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Autore: Marguerite Tyreen    05/11/2012    1 recensioni
[Deep Purple]
-Qualunque essa sia, io vorrei essere come quella stella, Cov.
-Lontana, Tommy? - lo guardò perplesso, attraverso le lenti degli occhiali.
-No, luminosa. Tranquilla. Capace di brillare di luce propria, senza temere l'oscurità.

***
Nel 1976 i Deep Purple si sciolgono. Il chitarrista Tommy Bolin muore pochi mesi dopo in una stanza d'albergo, il cantante David Coverdale intraprende la propria avventura personale con i Whitesnake, mentre il bassista Glenn Hughes comincia un periodo errante tra viaggi, straniamento e ricerche di qualcosa che non trova.
Ma la nostra storia prende il via nel 1989, quando Coverdale, per mettere fine al peregrinare sofferto di Hughes, ormai rimasto senza lavoro nel panorama musicale, gli offre una collaborazione nel suo ultimo disco. E si sa, la memoria è un vento impetuoso, pronto a travolgere qualunque cosa...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Giusto due parole, prima di dileguarmi e lasciarvi al capitolo ^^
Nella prima parte, credo di essermi presa vagonate di licenze poetiche su come andò effettivamente l'audizione di Bolin, ma dovendo scegliere tra il - poco e contrastante - materiale che sono riuscita a reperire e la mia personale visione con cui ho immaginato tante volte la scena, ho preferito la seconda, da pessima scribacchina ma onesta fangirl quale sono xD Per quanto riguarda la frase di Hughes sul portarsi a casa il chitarrista, è stata effettivamente pronunciata, come ha dichiarato in un'intervista: 
"It was the very first time I saw Tommy (...) He came into the rehearsal studio and I saw him and shouted: Whatever happens, I'll take you home tonight." ;)
E niente, spero di non mettervi troppa ansia con la parte centrale nè troppa malinconia, in generale ^^"
Un grazie enorme e un bacio altrettanto enorme, 
la vostra Marg.


Many times I've been a traveller 
I looked for something new 
In days of old 
When nights were cold 
I wandered without you.
(Deep Purple, Soldier of fortune) 


Without a thought, without a voice, without a soul
don't let me die here
there must be something more
bring me to life.
(Evanescence, Bring me to life)


 

II. Soldiers of fortune

 

Los Angeles, 1975. Primavera.

Se c'era un problema a stare nella stessa band con David, era la sua ansia. Non che lo desse davvero a vedere ma, dopo quei due anni passati a collaborare, Glenn aveva imparato a riconoscerne i segnali. Era chiaro nel modo in cui si rigirava il bicchiere tra le mani, prima dei concerti, oppure nella camminata attorno al perimetro della stanza tormentandosi i capelli o le labbra, o ancora nel sorriso che si faceva tirato, solcandogli la guancia sinistra con una piccola fossetta. E, adesso, era particolarmente nervoso e non riusciva a trovare requie.

