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Autore: Artemisia17    04/11/2012    3 recensioni
Le parole sono plastiche, come il ferro nel fornace di un fabbro, così gli spiegava. Possono diventare lame affilate e sottili, che non lasciano vie di scampo, la luce purpurea che illumin a giorno il viso del condannato.
E anche soffici, quasi immateriali, delicate come la pelle di un neonato. Ti possono sviare, far credere in cose impossibili, farti amare. Ma soprattutto fanno rivivere. Eventi capitati decenni prima oppure mai avvenuti, imprese gloriose compiute millenni orsono o nella nostra mente.
Tutto. E niente. Tutto può essere creato. Niente può essere distrutto. Hodor ci credeva.
Mia personale versione sull'origine di questo personaggio secondario e spero che il risultato vi piaccia. Personalmente credo che sia una delle mie più belle storie, ma lascio ai lettori l'ardua sentenza.
Buona lettura a tutti!
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hodor, Nan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Walder aveva sempre avuto paura del buio. Era una cosa istintiva, che ormai faceva parte di lui come una vecchia compagna di avventure.
A dire il vero, tutti gli abitanti di Grande Inverno si domandavano come quel bambinone grande e grosso, che prometteva di diventare un gigante, potesse avere paura di una cosa così semplice e quotidiana. Era un vero mistero.
Solo la madre e il padre del sottoscritto non si ponevano simili questioni, d’altra parte aveva altro a cui pensare. James e Kath erano i discendenti dei primi abitanti della Grande Fortezza del Nord, ma erano comunque dei contadini, uno dei mestieri più difficili oltre l’Incollatura.
Gli inverni erano sempre più lunghi e freddi, le estati più fresche e brevi che negli altri regni e all’arrivo delle prime nevi, il terreno diveniva coriaceo e duro, impossibile da lavorare, pena il danneggiamento degli utensili.
Quante volte il povero James era tornato a casa, sbattendo sul pavimento di nuda terra una vanga deformata dall’urto.
Quante volte Walder e i suoi fratelli avevano osservato mesti il paiolo vuoto, senza alcun alimento a riempirlo.
Il piccolo gigante era solo l’ultimo di una grande nidiata, la maggior parte dei suoi fratelli lavorava già nei campi e sua sorella maggiore era andata in moglie a un abitante degli Umber. Perciò, quando la sua vecchia zia aveva richiesto un aiuto per le sue vecchie ossa, lo avevano spedito all’interno della fortezza, confidando per lui in del cibo e un posto caldo.
La vecchia Nan, così la chiamavano tutti, era già vecchia prima che Walder nascesse eppure conservava ancora una mente pronta e operosa.
La nonna e il nipotino passavano la mattinata a raccogliere delle erbe, nei pressi dei Grandi Boschi. Il bambino adorava quel momento, molto più interessante del pomeriggio, in cui si doveva allenarsi con gli altri ragazzi del castello, lui, costantemente preso in giro per l’altezza. Se con i suoi coetanei si sentiva goffo e ottuso, tra le alte querce nodose, Walder si sentiva a casa. E lì, tra il vecchio muschio dalle proprietà terapeutiche e l’odore persistente e familiare dell’humus, la vecchia Nan raccontava.
Era la sua particolare capacità, il dono che gli Antichi Dei avevano deciso di affidargli alla nascita. Le parole sono plastiche, come il ferro nella fornace di un fabbro, così gli spiegava. Possono diventare lame affilate e sottili, che non lasciano vie di scampo, la luce purpurea che illuminava a giorno il viso del malcapitato.
E anche soffici, quasi immateriali, delicate come la pelle di un neonato. Ti possono sviare, far credere in cose impossibili, farti amare. Ma soprattutto fanno rivivere. Eventi capitati decenni prima oppure mai avvenuti, imprese gloriose compiute millenni orsono o nella nostra mente.
Tutto. E niente. Tutto può essere creato. Niente può essere distrutto.
Ogni singola lettera, qualunque parola contiene un significato, una forza nascosta dentro di sé, pronta per il suo padrone. Non sono cattive, neppure buone. Sono il dono degli dei, il simbolo di una libertà che l’uomo tenta costantemente di raggiungere.
Sono il cielo sopra di te, sono la salda terra, il battito di un cuore.
Sono la vita stessa.

