto false lacrime, sotto i gigli bianchi che qualcuno, forse, avrebbe portato sulla bara di Emil.
Dunque, nessuno avrebbe mai aperto bocca al riguardo, per nessun altro il nome di Emiliano avrebbe significato nulla se non un’offesa, ma allora perché proprio Margherita si era offerta in suo soccorso?
Perché proprio quella cugina che lei amava così tanto detestare?

Non sapeva come definire quel suo atteggiamento: semplice solidarietà femminile rafforzata da un vincolo di parentela su cui avevano sputato entrambe per anni? O, forse, perché anche lei frequentava un tipo strano – quello dalla cresta viola con cui l’aveva vista parlare a La Piovra, la sera del concerto per beneficenza – si sentiva quasi in dovere di mostrarle il proprio sostegno, per salvarsi la pelle a propria volta? Non lo sapeva Florinda ed era confusa; oscillava tra la diffidenza verso la sua poco tollerata cugina e la necessità quasi viscerale di attaccarsi a qualcosa – qualsiasi cosa – che potesse testimoniarle che il suo incomprensibile legame con Emiliano non si era ancora spezzato.
Che non si sarebbe spezzato mai.
Margherita poteva essere quel qualcosa. E non era una domanda.

Cosa le diceva Emiliano, un tempo?

“Tua cugina è una brava ragazza, smetti di essere sgarbata con lei. Smettila Florinda, smetti di comportarti male”

“Ma ti piace Margherita? Non fai altro che difenderla!” gli rispondeva di rimando, scocciata. Dopo metteva su il broncio, ma non glielo dava a vedere troppo palesemente; piuttosto, si scompigliava i capelli, accendeva una sigaretta e si voltava dall’altro lato. Allora, lui le si avvicinava, raggiungendola alle spalle. Poggiava le labbra sul suo collo, sorrideva, le soffiava sulla pelle.
Poi mormorava:
“ Non è per lei, è per te. Perché ti mostri per quello che non sei? Sei dolce Flora, sei deliziosa. Non devi essere cattiva, quella non sei tu.”
 
Aveva ragione su Margherita, Emiliano?
E quanto tempo prima le aveva rivolto proprio quelle parole, per l’ultima volta? Quanto tempo prima Emiliano si era poggiato sulla sua spalla e le aveva baciato la striscia di pelle bianca tra la spalla e l’orecchio, lasciandole intendere che fosse perfetta per lui, la migliore fra tutte?

Non lo ricordava. Era successo prima che litigassero perché Emiliano si era spinto oltre, chiedendo di lei a Margherita? Era terribilmente distratto, aveva perso il suo nuovo numero e non sapeva come rimediare perché tutta la droga che s’era fumato gli aveva bruciato i neuroni e non riusciva a ricordarselo a memoria. Allora aveva pensato di rivolgersi a sua cugina, domandare aiuto a lei, e invece aveva creato soltanto casini perché Meg era troppo testarda e ficcanaso e aveva deciso di vederci chiaro in quella faccenda. E lei aveva avuto paura e ad Emiliano l’aveva rinfacciato per settimane che, a causa sua, c’aveva quasi rimesso la faccia con l’intera famiglia Gherardi.

A pensarci, ora che Emiliano vegetava in un letto d’ospedale cercando di salvarsi, tutto questo non contava più. Le sue sfuriate contro di lui le sembravano solo delle grandi stronzate, perché tutto ciò che contava non era il benestare di suo padre o l’idea che la nonna aveva di lei, ma era Emiliano. La sua salute, la sua vita, la sua età.
Emiliano con i suoi baci, le risate che riusciva a strapparle quando le faceva l’imitazione dei suoi compagni di corso bacchettoni, la birra che le offriva il sabato sera dopo aver rubato qualche spicciolo dalle tasche di un amico. Tutto ciò che contava era la sua voce, la sua risata, gli occhi tristi che guardavano lontano e le mani di Emiliano, la bocca di Emiliano, le lacrime di Emiliano, le sue urla, la sua risata, il suo respiro, il suo cuore e tutto ciò di lui che la vita le stava portando via, meschina.


Allora?
Quanto tempo prima lui aveva sussurrato sulla sua spalla? All’epoca stava ancora bene, le parlava. Non come adesso che giaceva in silenzio in quel letto.
Come cambiano le cose!
Era stato dopo la faccenda di Margherita?
Sicuramente, in uno dei rari momenti in cui non era sballato, strafatto, confuso. In cui non aveva bevuto, fumato, tirato. In uno dei rari momenti in cui non avevano bevuto, fumato. No, tirato lei mai.

E com’era finita poi?
Forse avevano discusso, perché lei gli rispondeva sempre male quando si sentiva attaccata, oppure offesa o messa da parte. Era un tipo permaloso ed Emiliano lo sapeva, a volte si comportava apposta così con lei perché le piaceva quando si arrabbiava. Diceva che le veniva una ruga sexy sulla fronte. O forse, quell’ultima volta in cui l’aveva pregata di essere buona, lei aveva sorriso semplicemente, perché era di buon umore. E poi l’aveva attirato sul sediolino posteriore dell’auto – quella maledetta Skoda – e avevano fatto l’amore. Florinda aveva carezzato i suoi tatuaggi e il suo corpo esile e l’aveva amato con tutto il bisogno di una donna che viva per nessun altro al mondo che per il suo giovane amore. E lui aveva fatto altrettanto, per un tempo infinito, finché non gli era mancato il respiro, finché il cuore aveva  preso a martellare, forsennato, chiedendo un po’ di pace perché non era pronto a quella meravigliosa devastazione.
Certo, era andata proprio così, ne era sicura.
Tutto il resto, al di fuori di quelle immagini così piene d’amore di loro due, dunque, non esisteva. Non era vero. Così Flora cancellava, in quelle giornate inutili in cui non poteva far altro che starsene inchiodata in un letto d’ospedale, tutti i ricordi brutti che aveva di Emiliano. Con Emiliano.
Cancellava dalla sua memoria, per esempio, quel momento lontano in cui lui aveva alzato la voce, l’aveva chiamata puttana perché era strafatto, ma se lo ricordava che era uscita con un altro e non riusciva a perdonarglielo. Lei avrebbe voluto dirglielo che quegli appuntamenti erano innocui; non si faceva neppure sfiorare dagli altri, se ne serviva solo per buttare fumo negli occhi a suo padre. Ma era troppo orgogliosa per dargli tutte quelle spiegazioni e aveva troppa paura di lui quando vegetava in quello stato. Talmente paura che beveva anche lei, si fumava una canna a sua volta e così trovava il coraggio per affrontarlo e per affrontare il resto di quel mondo di merda che le ruotava attorno.
 
Un ricordo in meno, una lacrima nuova sul cuscino.

Cancellava dalla sua memoria, ancora, gli istanti di quel pomeriggio di pioggia in cui l’aveva scoperto a dormire su di un materasso con le molle di fuori, senza coperte e lenzuola; un materasso abbandonato tra un’altra catasta do roba vecchia e spazzatura, nel garage di casa di uno di quegli strani tipi – gli anarchici – con cui Emiliano se la faceva da un po’. Quel giorno Emiliano era così pallido che lei aveva temuto fosse morto; le labbra apparivano bianche, screpolate, le occhiaie violacee. Non mangiava da giorni perché tutti i soldi che racimolava li spendeva in droga e quel pomeriggio Flora si era stesa accanto a lui su quel materasso puzzolente, pulendogli il viso con le sue salviette profumate, baciandolo ripetutamente finché lui non aveva aperto gli occhi. Era stato un miracolo, quello. Un miracolo bellissimo.
Florinda sperava che potesse accadere un’altra volta, che Emiliano aprisse gli occhi di nuovo e le sorridesse come se non vedesse nulla, in realtà. Come aveva fatto in quel pomeriggio ormai lontano.
 
