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Autore: Hastatus    04/11/2012    0 recensioni
Uno sbuffo di felicità nella cornice di una grigia metropoli
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Grigia città.

 
Era quasi il crepuscolo. Il Sole si trovava diviso a metà dalla linea dell’orizzonte; metà celato, metà brillante di rossa luce soffusa. Peccato che l’orizzonte, e quindi nemmeno la sagoma del Sole, si potessero osservare da quel sottopassaggio di cemento umido e grigio, tappezzato di graffiti e di bottiglie di vetro vuote. Paul si trovava proprio in quel luogo così squallido. Stava percorrendo il tragitto che  separava il luogo dove lavorava, un ufficio postale, dal suo appartamento. Le mani ficcate in tasca, camminava lungo un filo di marciapiede della cui esistenza, probabilmente, ogni automobilista della città era all’oscuro.
Paul camminava conscio della tristezza e del degrado che quel posto emanava da ogni angolo, ma ormai ci aveva fatto il callo. Uscito da una difficile situazione economica familiare, aveva cercato per settimane un lavoro dopo essersi diplomato: un lavoro qualunque, purché si allontanasse dalla casa dov’era nato. Ecco allora che aveva accettato al volo, non senza entusiasmo, quel modesto impiego all’ufficio postale che gli permetteva di vivere dignitosamente, con qualche piccola difficoltà, come l’imposta d’affitto del suo appartamento, che tuttavia ora gli pareva veramente il minimo da sopportare. Era felice di essere indipendente, ma si sentiva dannatamente solo e in fondo, anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, un po’ abbandonato a se stesso.
Non possedendo l’auto (era una spesa che non era assolutamente in grado di sostenere), andava e tornava a piedi ma tutto sommato non gli dispiaceva camminare un po’ ogni giorno, dopo il lavoro febbrile cui era sottoposto. Insomma: era soddisfatto, benché non si potesse certo definire realizzato.
Percorso il sottopassaggio, svoltato l’angolo della strada asfaltata e attraversati quattro incroci, arrivò a casa: un condominio cubico in cemento con miriadi di finestre e tende, grigio scuro con macchie oleose qua e là sui muri. Spalancò il portone di vetro scheggiato assorto nei suoi pensieri, salì le scale (che odoravano fortemente di benzina) dato che non sopportava l’ascensore (che comunque funzionava male) e finalmente arrivò alla porta di legno che lo separava dalla desiderata cena e dal letto: girò la chiave, entrò, e si sentì sollevato per la prima volta da dieci ore.
Si rammaricò di non possedere un animale domestico, un cane o un gatto, che gli facesse almeno presentire un po’ d’affetto dopo una giornata faticosa, che lo rallegrasse sapendo di avere qualcuno che lo aspettava in casa. Pensò di cercarne uno in qualche negozio; poi si ricordò che non sarebbe stato umano lasciarlo solo per ore mentre lavorava. Si tolse la giacca un po’ accigliato, e si diresse in cucina con in testa solo il piatto ancora vuoto e il desiderio di riempirsi lo stomaco. Divorate le sue lasagne vecchie di due giorni, lesse qualche pagina di giornale seduto a tavola, e poi andò a letto, dove crollò seduta stante, spossato.
 
*
 
La mattina successiva Paul si trovava di buon’ora per strada, in modo da poter comprare il giornale mentre camminava. Lo avrebbe letto solo alla sera. In mezzo a tutto quel traffico uniforme e agli edifici squadrati e monotoni nel paesaggio, Paul riusciva a percepire l’avanzare della nuova, bella stagione: la primavera era alle porte, come indicavano le gemme nei rami dell’unico albero che Paul avesse mai visto da quando si era stabilito lì un anno prima. Forse quindi per il cambiamento di stagione, forse per qualche altra causa a lui ignota, Paul si sentiva decisamente di buon umore. Attraversò gli incroci godendosi appieno l’azzurro del cielo e il tepore che cominciava a percepirsi, alieno allo strombazzare dei clacson e al rombare dei motori.
L’ufficio postale si trovava verso la parte che poteva definirsi la più civilizzata della città, nel senso che era il luogo dove si poteva passare del tempo libero, pur possedendone qualche lasso, in un’atmosfera che non fosse del tutto sgradevole: un marciapiede largo abbastanza per far passare qualche fila di pedoni aveva dal lato opposto alla strada una serie di negozi, qualche locale e degli edifici pubblici.
Paul sapeva che molti suoi colleghi di lavoro amavano fare colazione in un bar. Lui preferiva farla a casa, rischiando che il latte non bevuto andasse a male, perché non riusciva a trangugiare nulla sapendo d’esser di fretta e in mezzo a una calca pressante. Quindi, anche quel mattino, passò davanti a una serie di locali nei quali si poteva osservare tutta l’eterogeneità di volti del posto che mangiava ciambelle, beveva caffè dozzinali e rispondeva febbrilmente al telefono.
Osservare le persone per strada era uno dei pochi passatempi che Paul si concedeva, e che gli aveva formato la spiacevole abitudine di fissare, anche a lungo, i passanti, che a volte se neaccorgevano irritati e fulminavano con lo sguardo il povero ragazzo. Non aveva molto tempo da spendere in divertimenti.
Passò di fronte a un locale piuttosto frequentato, lo “Shining Break”: piccolo e un po’ angusto, si doveva rimanere in piedi a consumare qualunque ordinazione. Anche quel giorno era accalcato, e Paul non se ne stupì affatto, finché non udì uno sbraito parecchio sonoro provenire dall’interno, e un forte rumore di porta sbattuta.
 