Walder non aveva mai studiato presso un maestro della Cittadella, come i giovani figli del Lord, eppure comprendeva, percepiva la magia, la potenza delle parole della vecchia Nan. Di notte, al riparo dalle burla e occhi indiscreti, sognava di diventare come lei. Di certo non sarebbe stato così bravo, sicuramente nessuno lo avrebbe ascoltato, tuttavia voleva sentire quella corrente fluida di potere benefico scorrergli sulla punta della lingua. Sì, forse non ora. Forse, per un solo momento. Forse, mai. Walder, al riparo dalle sue paure, sorrideva.

Dopo diverse settimane, il terrore del piccolo si acuì. E noi tutti sappiamo chi era la responsabile. La sua storia preferita era quella del gigante Hodor. Un tempo, nell’era dei Primi Uomini, nell’istante infinito della magia, i giganti esistevano. Vi erano re, regine, ladri, mostri, ma tra questi spiccava Hodor. Era molto più alto dei suoi fratelli e da tempo si era ritirato nelle Grandi Foreste, dove aveva accumulato un grande tesoro. Lì, lontano dal pericolo degli uomini e del gelo, il guardiano non si accorse della scomparsa della sua stirpe. Così, all’epoca della grande migrazione, Hodor decise di restare. Nascose il suo favoloso tesoro nelle viscere più recondite della foresta, lì dove il sole non aveva mai toccato terra e il buio regnava sovrano e lì si addormentò, nell’attesa della nuova venuta del suo popolo, pronto a risvegliarsi all’arrivo dell’inverno eterno, lui, il guerriero dormiente. Walder passava giornate intere sognando scontri eroici con il vecchio combattente, immaginando il riverbero accecante dell’oro nascosto.
Finché un mattino d’inizio inverno, la stagione che sarebbe passata alla storia come il falso inverno, ogni suo sogno, ogni suo sorriso venne squarciato. La terra dava pochi frutti. L’inverno stava di nuovo arrivando. La famigliola, che abitava quelle terre ben prima degli stessi Stark, doveva partire. Verso Sud, verso la ricchezza del Tridente, forse vero la soavità dell’Altopiano. La vecchia Nan si rifiutò. Quella era la sua terra, la patria dei suoi dei. Lì era nata, lì la terra l’avrebbe ricondotta a sé. Walder sarebbe rimasto con lei volentieri, ormai lontano dalla povertà dei genitori, ma essi decisero altrimenti.

Quella notte nevicò. Walder l’avrebbe ricordata per tutta la vita. Era una di quelle notti che lui odiava. Buia, paurosa, senza luna e senza nuvole. Il nulla più completo. In notti del genere gli spiritelli andavano a bussare alle porte e i giganti si risvegliavano. Il bambino si vestì. Un paio di brache, dismesse da orde di fratelli alti e magri, una maglia di lana presa in beneficenza, forse di un piccolo nobile del luogo, e una giacchetta di panno. Era un vestiario troppo esiguo per una notte come quella, ma il freddo contribuiva a tenerlo vigile. Forse fin troppo. S’incamminò vero le Grandi Foreste. Conosceva quel percorso come le su tasche vuote eppure ogni singolo scricchiolio lo faceva rabbrividire, e non per colpa del freddo.
Un lupo, in lontananza, ululò. Era un’idea stupida. Tremendamente stupida. Le storie della vecchia Nan erano solo delle leggende. Non doveva farlo. Il tesoro, se era mai esistito, era sicuramente già stato trafugato da decenni di ricercatori. Allora perché stava continuando a camminare? Ma, se, invece lo avesse trovato. La sua famiglia sarebbe rimasta. Suo padre si sarebbe comprato una vanga nuova e chissà, magari sua madre avrebbe avuto un nuovo vestito e le sue sorelle molti più pretendenti. Lui sarebbe rimasto con la vecchia Nan e sarebbe potuto diventare un cantastorie.
Tutto sarebbe andato per il meglio.
Un altro lupo rispose al primo. Certo, ma questi erano tutti sogni. Non sarebbe mai successo. Però valeva la pena provare solo per qualche ora, poi sarebbe ritornato a casa, giusto in tempo per la partenza. E se trovava il tesoro? Beh, avrebbero avuto bisogno di un carro.
Un ramo proteso ferì la guancia del bambino, il sangue che colava caldo. Era un’idea deliziosamente stupida. Stupido, stupido, stupido.
Un altro arbusto lo fece inciampare mentre il branco di lupi si faceva sempre più vicino. Ora basta. Poteva bastare. Sarebbe tornato indietro.
Quando Walder si girò, trovò solo le tenebre ad aspettarlo. E la paura. Corse. Veloce. Istintivamente. Stupidamente. Corse, senza una metà, senza una reale motivazione se non i battiti del suo cuore affannato. Finché cadde. Non fu una botta molto dolorosa o sanguinosa, semplicemente si ritrovò a gambe all’aria, senza sapere bene perché si trovasse lì. Gli parve di vedere una strana pietra davanti a lui. Assomigliava a un gigante. Come quelli della Vecchia Nan. Hodor. Il tesoro doveva essere lì vicino. Hodor. Walder svenne. Hodor.
 