Un altro ricordo, un’altra lacrima sul cuscino.

Cancellava, infine, tutti i giorni in cui avevano fatto l’amore nei posti più assurdi. E non perché non volesse ricordarli – il tocco di Emiliano sul suo corpo era la sensazione più bella che avesse mai conosciuto – ma perché voleva fingere di aver conosciuto il suo amore in un letto dalle lenzuola bianche e profumate, non in un parcheggio al buio, non nell’androne di un palazzo che cadeva a pezzi, non in un vicolo buio della città, non in mezzo alle bottiglie di birra e la puzza del fumo.
Si era sempre detta che andava bene lo stesso, che l’amore con Emil era bello ovunque, che a lei per prima piaceva quella vita così sporca. E invece, adesso, era consapevole che avrebbe voluto soltanto un’esistenza normale, senza tutti quei soldi e senza tutta quell’indecenza, senza tutti quegli eccessi. Solo e soltanto con lui, per sempre con lui, senza vergognarsi, nascondersi, fingere, mascherare.
Solo con Emiliano.


L’ultima lacrima sul cuscino.


Invidiava Margherita, a volte: contrariamente a lei, sua cugina non doveva strapparsi i ricordi dalla testa a forza di pianti e urla silenziose. C’aveva già pensato la vita a farle quel favore.

Se almeno l’avesse fatto anche a lei!

Allora, Flora si asciugò gli occhi col dorso della mano; non si era resa conto di aver pianto così tanto. Nello stesso istante, un’infermiera si affacciò in camera, chiedendole se avesse avuto bisogno di qualcosa. Erano davvero premurosi, molto premurosi con lei, da quando il suo ricco papà sganciava tanti soldini in donazioni per l’ospedale cittadino.
Florinda biascicò un “è tutto a posto, grazie”, poco convinto, mentre lo sguardo della donna si posava, curioso e impertinente, sull’orologio ormai frantumato sul pavimento.

“Signorina Gherardi! Cos’è successo?”
“Niente” si affettò a rispondere “Volevo guardare l’ora e mi è scivolato di mano.”

Assunse proprio quell’aria convincente che tanto amava sfoggiare quando andava a dare esami all’università. Studiava tanto, era vero, ma recitava ancor di più: erano sempre tutti trenta.
L’infermiera dovette crederle e mostrò un’espressione rammaricata per il suo grazioso orologio rotto; rammaricata di cosa? Non sapeva che poteva comprarne altri mille di orologi, esattamente come stava comprando adesso le sue attenzioni?

“Mi dispiace signorina”
“Non importa” rispose con una smorfia. In primis perché aveva dolori ovunque e anche solo parlare le causava un’immensa sofferenza. In secondo luogo, perché voleva tagliar corto: quella donna aveva disturbato il suo personale momento fatto di ricordi strazianti, rimorsi e troppi perché.

“Vuole che faccia qualcosa per lei?”

Sì. Portami da Emiliano.

“Sì. Potrebbe darmi qualcosa per il dolore, per favore? E’ davvero insopportabile.”
“Un po’ di paracetamolo e codeina. Sarà un toccasana!” cinguettò la donna, pronta a somministrarle la capsula che, a suo dire, l’avrebbe guarita da ogni male.

“Mi farà dormire?”
“Potrebbe farle venire un po’ di sonno in effetti, sì. Anche se lei dorme già abbastanza, signorina Gherardi.”

Non è vero, non dormo mai. Passo le notti a vedere Emiliano scomparire dalla mia vita.

“Potrei avere qualcosa di più forte? Della morfina?”
“Signorina, lasci fare a me, la prego.”


Le mostrò due capsuline colorate sul palmo della mano. Florinda le accettò riluttante – avrebbe preferito, piuttosto, un’efficace iniezione di morfina –  ma si trattenne dal protestare. Dopotutto, avrebbe potuto comunque dormire, grazie a quella roba. Avrebbe dormito e avrebbe alleviato i suoi dolori.
I dolori delle ossa, dei muscoli, della carne. Il dolore del cuore no, quello non spariva mai, ma sperava di dormire così a lungo e profondamente da scordarsene per un po’.
 
“Vado, ho da fare in reparto. Per qualsiasi cosa sono a sua disposizione.”

A sua disposizione, signorina Gherardi.

Se mio padre non ti pagasse quanto ti paga per servirmi, saresti garbata allo stesso modo?
Per esempio, con Emiliano come ti comporti?
Perché se non ti comporti come dovresti, io te la farò pagare! Io… io…

 
 
Non ebbe tempo a sufficienza per formulare il suo pensiero, Florinda. O la sua minaccia, che dir si voglia.
La codeina agì prima del previsto; era come ricevere una botta in testa senza l’inconveniente del dolore: una bella storia, in pratica.
 
Quando Flora si rese conto di quell’effetto soporifero, neppure cercò di combatterlo, spremersi le meningi e far funzionare ancora i suoi neuroni; si abbandonò piuttosto al sonno senza ripensamenti, sperando che potesse confortarla.


Ovviamente non accadde: sognò Emiliano per tutto il tempo.
Compariva e scompariva dalla sua visuale, cercava di afferrarlo e lui si dileguava nell’oscurità, ridendo.
Alla fine, soltanto il buio l’avvolse, ma un’immagine le restò fissa davanti agli occhi per tutto il tempo: quella del viso di insanguinato di Emil reclinato sulla sua spalla, privo di sensi.

E quello non era un sogno.
 
 


***


 
“Hitler invase la Polonia il primo settembre del 1939, dando ufficialmente avvio alla Seconda Guerra Mondiale…”
 
Cercavo di concentrarmi sul testo di storia quel pomeriggio – e sembrava un’impresa ardua perché era sabato, era già troppo caldo, Andrea si trovava a Roma per la manifestazione, mio padre aveva passato tutta la giornata in casa sbraitando e sbuffando e a me stava venendo l’orticaria – quando mi squillò il cellulare.
Non mi fu necessario controllare il display per conoscere l’identità della persona che mi stava chiamando: a un solo contatto in rubrica, infatti, avevo associato, come suoneria, Girls just want to have fun1 e quella persona era Romina.
Non la sentivo dal martedì della festa a La Piovra. Dal martedì dell’incidente di Flora ed Emil.
Quasi mi si bloccò il respiro per la sorpresa, poiché avevo perso le speranze di parlarci dopo mille tentativi andati a vuoto. Ero arrabbiata, arrabbiata con lei per questo suo atteggiamento, ma promisi a me stessa che avrei mantenuto la calma, rispondendo pacificamente alla sua telefonata.

“Devi stare tranquilla, Meg” ripetei a me stessa “E’ soltanto Romina. Adesso risponderai con calma, non alzerai la voce e vi chiarirete. Andrà tutto bene.”
“Devi stare tranquilla, Meg.”
“Devi…”
 
That's all they really want…
 
“Stare…”
 
…Some fun…
 
“Calma…”
 
“ROMINA!” urlai infine, accettando la telefonata; decisamente non avevo dato retta ai miei buoni propositi di pace e tranquillità. Il self control della mia vocina interiore non si estendeva anche a me.