“Idiota! Idiota!
 
“…mi scusi, io…”
 
“ ‘Mi scusi’, ‘mi scusi’ per niente! Ma guardi cos’ha combinato!”
 
Voltatosi, Paul vide che dal locale erano usciti un uomo di mezza età vestito di un completo giacca e cravatta costoso e impeccabile, se non fosse stato per un’ampia macchia di caffè in pieno petto.
Una ragazza, di fianco a lui, sembrava sull’orlo delle lacrime dalla disperazione.
 
“E’ stato un incidente, non l’avevo vista e ho colpito la sua tazza…”
 
“Non mi’importa!”, sbraitò l’uomo fuori di sé dalla collera, “Le costerà caro, ah, le arriverà il conto di tutto il completo se non riuscirò a smacchiarlo, e solo Dio sa se sarà possibile!”
 
“La prego, io…”
 
“Arrivederci!”
 
L’uomo si allontanò a grandi passi, rosso in volto e visibilmente irritato. La ragazza rimase al suo posto, vedendolo andare via, con un’espressione davvero sconsolata sul suo volto dai lineamenti un po’ duri. Dagli occhi castani fecero capolino due lacrime, e Paul si chiese quanto fosse abile a celare il pianto, visto che le ricacciò all’indietro abilmente tirando su col naso. Rassegnata, scosse mestamente il capo dai capelli castano chiaro, e si avviò a testa bassa nella direzione opposta.
 
Paul rimase fermo dov’era per almeno un minuto, osservandola allontanarsi. Poi anche lui se ne andò, come svegliatosi di colpo da un sogno ambiguo: indignato dal comportamento dell’uomo, si avviò al lavoro scuotendo il capo in segno di piena disapprovazione.
Mai una giornata passò così velocemente per Paul: di colpo si fecero già le sei di sera, e il suo turno finì. Per tutto il giorno il suo pensiero di fondo era stato l’avvenimento del mattino, non tanto per le sue modalità di svolgimento, quanto perché aveva infranto la quotidiana routine cui era ormai avvezzo. Tornò a casa più assorto del solito (inciampò due volte sugli scalini del marciapiede) e quella sera mangiò poco. Dormì pure male: continuava a rigirarsi. Imputò il tutto al cambio di stagione che stava per avvenire, e infine si addormentò, sprofondando in un sonno inquieto.
Nei giorni seguenti, come obbedendo a un istinto prima sconosciuto, Paul transitava regolarmente davanti al locale del diverbio cui aveva assistito. Non che prima non lo facesse, era tappa obbligata; ora aveva però la costante necessità di osservare al suo interno mentre passava, con la speranza di poter vedere nuovamente o l’uomo di mezza età o la ragazza. Rivide un paio di volte l’uomo, con un completo nuovo e candido, ma la ragazza non si fece più trovare. Ogni volta che Paul non l’incontrava, se ne andava sbattendo con violenza le palpebre per una sorta di misteriosa sorpresa.
 
Tre giorni dopo, Paul serviva un’anziana signora malconcia che doveva pagare un bollettino postale, e che non capiva un accidente su come dovesse farlo. Paul provò una grandecompassione nei confronti di quella donna così impacciata, ma questa svanì di colpo quando passò al successivo occupante la fila.
Era la ragazza del bar.
Paul rimase interdetto per dei secondi sufficienti a farsi osservare da lei con aria interrogativa. Poi, scuotendosi e abbassando lo sguardo, riprese nuovamente vita.
 
“P…prego?”, balbettò indistintamente.
 
“Salve, devo pagare questo”, rispose lei con voce limpida e sommessa, spingendo una busta di fattura sotto allo sportello in plexiglass.
 