Fu proprio la vecchia Nan a trovarlo, riverso a terra. Per molti giorni, rimase in bilico tra la vita e la morte, un sorriso che aleggiava sulle labbra. Probabilmente, senza le sue conoscenze mediche, la nonna avrebbe seppellito il suo ennesimo nipote quell’inverno. Quando Walder si svegliò, Nan capì che qualcosa non andava. Certo, con lei il bambino era sempre stato felice e socievole, ma quel sorriso era quasi grottesco su quelle labbra. I genitori dichiararono che sarebbe stato meglio se fosse morto. Per fortuna, o non, secondo i punti di vista, il bambino non se la prese. Partirono il giorno seguente, senza degnare di uno sguardo il figlio.
Nessuno sapeva che cosa ci facesse lì, dato che l’unica parola che ripeteva era Hodor. La modulava, da alto a basso, da tenore a baritono, la intonava a motivetti in tutte le solfe, quasi volesse comporre dei discorsi con un'unica parola, far rivivere la sua storia con una sola azione speranzosa.
Il falso gelo passò, portando con sé quanto rimaneva della vecchia e onorata famiglia, ormai in rovina. Rimasero solo lui e la vecchia Nan, che in fondo aveva capito l’azione disperata del nipote.
Non gli aveva mai raccontato quanto lui assomigliasse al suo eroe. I lunghi capelli biondi, fluidi come l’oro, le spalle aperte, le braccia operose, gli occhi limpidi come un torrente di montagna. Sì, i due non avevano in comune solo quello. La vecchia Nan non poté fare a meno di sussurrarlo quando vide l’uomo partire con il giovane Brandon in braccio.
Hodor il gigante aveva cercato di salvare la propria gente, frapponendo il suo grande petto alle lance dei Vandali.
Così, il suo piccolo, grande, Hodor stava combattendo con tutto il suo grande cuore per la salvezza del Nord.
Forse non si possono comporre odi e poemi con una sola, infinita, parola eppure essi non possono esistere senza azioni e sacrifici di uomini e donne. Senza l’amore, senza la vita, senza l’uomo, con tutti i suoi pregi e le sue virtù, le parole non hanno ragione d’esistere. E con esse la vita.
Lui faceva parte della corrente magica che aveva così desiderato da piccolo, solo, in un altro lato.


Ok, questo è tutto. Fatemi sapere che cosa ne pensate e mi scuso in anticipo se troverete degli errori, anche se ho controllato un paio di volte. Spero che vi sia piaciuta o, almeno, vi abbia fatto sorridere. Credo che sia comunque una grandissima soddisfazione per uno scrittore sapere di essere riuscito a far sorridere un altro uomo/ donna/ragazzo/a/neonato/a. Grazie ancora e buon ponte a tutti!
  
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