“Meg…?”
“Ah cavolo, allora ti ricordi ancora come mi chiamo?!” sbraitai, senza abbassare la voce. Ludovico si sporse dalla porta, mi squadrò alzando un sopracciglio. Nervosa, gli feci intendere che era tutto okay e doveva andarsene. Sbuffò.
“Maggie, non essere arrabbiata, per favore...”
“Non chiamarmi Maggie. E vedi di trovare una scusa plausibile per essere sparita nel nulla.”


Margherita Diktator mode on.
 

“Sparita nel nulla, Maggie… Non esagerare! Sono passati soltanto quattro giorni.”
“Ti ho detto non chiamarmi Maggie! Non mi addolcirai la pillola. Ti ho cercata ovunque!”
“Lo so, ho letto il messaggio su Facebook.”
“E hai visto tutte le telefonate? Tua madre ti ha detto che ti ho cercata?”
“Sì, me l’ha detto.”
“E ti costava tanto richiamarmi?!”
“Meg, è stato un po’…”
“Cosa?”
“Complicato. Scusami.”
“Ah, complicato. Per te è stato complicato, eh? Sai cos’è successo a casa mia?”
“Sì.”

Cascai dalle nuvole.

“Lo sai? Sai dell’incidente?”
“Sì.”

Ero davvero sbalordita. Mio padre e zio Aurelio avevano fatto di tutto per evitare che la notizia dell’incidente di Florinda e delle sue cattive “frequentazioni” valicasse i confini dell’ospedale cittadino. Ovviamente, questo “tutto” implicava un notevole sperpero di denaro; come poteva allora Romina esserne al corrente, se non aveva mai parlato con me dell’intera faccenda?
 
“Fabrizio” rispose lei, ma pareva poco convinta. Io comunque, lì per lì non ci badai. Soltanto dopo poco, nel silenzio che seguì a quella risposta, focalizzai il nome e la persona e spalancai la bocca per la sorpresa: da quando Romina e Fabrizio erano così intimi da scambiarsi informazioni e confidenze?


“Fabrizio, hai detto? Fabrizio… Polska?”
“Beh, sì… cioè, Andrea l’ha detto a Fabrizio e…”
“E Fabrizio l’ha detto a te? Da quando siete così amici?”

A quella domanda seguì l’ennesimo momento di silenzioso imbarazzo: avevo come l’impressione che Romina mi nascondesse qualcosa.

“Ecco, sì… L’ha detto a me, ma non intenzionalmente. Cioè, stavamo insieme quando Andrea ce l’ha detto.”
“Andrea ve l’ha detto?” scandii bene le parole “Quindi ti ha vista prima di me e non mi ha detto nulla? Eppure lo sapeva che ti stavo cercando come una disperata! Quand’è successo tutto questo?!”

Oh-oh: cominciavo ad arrabbiarmi seriamente.
Buon per Andrea che la telefonata di Romina l’avessi ricevuta mentre lui era a Roma, a sfilare per le strade assieme agli altri manifestanti, perché se fosse stato in città l’avrei già raggiunto per cantargliene quattro. Con amore, s’intende.

“Maggie, non arrabbiarti…”
“Ti ho detto di non chiamarmi Maggie!”
“La puoi smette di sbraitare come un’allucinata e farmi parlare, per favore?” protestò allora “Ho sbagliato, scusa! E mi dispiace tanto per Florinda ed Emiliano, tantissimo! Ma sono successe alcune cose… Vorrei parlartene da vicino, per me è complicato. Per piacere, Meg…”

Non risposi.

“Meg? Dai, per favore! Alle sei al parco giochi fuori casa tua. Ti spiegherò tutto. E non prendertela con Zeno, gli ho chiesto io di non dirti nulla. Va bene?”

Non risposi, di nuovo. Ero arrabbiata e nervosa, mi sentivo presa in giro da tutti; continuavo a mangiucchiarmi il labbro inferiore finché non staccai definitivamente una pellicina: stavo morendo dal dolore. Decisi di smetterla.

“Meg?”
“Va bene. Alle sei al parco giochi. Ci vediamo dopo” risposi allora sbrigativamente, chiudendo la telefonata prima che potesse salutarmi.


Dopotutto, ero davvero curiosa di sentire cos’aveva da dirmi per giustificarsi.
 



***
 


 
Non vedevo la mia Romina abbigliata nel modo in cui si presentò al parco quel pomeriggio da molti anni, ormai.  Indossava un vestito chiaro di cotone, era poco truccata e i suoi capelli erano sistemati in una treccia morbida sulla spalla. Mi ricordava molto la ragazzina che era stata un tempo, intorno ai quindici o sedici anni; quella ragazzina che era stata successivamente scavalcata da una presunta punkabbestia/figliadeifiori/donnadeldark con tanto di borchie. Alla fin fine, Romina aveva sempre cercato solo un modo per emergere e farsi notare; probabilmente aveva sperato di farlo conciandosi per mesi in modo strano, ma era un modo, quello, che non le si addiceva ed ero contenta che, forse, l’avesse compreso anche lei.

Per un attimo, quando incrociai il suo sguardo mortificato, quegli  occhi belli dalle ciglia naturalmente all’insù, dimenticai di essere arrabbiata: era davvero tenerissima.
Mentre camminava spedita nella mia direzione, mi venne spontaneo chiederle cosa le fosse accaduto, perché si fosse sistemata a quel modo. Abbozzò un sorriso, prima di rispondermi.

Qualcuno mi ha detto che non c’era bisogno di far scena per essere interessante. Penso che abbia ragione”

La guardai con diffidenza.

“Chi sarebbe questo qualcuno?”

Sospirò. Poi si accomodò sulla vicina altalena, chiedendomi di fare lo stesso. Cominciò a spingersi con indolenza e io non la guardai mentre dava inizio al su discorso chiarificatore.

“Comincio subito col dirti che non è colpa di Andrea” si affrettò a sottolineare, per fugare ogni dubbio “Neanche lui avrebbe dovuto vedermi o sapere dov’ero, Meg. È capitato per caso e l’ho supplicato di non dirti nulla perché mi vergognavo. Quindi, per favore, non litigate a causa mia.”


Sapere dov’ero.
Ma perché, dove cavolo stavi, Romina?!


E comunque, adesso afferravo il perché di tutte quelle domande allusive di Andrea riguardo la mia amica: voleva sondare il terreno, comprendere se avessi avuto sue notizie. Conosceva circostanze a me ignote e stava cercando di capire come muoversi.
“Non ho capito bene a cosa ti riferisci… Dov’eri quando Andrea ha parlato con Fabrizio?”
“Fammi finire, Meg. Per favore.”
“Roma…”
“Meg…”
“Perché ti vergognavi?”

Sospirò a lungo, guardò dall’altro lato del vialetto di ghiaia, lì dove bambini in calzoncini e maglietta a maniche corte giocavano a rincorrersi.
“Perché stavo a casa di Fabrizio. Dovrei aggiungere mezza nuda a casa di Fabrizio. Ma sono dettagli.”

Sputacchiai per terra, soffocando. Non fu un bel vedere. 
“A fare cosa?!”
“Pettinavo bambole!” fu la sua risposta. Mi guardò accigliata.
“Tu e… Polska? Polska! Che cavolo vai dicendo?!”