“Sì, certo. Dunque”
 
Paul sbrigò la faccenda tremando come una foglia. La ricevuta gli scivolò tra le mani un paio di volte, e sbagliò a contare le monete del resto. Terminata la pratica, vide con delusione la ragazza andarsene salutandolo con un freddo accenno di “buongiorno”.
Il ragazzo terminò di occuparsi della fila di gente che aveva di fronte controllando l’orologio con frequenza elevatissima: mancavano dieci minuti alla fine del suo turno, e si stava maledicendo in tutte le lingue che conosceva per non avere un orario appena più breve per poter uscire subito. Ad ogni modo, dopo cinque minuti le speranze di incontrare nuovamentela ragazza una volta uscito erano divenute minime. L’orario di lavoro terminò, e Paul si rimise la sua giacchetta assieme a una desolazione che non provava da molto tempo.
Uscì dall’ufficio che il Sole stava calando, proprio come il suo morale. Non sapeva cos’aveva pensato di poter fare, e soprattutto non ne sapeva il motivo. Avrebbe voluto forse rincorrerla? E per chiederle cosa? Forse, pensò, era stata la pietà che aveva provato nei suoi confronti tre giorni prima a spingerlo ad avvicinarsi a lei in qualche modo. Comunque fosse, ormai se ne era andata, e lui, come sempre, se ne tornava a casa da solo.
Si bloccò di colpo come se gli fosse crollata una tegola sul cranio. Dall’altro lato della strada, un marciapiede; sul marciapiede, una cabina telefonica dai vetri incrinati e luridi; dentro la cabina telefonica, lei.
Il ragazzo si trovò per un paio di minuti nel panico più completo. Ora non aveva davvero idea di cosa fare: andare lì e far finta di dover telefonare sembrava piuttosto stupido, visto da fuori, e scartò l’ipotesi. D’altra parte, sprecare un’occasione andandosene sarebbe stato semplicemente da autolesionisti.
Scelse un compromesso, e finse di aspettare un autobus inesistente e di cui comunque non possedeva nemmeno il biglietto.
Sbirciava di tanto in tanto nella cabina, e vide la ragazza che telefonava. Aveva un’espressione tesa, e pareva un po’ agitata nel parlare. Infine, dopo qualche minuto, attaccò la cornetta e si avviò a passo svelto per strada. Paul agì d’istinto: la seguì.
Temeva di apparire come un fissato o un disadattato, se l’avesse notato, ma era come attratto da un campo magnetico invisibile, e non aveva la minima idea di come sarebbe andata a finire. Poi, i pianeti si allinearono, l’asse terrestre si capovolse e tutto funzionò all’inverso di come Paul avrebbe mai supposto.
La ragazza estrasse il portafogli per chissà quale motivo e, mentre frugava in esso, uno spicciolo cadde da quello e finì a terra, rotolando all’indietro, verso Paul. Lei si chinò per raggiungerlo, ma Paul obbedì ancora a una legge irrazionale, poiché lo raccolse lui stesso e, fulmineamente, lo porse a lei, che lo osservò con tanto d’occhi.
 
d’accordo”, pensò Paul, “la frittata è fatta. Faresti meglio a scomparire o sprofondare all’istante”.
Lei colse la moneta dal palmo di Paul, che percepì con forza il lieve tocco della sua mano.
 
“Grazie”, disse lei, con un mezzo sorriso un po’ titubante. Paul pensò di sfuggita che non fosse abituata a certe cortesie, se così potevano essere definite. “Prego”, rispose, in un modo che giudicava decisamente stupido.
 
“Lei è quello delle…”
 
“Sì”, rispose Paul alla domanda che aveva mozzato parlando, pentendosene subito dopo. “Voglio dire, sono io quello delle poste”.
 
Rimasero in silenzio per qualche secondo, entrambi fermi, guardandosi a vicenda.
 
“La prossima settimana mi rivedrà…devo sbrigare altre pratiche”, esordì lei infine.
 
Paul annuì. “D’accordo”, rispose, e sorrise: percepì estraneo il movimento del proprio viso, non lo faceva da secoli. “Sarà un piacere”, aggiunse, senza sapere bene il perché.
 
Lei sorrise ancora, e si voltò lentamente per andarsene. Lo stesso fece Paul, ma resisté solo qualche istante; si rivoltò di colpo e con sua profonda sorpresa scoprì che lei aveva fatto lo stesso. Un baleno gli attraversò il cervello, e fu cosciente che il giorno successivo era festivo, sabato.
 
“Le andrebbe di bere qualcosa assieme domani?”
 
Paul ebbe la indubbia consapevolezza di essere completamente uscito di senno. Ora era a un tanto così da prendere armi e bagagli e fuggire senza voltarsi indietro.
Dopo un momento di sconvolgimento totale, lei rispose, e Paul planò anima e corpo sulla Luna.
 
“Per domani mattina, va bene”
 
Ancora una pausa.
 
“Qui alle 9:00…?”, azzardò Paul in uno slancio di follia.
 
“…Mezz’ora prima è un problema?”
 
“Nessun problema”
 
Di nuovo silenzio.
 
“Buonanotte”, disse lei, e se ne andò dopo aver squadrato Paul con un’espressione totalmente indecifrabile per un secondo interminabile.
Paul non fu in grado di rispondere a voce: alzò una mano in segno di saluto, ma ormai lei si era già voltata. Nelle sue orecchie risuonava una qualche musica indescrivibile, cosìcelestialmente terrena.
 
*
 
Il display della radiosveglia segnava le sei meno un quarto del mattino, e Paul era già sveglio da almeno un’ora. Quella notte aveva dormito veramente poco, eppure non si sentiva per niente stanco; anzi, l’unica sensazione che provava era un nervosismo compulsivo. Decise che era inutile star lì a rigirarsi come un’anguilla spiaggiata, e si alzò. Quella mattina non ebbe bisogno del suo solito caffè mattutino, e buttò giù a fatica un paio di biscotti e un sorso di latte caldo, che comunque gli dette la nausea. Poi si vestì, e uscì, nonostante non fossero nemmeno le sette.
Fuori dal portone del condominio, si accorse che all’alba quel triste paesaggio riacquistava un minimo di dignità, complice l’aria primaverile giunta da poco. Il cielo era roseo, e gettava sull’asfalto e sugli opachi tetti degli edifici una luce fioca ma permeante ogni cosa.
Paul allungò di tantissimo il suo solito percorso, visto l’anticipo che la sua angoscia gli aveva procurato. Mentre camminava, operò inconsciamente un auto - interrogatorio in stile poliziesco contro la propria coscienza.
 
“Sai cosa stai andando a fare?”
 
Sì”
 
“Bene. Hai una vaga idea del perché lo fai, allora?”
 
“Qui mi freghi”
 
“Proviamo a ragionare. Speri che possa divenire una cliente fedele se ne diventi amico?”
 
“Questa è una pura idiozia. Hai domande più intelligenti?”
 
“Be’…potrebbe semplicemente attrarti”
 
“E che cosa diavolo significa?”
 
“Che sei davvero senza speranze”
 
Queste ultime parole le pronunciò a mezza voce tra sé e sé. Continuò la sua camminata, procedendo forzatamente lento per perdere del tempo, il quale pareva tendersi e allungarsi progressivamente in modo da far sembrare lunghi delle ore dei semplici, piccoli minuti.
Paul arrivò con un buon quarto d’ora d’anticipo sul luogo prescelto, che in quel momento gli parve il più malvagio teatro di tortura che si potesse immaginare. Sedette sul bordo del marciapiede, e aspettò, fremente, battendo i piedi e grattandosi il naso in continuazione.
Passarono cinque, dieci, quindici e venti minuti, ma non passò nessuno che conoscesse: la strada cominciava ad affollarsi, nonostante vi fossero meno auto nei finesettimana.
Alle otto e quaranta, Paul perse tutte le speranze, e il suo cervello cominciava a maturare l’idea di disilludersi e andarsene a casa a compiangersi. Si prese la testa fra le mani, e con essesi coprì gli occhi, in un atteggiamento a metà fra la stanchezza e la frustrazione.
 
“…Sonno?”
 
Paul ebbe un tuffo al cuore che lo scosse fisicamente. Scattò in piedi come una molla, e si voltò di colpo verso il punto da cui proveniva la voce.
Era lei, e lo stava guardando. Paul avvampò, e non notò il colorito roseo che andava diffondendosi sulle guancie della ragazza.
 
“No, no”, rispose subito, “sono sveglissimo”.
 
“Dove…dove andiamo?”
Dopo qualche secondo in cui, fra il marasma che si ritrovava in testa, riuscì a pensare che dovevano trovare un luogo dove bere qualcosa, Paul non riuscì a proferire proprio nessuna parola.
 
“Potremmo prendere un tè lì in fondo…magari possiamo chiederlo da portar via e…fare due passi…?”
 
Paul s’illuminò. “E’ un’ottima idea…ehm…”
Improvvisamente s’accorse di non avere la minima idea di come la ragazza si chiamasse: era troppo preso a contemplare la sua snella figura rivestita di comune, ma che ora gli pareva diafana, stoffa verde chiaro. Rimase in sospeso qualche secondo.
 