Ero molto più che sorpresa o sconcertata. Ero incredula davanti all’assurdità di tutta quella situazione, così priva di senso e stravagante da apparire irreale, considerando che Fabrizio e Romina non si erano mai calcolati per davvero. Okay, che la mia amica ci sbavasse dietro lo sapevo fin troppo bene, ma l’avevo sempre considerato un “amore platonico”, una cotta da ragazzina che sarebbe svanita così com’era venuta. D’altronde, Romina s’innamorava un giorno sì e l’altro pure e la sua lunga lista di amanti includeva cantanti e attori famosi come Kurt Cobain e Robert Pattinson. Ancora non comprendevo il nesso tra i due.
Ecco perché non avevo mai dato peso all’intera faccenda e adesso… Adesso venivo a sapere erano finiti.a.letto.insieme.
Era assurdo.

“Che altro dovrei dirti, Meg?” rispose Romina “Ti sto raccontando solo quello che è successo. Non chiedermi come sia andata di preciso, non lo so ancora nemmeno io. Però posso affermare con sicurezza che non mi sbagliavo e che Fabrizio è molto di più di quel ragazzo silenzioso che tutti hanno conosciuto a La Piovra. Mi ha parlato come nessuno mai ha fatto, mi ha guardata veramente e mi ha apprezzato per quel che sono. E posso giurarti che la nostra notte insieme sia stata la più bella della mia vita.”

Ne parlò con occhi luccicanti e con così tanto trasporto che finii col sorridere involontariamente anche io, nonostante tutto. In fin dei conti, era la mia migliore amica: se qualcosa riusciva a renderla così felice io non potevo far altro che essere felice con e per lei. Le arrabbiature passavano in secondo piano davanti a quella consapevolezza.
Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non afferravo, cosicché mi spinsi nel farle qualche domanda.
 
“Ma se sei così felice, allora perché te ne vergogni? E perché non hai permesso ad Andrea di parlarmene?”
“Anzitutto” rispose, rabbuiandosi quasi subito “Volevo essere io a parlartene, per prima. Era una mia confidenza, non un inciucio da diffondere in giro per la Piovra.”
“Pensavi davvero che Andrea l’avrebbe trasformato in un pettegolezzo?”

Ero sconcertata: Andrea non era tipo da queste cose e lei avrebbe dovuto saperlo. Comunque scosse la testa, si affrettò a spiegarsi.

“No, non è questo. Solo che avevo l’idea che si sarebbe automaticamente trasformato in un pettegolezzo se non fossi stata io a parlartene per prima. Non so se riesco a spiegarmi…” mormorò puntando la scarpa nel terreno.
“Credo di sì…” risposi in un soffio “Allora perché non l’hai fatto? Perché non me l’hai detto subito?”
“Perché… Meg, io c’ho provato, credimi. Per tutto il giorno, mentre stavo ancora da Fabrizio. Ma non eri rintracciabile.”

Certo.
Avevo una cugina ricoverata in ospedale.

“Adesso so che era per Florinda. A proposito, come sta?”
“Lei se la cava. Emiliano non molto.”
“Sei preoccupata per lui?”

Annuii.

“Sì. So che non è esattamente un bravo ragazzo, ma credo abbia sofferto tanto e vorrei che la vita gli regalasse un’altra chance. Tutto qui.”

Approvò la mia idea.

“Mercoledì ti ho cercata, te lo giuro. Volevo dirtelo. Però non è andata come desideravo io, non sono riuscita a mettermi in contatto con te. Alla fine sono rimasta a casa di Fabri tutta la giornata e anche il giorno dopo. Sono tornata a casa mia soltanto quando i miei sono rientrati dalla vacanza, giovedì mattina. E nel frattempo io… Ho riflettuto molto, Meg. E sì, ora come ora non cambierei nulla, ma capisci che per una come me che ha sempre sognato molto e mai concluso nulla, tutta quella situazione aveva del surreale. Ero scombussolata, lo sono tutt’ora; non so quanto sia stato giusto, nei confronti dei miei genitori, di me stessa e persino di te, cedere subito all’istinto, essere così impulsiva. Ho come l’impressione che la gente che mi circonda si aspetti da me molto di più che una notte d’amore improvvisata con un ragazzo sconosciuto che forse domani non mi cercherà neppure più, capisci? E’ come se avessi momentaneamente perso me stessa e questa confusione mi ha portato ad eclissarmi.”
“Tutto questo è assurdo, Romy! Tu stessa mi hai detto cinque minuti fa che è stata la notte più bella della tua vita e ora ti fai tutte queste paranoie?”
“Non è detto che solo perché ti fa stare bene non sia sbagliato2, ti pare Meg? Sì, lo rifarei perché è stato perfetto e nella sua perfezione mi ha stravolta… Ma non è detto che abbia agito correttamente. Lo capisci?”
“Hai troppi schemi mentali, tu”
“Tu non ne hai? Non ne hai mai avuti?”

Sì, ne avevo eccome. Solo che pensavo Romina fosse immune da certe cose.
Non risposi.

“Okay, va bene tutto, allora. Ma io che c’entro in tutto questo?" domandai piuttosto.
“Non lo indovini?”
“Vuoi farmi intendere che avevi paura ti giudicassi anche io?”
“Sì” ammise “All’inizio, volevo raccontartelo subito, presa com’ero dalla frenesia del momento. Dopo, a mente fredda, c’ho pensato e ho avuto paura; allora, ho pensato che forse sarebbe stato meglio non confessarti niente. Poi però mi ha scoperta Andrea, per puro caso, e ho capito quasi subito che prima o poi l’avresti saputo anche tu: a quel punto l’ho supplicato di non dirtelo perché preferivo venissi a saperlo da me. Se pure ti fossi fatta una cattiva idea di tutta questa situazione, preferivo rendertene partecipe io, vederlo con i miei occhi come avresti reagito. Ma ho avuto bisogno di qualche altro giorno di silenzio, finché oggi non mi sono fatta coraggio ed eccomi qua. È questa la verità, Meg.”

Avevo la bocca spalancata.

“Stai scherzando? Pensavi davvero che ti avrei criticata, che avrei pensato male?”
“Non lo so Maggie, non lo so che m’è preso. Sì, è vero: c’ho pensato. E ho pensato anche che ci stavo mettendo troppo per cercarti e tu ti saresti arrabbiata. Non lo volevo, ma non sapevo che altro dovevo fare. Poi mi veniva in mente quel che stava capitando a casa tua e mi sentivo in colpa perché non ti stavo sostenendo per nulla. Avevo un pasticcio in testa. Sono una frana, ho combinato un casino e ti chiedo scusa!”

Si voltò rapida, nascondendo il viso: ero certa che le venisse da piangere.
Ancora una volta, mi stringeva il cuore per quanto appariva tenera e fragile: non era proprio da Romina.
 
Allora, davanti a quelle lacrime così insolite per la mia amica, dimenticai tutto in un attimo: dimenticai di essermi arrabbiata, di aver pensato male di lei, di essermi sentita trascurata come mai era successo in cinque anni di amicizia. Dimenticai anche il presunto risentimento nei confronti di Andrea che non mi aveva detto come stavano le cose, ma che, in fondo, l’aveva fatto per una buona causa: potevo perdonarlo.
Quella che mi stava accanto era una Romina insicura che non conoscevo o con la quale, comunque, avevo avuto a che fare poche volte. Forse, io Romina non l’avevo mai conosciuta veramente: mi rimproverai perché, presa com’ero sempre stata dai problemi miei, non mi ero mai sforzata veramente di approfondire la persona che era, di chiederle se le sue cose andassero bene, se avesse qualche speranza o progetto per il futuro. Avevo preso sotto gamba anche la storia di Fabrizio, archiviandola come la solita cotta momentanea, e invece non era vero, era qualcosa di tangibile, un sentimento che aveva preso forma e stava costringendo Romina a crescere, a vedersi diversa da quel che sempre era stata. Ecco perché si sentiva confusa, perché credeva di aver sbagliato, perché provava imbarazzo e, tuttavia, non riusciva a pentirsene: perché stava affrontando qualcosa che le appariva nuovo, che le piaceva ma la obbligava a fare i conti con la persona adulta che stava diventando. Che, forse, non avrebbe mai voluto diventare per davvero.
La capivo.

Mi affrettai dunque a lasciare l’altalena corsi ad abbracciarla; ricambiò immediatamente e affondò il viso nei miei capelli. Compresi che quella era la prima volta, in cinque lunghi anni di amicizia, che offrivo io a lei una spalla su cui piangere, un sostegno; la prima volta che le lasciavo intendere di poterla aiutare, confortare, consigliare per davvero.
Avrei dovuto sentirmi uno straccio e lo feci: non ero mai stata davvero una buona amica per Romina, era chiaro. L’avevo riempita dei miei problemi per mesi, riconoscendole il merito di tanta pazienza e amore, è vero, ma dimenticandomene non appena mi sembrava che mi trascurasse più del necessario.
Lei non si era mai comportata così con me.
 
“Scusami” le dissi “Sono pessima. Mi sono arrabbiata senza un motivo. Avrei dovuto prima vedere cos’avevi da dirmi.”
“Scusami tu, Meg. Sono sparita quando avevi bisogno di me.”
“Non dire scemenze: ci sei sempre stata quando avevo bisogno di te, ci sei anche adesso.”
“Quanto siamo patetiche ad abbracciarci qui in mezzo e chiederci scusa di continuo?” ridacchiò allora, staccandosi. In realtà, ne approfittò per togliersi una lacrimuccia dall’angolo dell’occhio.
Risi anche io.

“Parecchio, mi sa.”
“Sei arrabbiata con Andrea?”
Scossi la testa.
“No. Però lo punirò lo stesso.”

Le feci l’occhiolino. Sorrise.
“E con me?”
“Come potrei? Sei troppo carina con questo vestitino, fai passare qualsiasi arrabbiatura.”
“Sono ridicola?”
“Per niente.”

Mi alzai, perché stare inginocchiata sull’erba era un tantino scomodo e offrii le mani a Romina per aiutarla ad alzarsi a sua volta.

“Sei innamorata, Romy?”

Le brillarono gli occhi.

“Forse, non lo so. Ma ho sempre la testa a Fabrizio. È normale?”
Annuii.
“Ed è per questo che sono così confusa, secondo te?”
“Può essere, sì. L’amore destabilizza. E comunque, non pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato, di riprovevole o chissà che altro. Non è vero che quel che ti fa stare bene non sempre è giusto, Roma; finché non limita la libertà degli altri o non causa dolore, è sempre giusto perché ha reso una persona felice: te stessa. Trovi che ci sia nulla di più importante di questo? Fabrizio ti piace e non vedo perché non potresti piacergli anche tu. Qualcosa vi ha spinti a stare insieme, avete condiviso un momento meraviglioso, a chi hai fatto del male? Non avere paura di tutto quel che ti aspetta, Romy: è il percorso della vita, prima o poi avresti dovuto affrontarlo e io sono felice che sia andata proprio così. Sorridi, coraggio, e non farti più problemi, soprattutto con me che sono la pasticciona per eccellenza!” le feci l’occhiolino “Avanti, promettimelo.”
“Te lo prometto.”
“Bene. Fabrizio ti ha più cercata?”
“Ogni giorno. Mi cerca ogni giorno, mi chiama. Anche adesso che è a Roma” ammise, arrossendo.
“E sei contenta di questo?”
“Tantissimo.”
“Bene. Anche io lo sono.”
 
Allungai una mano verso di lei, incamminandomi lungo il prato, verso il vialetto di ghiaia. Per qualche minuto Romina mi seguì in silenzio, anche se mi rivolgeva occhiate curiose di tanto in tanto.
Io sorridevo: per quanto ancora fossi profondamente rammaricata con me stessa per non essermi sempre comportata come avrei dovuto, specie con la mia migliore amica, sapevo di potermi sentire soddisfatta. Contenta.
Il mondo intorno a me si evolveva rapido, non sempre in maniera negativa; per una Florinda che affossava, scoprivo una Romina che cresceva, finalmente, seppure ancora incerta. Non ero circondata solo di lacrime e dolore, ma anche da tanta curiosità, da profondo amore, dalla voglia di superare se stessi e i propri limiti. Dalla vita.
Erano giorni che non ci pensavo più, presa com’ero da quel senso di immobilità che mi trasmetteva il pensiero di mia cugina e del suo presunto, adorato amante, inchiodato in un letto d’ospedale. Adesso ne ero piena, di nuovo.

“Meg?” domandò allora Romina, stringendomi il polso. Tornai alla realtà.
“Che c’è?”
“Dove stiamo andando, scusa?”
“A studiare. A casa mia. Dove, altrimenti? Ti ricordo che abbiamo un esame di maturità in agguato!”


Sorrise.
Lo sapeva anche lei che era tutto a posto, adesso.

Mi seguì senza dire più nulla.




***
 


“Ti aspetta una severa punizione quando torni.”

Bip bip.

“Oddio, che ho fatto?”

Andrea rispose subito al mio messaggio: ma non era impegnato in una serissima manifestazione?
Mi venne da ridere. Dubitavo, comunque, che avesse capito il motivo per cui andava “punito”.
In realtà, non ero arrabbiata con lui per la faccenda di Romina, non dopo il nostro chiarimento soprattutto, ma mi piaceva tenerlo un po’ sulle spine.

“Poi vedrai” risposi allora, di rimando, per incuriosirlo ancora di più.

Bip bip.

“Principessa, non farmi brutti scherzi che poi te ne penti.”
“Ah sì? Non credo proprio. E comunque non mi fai paura.”
“Dovresti. Lo sperimenterai sulla tua pelle, se mi combini qualche giochetto.”
“Te ne combinerò, puoi giurarci.”


Sorrisi, in attesa della sua risposta. Mi piaceva molto provocarlo e scherzarci in quel modo.
 
“E tu puoi giurarci che la mia vendetta sarà terribile. Poi ne riparliamo piccola. Tempo che torno e vedrai.”


Ne riparliamo.
Certo, quando vuoi Andrea. Però prima ti riempio di baci, pensai tra me e me.
 


 
***




Quella domenica mattina andai a trovare  a mia cugina. Perché avessi voglia di vederla, restava un mistero; forse mi sentivo buona e piena di prospettive favorevoli, dopo l’incontro con Romina. Forse ero soltanto preoccupata per lei. Forse avevo troppe cose da chiarire e volevo farlo subito, perché di aspettare non mi andava più, non lo so. Fatto sta che mi vestii in fretta e vinsi sul tempo, nell’andare a trovarla, il resto della famiglia: alle dieci ero già in ospedale. Benché non fosse orario di visite, nessuno mi fece storie quando entrai nella sua stanza bella e isolata; ero “l’altra Gherardi”, tutto mi era concesso.
 