“Mi chiamo Elizabeth, Lisa se vuoi”
 
“Oh”, borbottò Paul in totale imbarazzo. “Va bene…Lisa”.
 
Lei sorrise, e a Paul si contorsero le viscere.
 
“Andiamo?”
 
E così presero un tè in due bicchieroni di carta; poi s’avviarono per passeggiare. Si diressero verso la zona più isolata della città, fatta di strade parallele e perpendicolari, dove generalmente vi erano poche auto e poche persone.
 
“Da quanto ti trovi qui?”
 
Lisa interrogò Paul dandogli del tu con naturalezza, e lui ne fu sollevato: non voleva chiederle di poterglielo dare a sua volta, e ora era più tranquillo.
 
“Sono qui da un anno, più o meno”, rispose, sentendosi appena più sciolto per dare altre informazioni sul suo conto. “Sono venuto appena ho avuto la conferma per l’impiego all’ufficio postale”. Poi azzardò di porre lui stesso una domanda. “E tu?”
 
Lisa sorrise di un sorriso triste. “Sono qui da poco meno di tre anni”. Paul fece per chiederle (non senza timore) cosa l’avesse portata lì, ma lei lo anticipò. “Vivevo sola con mio fratello maggiore, ma una volta che si è sposato ho dovuto cercare lavoro in fretta e furia…e anche una casa, visto che la casa di famiglia apparteneva a lui”.
 
Paul non era preparato a una confessione completa come quella, e non seppe affatto cosa rispondere; quindi si limitò a osservare Lisa.
 
“Scusami”, continuò lei, abbassando lo sguardo a terra. “Non conosco personalmente nessuno qui, cioè, non conosco nessuno con confidenza…ti conosco da appena dodici ore e già ti racconto la storia della mia vita”
 
“Nemmeno io conosco nessuno”, rispose Paul incantato. “Però…”, qui si bloccò, in preda a un vuoto di parole per esprimere quel che provava.
 
“…Speri di averne trovato uno ora”, completò Lisa.
 
Paul la osservò per un istante, fermandosi. “Già”, rispose. Lisa sorrise abbassando lo sguardo.
Non confermò nulla a parole, ma Paul capì che quello era un “d’accordo”, e seppe che anche lei si chiedeva la stessa cosa. Scoprì di essere del tutto d’accordo, e sorrise di nuovo, con quel movimento che gli era tanto estraneo.
 
“Direi che ora tocca a me”, proseguì, e raccontò le circostanze che lo avevano portato a stabilirsi lì. Lisa lo ascoltò avidamente, manifestando con gli occhi una profonda comprensione.Mentre raccontava, Paul fu affascinato dalla forza di quel suo sguardo.
 
Continuarono a passeggiare, bevendo quel che restava del tè che avevano comprato, addentrandosi sempre più nel gomitolo di vie che costituiva la zona industriale, deserta, finché decisero di sedersi in una panca di legno che dava sulla strada; e continuarono a parlare, a raccontarsi a vicenda, a lingua sciolta. Paul si accorse che si stava aprendo interiormente più di quanto non avesse mai fatto in vita sua.
Alzatisi, percorsero la strada del ritorno: ormai erano passate tre ore e mezzo, ed era arrivato il momento di salutarsi. Un rapido scambio di indirizzi e di numeri di telefono, e poi l’arrivederci.
 
“Quando…quando vuoi. Sono sempre libera nei finesettimana”
 
“Anch’io”, rispose Paul, in agitazione.
 
“Allora…arrivederci”
 
“…Arrivederci”
 
Lisa sorrise a Paul, e lui colse come un’istantanea quell’immagine. Poi, voltatasi, se ne andò lentamente, la sua veste verde ondulando al vento.
Paul rimase dov’era. Quando Lisa fu scomparsa alla vista, fissò ancora per un po’ il punto dove era sparita, poi si voltò verso la zona industriale dov’erano stati. All’orizzonte, molte alte ciminiere striate di rosso sbiadito fumavano; più vicino, stabili bassi e regolari, di colore piatto e uniforme, si stagliavano ai lati delle strade abbandonate a se stesse. Quella visione così degradante e avvilente, parve però a Paul, in quel momento, la più densa di sentimento che potesse esservi al mondo.
Si avviò a casa, completamente assorto. Entrato nel suo appartamento, si tolse la giacca leggera che portava e, mentre la appendeva al gancio, si bloccò, sospeso. Poi, scuotendo la testa in segno di disapprovazione contro se stesso, la appese definitivamente.
 
“Domani mi compro un pesce rosso”.
 
  
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