Ovviamente Flora non la pensava allo stesso modo e mi squadrò per bene, quando richiusi la porta alle mie spalle.


“Che vuoi?”
“Buongiorno anche a te, Florinda.”

Feci come se non mi avesse rivolto il suo sguardo così familiare, carico di risentimento e intolleranza, e avanzai piuttosto verso di lei, tranquilla. Spostai una comoda sedia presso il letto e mi ci accomodai con naturalezza.
 
“Sei seria, Margherita?”

Mi guardò sconcertata e ne approfittai per osservarla anche io; l’ematoma sulla guancia era ancora lì, in bella vista, solo i bordi sfumavano di più in un alone giallognolo. Il labbro inferiore aveva ripreso dimensioni normali.
Stava guarendo fisicamente – gamba a parte, visto che era ancora ingessata e ne avrebbe avuto per molto – ma dubitavo che il suo cuore potesse guarire alla stessa velocità. Dubitavo che il suo cuore potesse guarire e basta.
 
“Perché non dovrei esserlo?”
“Ti ho lasciato intendere di essere la benvenuta?”
“No” ammisi “Ma ci sono abituata. Quindi resto. Ti spiace?”
Afferrai una rivista che se ne stava abbandonata sul letto, una di quelle che in edicola ti vendono a un euro, per promozione, piene di falsi gossip e paparazzate da quattro soldi.

“Ma leggi sta roba?” domandai sconcertata.
“Ti pare?!” si affrettò a replicare, scandalizzata “L’ha scordato qui un’infermiera! Anzi, se mi facessi il favore di buttarlo da qualche parte te ne sarei grata a vita.”

Mi venne da ridere.

“Non ci credo! Florinda Gherardi che non solo chiede un favore alla sua detestata cugina, ma le promette anche eterna gratitudine in cambio! Fai progressi a vista d’occhio Flo, solo due minuti fa volevi incenerirmi!”
“Ciò non significa che non lo desideri ancora adesso. Non darti troppo arie Margherita, non sei comunque la mia cugina preferita.”
“No, ma sono la tua unica cugina, quindi dovrai accontentarti” risposi alzandomi per infilare la rivista nel vicino cestino della carta.

Quando tornai ad accomodarmi alla sedia, con le mani in grembo, Florinda mi stava ancora guardando, un po’ curiosa, un po’ diffidente, un po’ scocciata, come suo solito, ma meno di quanto ricordassi io: un altro passo avanti.

Per un po’ stette in silenzio e io feci lo stesso, alzando il sopracciglio di tanto in tanto, divertita dalla situazione surreale. Alla fine, mi decisi a parlare:
“Pensi che potremo stare così a guardarci ancora per molto, Flo?”
“Perché lo fai?” rispose senza badare alla mia domanda.
“Cosa?”
“Perché sei qui, perché insisti, perché? Non siamo mai state grandi amiche, non hai doveri verso di me.”
“Hai ragione, non ho alcun dovere verso di te. Però, su una cosa ti sbagli. C’è stato un periodo in cui eravamo amiche: quando mi cantavi le canzoncine per bambini sulla spiaggia di Alassio. Te lo ricordi?”
Abbozzò un sorriso triste.

“E’ stato una vita fa”
“E’ stato in questa vita, Flora. La stessa vita di adesso”
“Se ci penso, non mi sembra possibile. È cambiato troppo, sono cambiate le persone, i posti. Io.”
“Già, eppure è così. A rifletterci, non c’era neppure Emiliano all’epoca”
Al suono di quel nome, sobbalzò. La vidi trattenere il respiro. Quando aprì bocca per parlare, mi parve le servisse una certa dose di coraggio per dire tutto quel che doveva:
“Potrebbe non esserci neppure dopo”

Non risposi.

“Come sta?” domandò allora.
“Come stava venerdì. Non migliora e non peggiora, credo.”
“Se non peggiora è già qualcosa” mormorò tra sé e sé, guardando verso la parete. Mi venne da piangere nel considerare a come si appigliasse a ogni minima speranza.
“Va avanti da molto la vostra storia, Flora?”


“Flora?”
“La prima volta che ho avuto a che fare qualcosa con lui non avevo compiuto ancora diciassette anni.”
“Diciassette anni?!” gridai. Per poco non cascavo dalla sedia, per la sorpresa.
“Tutto questo tempo? “
“Già. Non puoi ricordartelo, credo. All’epoca la tua famiglia e la sua si frequentavano, erano amici. Venivano a farvi visita spesso e volentieri e a volte c’ero anche io. Tu avevi quindici anni.”
“Sì, quindici anni. Però lo ricordo che venivano a trovarci, certo che me lo ricordo.”
“Sì? Strano. Pensavo fossi troppo impegnata a contorcerti per il dolore, quando ti veniva mal di testa, o  a lamentarti a causa delle tue crisi di panico. Svenivi un giorno sì e l’altro pure, all’epoca”
“Flora, ero caduta. Mi ero fatta male, avevo quasi rischiato la vita. Non è colpa mia se il mio fisico reagiva così! Perché ne parli come se l’avessi fatto volontariamente?”

“Lascia perdere” agitò la mano per chiudere il discorso. Nello stesso momento, un’infermiera che non avevo mai visto fece capolino per verificare che fosse tutto tranquillo, che la sua paziente non provasse fastidi di alcun tipo. Cercai di allontanarla il più in fretta possibile, con tanti sorrisi e frasi di circostanza, perché volevo approfondire quel discorso.
Ci riuscii.

“Flora, rispondimi per favore.”
“Ho mal di testa Margherita, non scocciarmi.”
“Flora…”
“Sai a chi affidava tua madre la sua bambina un po’ psicopatica, durante tutte quelle visite e in tutti gli altri giorni?” sbottò allora, improvvisamente “A me. Diceva che ero l’unica che poteva calmarti. Ero terrorizzata all’idea che ti prendesse una di quelle strane crisi davanti agli estranei, che la gente poi potesse parlarne in giro. Così ti proteggeva, affidandoti a me.”
“E perché sei così arrabbiata per questo? Che c’è di male, cosa t’infastidiva?” alzai la voce, sconcertata. Flora l’alzò più di me, assunse un tono stridulo.
“Sono arrabbiata perché io avevo perso mia madre e a nessuno fregava un cazzo di questo, mi senti bene?! A nessuno! Tu sei stata sempre la prediletta, Margherita, la bimba da coccolare, viziare e proteggere.”
“Ma non è vero, stai dicendo una bugia! Sono anni che lotto contro il tuo spettro e non ne ricavo mai nulla! Guarda Florinda com’è brava, quant’è studiosa, quant’è brillante, quant’è perfetta, bella, simpatica…Ecco cosa sento dire da mattina a sera! Come posso essere io la cocca? Dimmelo!”

Le labbra di Flora si piegarono in una smorfia di doloroso disprezzo.

“Hai idea di cosa sia stata la mia vita, Margherita?” domandò allora, in un sussurro “Mentre mia madre moriva, la mia famiglia, quella che avrebbe dovuto sostenermi e aiutarmi perché ero un’adolescente sola e triste, si rammaricava per la ragazzina tredicenne che eri tu. Quella stessa ragazzina che, improvvisamente, sbraitava di odiare il suo cognome e le proprie ricchezze, quella che li minacciava di piantarli in asso non appena avesse compiuto diciotto anni, di andare chissà dove e chissà con chi, sputando su tutti i soldi che suo padre aveva guadagnato con anni e anni di lavoro e sacrifici. Allora, la nonna si torceva le mani pensando al tuo futuro precario, tua madre piangeva, zio Franco si spolmonava per te e, nel frattempo, io stavo da sola in un angolo pensando al momento in cui avrei detto addio a mia madre. Sei mesi dopo la sua morte, tu sei rotolata per le scale dell’azienda e, per carità, io per prima ho sofferto per te. Ti vedevo nello stesso letto d’ospedale di mia madre, temevo che potessi abbandonarci anche tu. Ho pianto per te, Margherita, se non lo sai. Quando ti sei ripresa, ero felice e se tua madre mi chiedeva di badare a te lo facevo col cuore. Ma continuavo a domandarmi perché nessuno mai s’interessasse a me, perché, se qualcuno mi chiamava, era solo per sapere di te, mai di me. Io ero trasparente, Margherita, la ragazza che non soffriva, quella a cui non mancava una madre, quella che poteva accettare l’amante del padre senza problemi. Io volevo occuparmi di te, ma nessuno mai si occupava di me Margherita. Neanche tu, che mi cercavi spesso, anche da bambina, ti sei mai preoccupata di chiedermi una sola volta come stavo. Una sola volta, lo capisci?”
L’ultima frase la urlò.

Io, dal canto mio, raggelai nel bel mezzo di quell’afosa domenica di giugno.
Perché non sapevo nulla o, ancora una volta, perché non mi ero mai interessata a lei veramente, così come non mi ero mai interessata a nessun altro nella mia vita, in realtà, compresa Romina. Il rimorso per il mio disinteresse tornava a tormentarmi di nuovo, per la seconda volta nell’arco di ventiquattr’ore, solo per ricordarmi che non ero così brava, buona e senza colpe come avevo sempre creduto.
Non mi ero mai soffermata sui dubbi, le incertezze e i perché della mia migliore amica, così come non mi ero mai soffermata sul risentimento di mia cugina, archiviandolo come il frutto del carattere acido, insopportabile e narcisista che si ritrovava. E il perché di quel carattere me l’ero mai domandato? La risposta era semplice, ancora una volta: no.

Alla luce di quelle parole, consideravo adesso l’odio di mia cugina nei miei confronti assolutamente ragionevole. Anche perché non era odio vero; era dispiacere, mortificazione, solitudine e incomprensione che, negli anni, si erano cementificati, amalgamati e trasformati nella maschera di disprezzo con la quale era solita guardarmi ogni giorno. Avrei mai potuto biasimarla, considerarla infantile e detestarla per questo a mia volta? No, non avrei potuto. Se fossi stata costretta a crescere in quelle stesse condizioni, forse, anche io avrei assunto i medesimi atteggiamenti e lo stesso odio nei confronti del mondo che mostrava lei.
Io avevo perso la memoria; Florina aveva perso sua madre e il sostegno di chiunque avesse potuto aiutarla. Si erano tirati tutti indietro per aiutare me e il buon nome della nostra falsa e insopportabile famiglia.
Adesso lo comprendevo: anche io mi sarei odiata, al suo posto, considerando quella cuginetta capricciosa come l’emblema di tutte le mancanze e dell’indifferenza che mi circondava.

Mi sentii in colpa, per la prima volta: c’era voluto un incidente, era stato necessario che Florinda rischiasse la vita per arrivare a capire tutto quello.
Avrei dovuto vergognarmi.
 
“E’ per questo che, col tempo, mi hai odiata?”
“Se è odio, non lo so. Ma sì, credo sia per questo. Sei contenta? Adesso ne sei a conoscenza anche tu.”
“Adesso lo so” risposi, stordita. Mi abbandonai sullo schienale della sedia.

“Ti sembra una cosa stupida?”
“Per niente. Mi dispiace, sul serio. No… Non avevo idea. Come al solito”
“Già, come al solito” sprofondò nel guanciale, a sua volta.
“Hai sempre pensato che tutto ti fosse dovuto. Le attenzioni, le carezze, la preoccupazione dei tuoi genitori, dei nonni. Tutto.”
“Nella mia testa non era così. In realtà, pensavo che nessuno mi capisse”
“Sei solo una ragazzina viziata, Margherita”
“Forse è così” ammisi.

Dopo, non parlai più; ero troppo confusa e arrabbiata con me stessa per dire altro.
Flora, invece, attese alcuni minuti e poi tornò a guardarmi, prima di aprire bocca.

“Comunque non sei davvero cattiva, Margherita e, forse, certe cose non sono neppure colpa tua, a pensarci. No, non fare quella faccia sconcertata: non sto dicendo nulla per confortarti. Ti sembrerà strano, ma lo penso davvero che tu non sia l’unica responsabile. Di certo non sei quella più colpevole.”
 
Deglutii, cercando di mettere insieme i pensieri e le parole; d’improvviso avevo capito molte cose.

“E’ per questo che sei diventata una specie di creatura perfetta, Flora?” domandai allora, senza badare a ciò che mi aveva appena detto. Soltanto dopo compresi che mi aveva rivolto un complimento, tutto sommato, e arrossii.
Annuì.

“Ho lavorato su me stessa per anni, cercando di essere la migliore. La prima volta che ho sentito la nonna dire che avresti dovuto prendere esempio da me mi sono sentita la ragazza più felice al mondo: finalmente qualcuno mi stava considerando. Ho capito qual era la via da seguire per essere notata e ho continuato in quel modo”
“Ed Emiliano, allora?”

Sospirò a lungo. Ci mise qualche istante per parlare.
“Emiliano è stato l’unico a guardarmi veramente, quando avevo diciassette anni. Mentre tutto il mondo correva e mi lasciava indietro, scordandosi pure il mio nome, lui mi cercava. Per lui contavo qualcosa. Poi, negli anni, ha preso una strada diversa rispetto alla mia, ma io non ce l’ho fatta a lasciarlo andare per i fatti suoi. Non potevo dimenticarmi di chi non si era mai dimenticato di me, neppure quand’ero una ragazzina invisibile”
“Alla fine la sua strada è diventata anche la tua.”
“Più o meno. Emiliano ha cercato di uccidermi eppure è stata l’unica ancora di salvezza che abbia avuto. Nel suo mondo potevo smettere di essere la ragazzina perfetta che conoscevate voi, potevo fare a meno di quella maschera che mi serviva per farmi notare dagli altri. Nel suo mondo avevo diritto a piangere senza problemi, a fumarmi una canna per allontanare i guai. Ovviamente, tuttavia, quel che facevo con lui doveva restare un segreto o avrebbe rovinato la faccia perfetta che avevo creato per voi. E così è andata finché... Finché la vita non ha deciso al posto mio che era venuto il momento di smetterla e scoprire le carte. Ecco come sono andate le cose, Margherita, adesso sai tutto.”
 
Piansi, questa volta sul serio.
Non avevo mai ascoltato il racconto di una storia d’amore più bella. Una storia in cui i protagonisti si facevano forza l’un l’altro pur di non soccombere al mondo, per poi uccidersi a vicenda, divorati com’erano dai loro stessi mostri. Eh sì, era bella quella storia perché era reale. Imperfetta. Piena di sbavature, come il rossetto che sporcava la bocca di Flora il giorno dell’incidente.
Vera, perché, nonostante il dolore, non si erano mai allontanati.
 
“Anche se non lo dici, so che lo ami Emiliano.”
“C’è bisogno davvero che usi le parole per farti intendere che l’unica cosa che m’importa è che torni da me?”

Aveva gli occhi pieni di lacrime.

“No, certo che no.”
“Bene.”


Un’altra infermiera fece capolino dalla porta. Mi guardò male, infischiandosene del mio cognome, stranamente.

“Signorina, per favore, devo chiederle di uscire. La signorina Gherardi ha bisogno di riposare un altro po’ e fra poco il dottore verrà a controllarla. Potrà tornare a mezzogiorno, quando comincerà l’effettivo orario delle visite.”

Calcò molto su quell’ultima frase, soprattutto dopo aver notato gli occhi lucidi di Flora.
Forse aveva ragione: era meglio lasciarla in pace per un po’.

“D’accordo” mormorai allora. La donna annuì, compiaciuta, ma non andò via: si posizionò sotto l’ingresso nell’attesa che ubbidissi


“Devo andare adesso, Flora…”

Schiarii la voce: stravolta com’ero, faticavo anche a parlare. Florinda mi guardò e per un attimo, solo per un attimo, mi parve di cogliere come un’inaspettata luce di comprensione nei suoi occhi. Io, che mi sentivo mortificata e profondamente dispiaciuta dopo la sua lunga confessione, riuscii a rincuorarmi per un istante davanti a quello sguardo.

Mi allontanai di qualche passo, verso l’infermiera che mi osservava accigliata. Allora, Florinda mi richiamò:

“Margherita?”

Mi voltai molto lentamente. Mi sembrava di vivere a rallentatore.
 
“Sì?”
“Andrai da Emiliano?”
“Forse sì” ammisi: avevo bisogno di andare da lui. Era come se il contatto con Emiliano potesse purificare anche me. Lo so, è una cosa stupida, ma io ci credevo davvero.
“Bene. Allora salutamelo.”
“D’accordo”


D’accordo, lo farò.


“Ah, Margherita?”
“Sì?”
“Non sei cattiva, comunque, davvero.  Te lo ripeto. Anche se mi stai discretamente sulle scatole”

 
 
Mi venne da sorridere, nonostante tutto, e anche a Florinda.




 
***
 
 


Buongiorno Emiliano.
Sono qui accanto a te oggi, ti tengo la mano.
Tu non ti svegli mai.
Florinda ti manda i suoi saluti. Sono venuta apposta per dirtelo e anche per farti un po’ compagnia.
E’ buffo sai? Non abbiamo mai parlato così tanto noi due,
neanche quando venivi con i tuoi genitori a casa mia
e prendevi il tè o la torta al cioccolato in veranda con me, Ludovico e Flora, quando c’era.
Te li ricordi quei pomeriggi?
Io sì, un po’ sì. Più che altro, ricordo la tua espressione da buffone; avevi proprio la faccia di uno che prenda per il culo il mondo intero.
C’avevi pure ragione: quelle cordiali visite altoborghesi puzzavano di vecchio. Di falso, di ammuffito.
Come lo erano i nostri genitori, come lo sono ancora.
Forse tua mamma si salva però; l’ho rivista all’ospedale, viene a trovarti
tutti i giorni. Ne avevo un po’ scordato la fisionomia; mi chiedo adesso come abbia fatto: è troppo bella per essere dimenticata.

Non lo so poi com’è andata a finire la cosa, sai? Non ricordo perché non ti ho visto più a casa mia.
Intendo che adesso lo so, ma non focalizzo il momento in cui le tue visite si sono fatte più rare, la tua faccia da schiaffi ha cambiato espressione, il tuo sorriso è diventato una smorfia triste che è poi scomparsa nel susseguirsi dei miei giorni.
Davvero, non lo so.
E non so perché adesso ti sto parlando. Spero che mi ascolterai, comunque.

Andrea è passato a salutarti. Penso che tu sia un disgraziato e gliene abbia fatte passare tante, ma credo anche che ti abbia perdonato quindi vedi di riprenderti, così potrai ringraziarlo con un bell’abbraccio e delle scuse sincere.

Florinda non mangia, invece, ed è diventata più magra di come la ricordi tu. Probabilmente le manchi, ma non può venire a trovarti con quel pezzo di legno che si ritrova al posto della gamba.
Sì, credo davvero che la gelida Florinda Marina Gherardi stia soffrendo per amore. E per te.
E’ incredibile come quel che ti uccide possa anche regalarti la vita se ci rifletti, vero? Probabilmente tu eri una disgrazia per lei, una minaccia, un tormento, un incubo, la persona peggiore che potesse capitare sulla sua strada. Chissà quante ne avrete combinate assieme e cosa avrete fatto, di preciso. Non voglio neanche immaginarla la vostra vita sballata.
Eppure, l’hai raccolta e curata e nel vostro amore malato, lei ha avvertito che qualcuno le voleva bene e si è salvata dal cuore di pietra che le stava crescendo dentro. Lo stesso dev’essere accaduto a te.
Devi riprenderti, allora. E devi vedere di combinare qualcosa di buono per voi due.
Non ti dico che ti darò una mano in questo, sono una frana nelle faccende d’amore; pensa a quanto siamo imbranati insieme io e il mio Andrea e te ne renderai conto. Però credo nel vostro amore anomalo e spero che questo ti basti.

Oggi c’è il sole, Emiliano. Fa una caldo bestiale e fra meno di quindici giorni ho la maturità. Chissà se maturerò davvero, se diventerò più grande. Secondo me è proprio una scemenza, questa.
E comunque, per ciò che mi riguarda, questo mio venire a parlare con te ogni volta che posso è proprio stupido. Tanto lo so che, quando ti sveglierai – perché lo farai – non ci calcoleremo più. Tu non ti ricorderai di tutto questo e io sarò troppo imbarazzata per fartelo tornare in mente.
Però, nel frattempo, a me sta cosa fa stare bene e spero pure a te.
Almeno ci facciamo compagnia, no? E poi la mia giornata è stata proprio pesante. Mi sa anche la tua.

Ciao Emiliano, torno a casa a studiare, adesso. Quantomeno ci provo.
 Fatti trovare sveglio la prossima volta che ci vediamo, per favore.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.Canzone di Cyndi Lauper
2.Per questa frase, mi sono ispirata alla canzone You’ll follow me down degli Skunk Anansie





 
Non è il massimo dei capitoli, lo so, ma non sapevo renderlo meglio e alla fine ho preferito pubblicare. Non so neanche se definirlo di transizione, ma non credo visto che si scoprono parecchie cose.
Non è betato e mi scuso per gli orrori che certamente troverete xD
Grazie alle 4 splendide ragazze che hanno recensito lo scorso capitolo e grazie a tutte voi per il calore che mi dimostrate nei confronti di questa storia, anche sul gruppo.
Siete fantastiche :’)

Vi lascio il link al gruppo, se volete chiacchierare con me:
In the Sky with Diamonds
A presto!
Matisse

PS: non credo di averlo mai fatto, quello ve lo faccio notare ora: soltanto quando il POV è di Margherita uso la prima persona. Per tutti gli altri POV sempre la terza, per accentuare l'idea che sia comunque Meg la protagonista di tutto, quella da cui parte e dove finirà questa storia :)

 
 
   
 
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