-Ma ti vuoi calmare? Stai dando sui nervi anche a me.
-E' in ritardo. Gli avevo detto alle nove.
-Sono le otto e cinquanta, David. Non è in ritardo, sei tu in anticipo. Ma davvero non hai altre occupazioni?
-Non ne ho. E tra l'altro, sono tre notti che non chiudo occhio. Se mi capita Blackmore a tiro, giuro che lo strozzo con queste mani per tutte le rogne che ci ha dato andandosene. Lo giuro sulla riserva di Scotch del '57 che mia madre tiene al pub.
-Te la prendi troppo, tu.
-Me la prendo troppo? Se non riusciamo a trovare un chitarrista decente, siamo fottuti, Hughes. Me la prendo troppo perchè siamo stati tutti talmente abituati ad obbedire a Blackmore che abbiamo dimenticato come si tiene la leadership di un gruppo.
-Tutti tranne te. - rise Hughes, rigirandosi tra le mani il nastro con i brani del nuovo chitarrista, che avrebbe dovuto presentarsi allo studio per l'audizione – Di' la verità che da un lato sei contento che il vecchio Blackers abbia tolto il disturbo per prendere le redini della carrozza.
-Per rischiare lo scioglimento e la carriera e tornarmene a vendere stoffa al metro a Redcar? No, grazie. Ambizioso sì, ma non sprovveduto, non più ormai.
-Ma questo Bolin ti convince?
-Ho rotto le palle a Lord a casa, in piena notte, quando l'ho sentito per la prima volta. Quindi sì.
-Fossi stato in Lord ti avrei tirato una secchiata d'acqua. - lo afferrò ai fianchi, trascinandoselo sulle ginocchia – O forse no, avrei solo scostato le coperte nel letto.
-Dai, lasciami. Cazzo, Glenn, aspettiamo gente. Sii serio, per la miseria! Questo Bolin è una specie di genio: sembra che nessun genere abbia segreti per lui. Né il rock, né il blues, né il reggae. Io credo che ci seguirebbe in quel tuo progetto di aggiungere nuove sonorità a quelle tipiche dei Purple, andando oltre la tecnica di Blackmore.
-Sono curioso di conoscerlo, questo tuo genio. - il bassista alzò un sopracciglio, scettico.
Un rumore di oggetti rovesciati e una risata fragorosa ruppero la quiete degli studi.
-Dieci sterline che questo è lui. - commentò Coverdale a mezza voce, premurandosi di scendere dalle gambe di Hughes, prima di rispondere “avanti” ai colpi alla porta.
Sulla soglia apparve una creatura infagottata in una camicia bianca troppo grande, con un foulard avvolto attorno al collo in diversi giri e una chioma ribelle, multicolore, intrecciata a piume. Puntò addosso ad entrambi un paio d'occhi scuri - i più scuri e profondi che Glenn ricordasse d'aver incontrato - studiandoli con attenta discrezione.
La voce era lieve e sottile, l'accento marcatamente americano quando disse: - Sono Thomas Bolin. Tommy. Insomma, quello della chitarra.
Sorrise appena, ma fu sufficiente perchè il viso dolcemente pieno e infantile gli si illuminasse. Posò la custodia a terra, fissandosi poi le punte dei piedi. Socchiuse gli occhi, come se stesse facendo un notevole sforzo di memoria: - Coverdale e Hughes, vero? O è l'inverso? Sono sempre stato un tale disastro coi nomi. Lei è quello che mi ha contattato, giusto?
-Io? - David avanzò di qualche passo, con aria pensosa.
Glenn lo osservò mordersi le labbra, incuriosito. Sembrava essersi completamente smarrito nell'aura delicata ma palpabile di quel piccolo chitarrista dall'aspetto insolito. E, del resto, non riusciva a dargli torto. Se, quando suonava dal vivo, riusciva a metterci la stessa grazia femminea e morbida di quando semplicemente se ne stava in piedi o accennava un paio di parole, allora avrebbe rubato la scena a tutti. Avrebbe incantato tutti come adesso lo stava facendo con loro.
Il bassista sentiva di starlo osservando con insistenza, al limite della scortesia, e pregò che l'altro fosse troppo emozionato per l'audizione da non accorgersene. Non riusciva a farne a meno: era mille miglia lontano dalla sensualità sfrontata di Coverdale, ma era capace di inchiodare lo sguardo di chiunque con un solo svolazzo della mano.
-Lei non è il signor Coverdale?
-Il signor... sì, sì, naturalmente. - rise, un po' impacciato – E' che proprio “signor Coverdale” non mi si addice. Mi pare di sentir chiamare mio padre. - gli tese la mano – David. E poche formalità, è meglio.
-E' meglio davvero. Voglio dire, da noi in America è tutto molto più... easy goin'
, ma con voi Inglesi non si sa mai come muoversi. - scherzò Bolin, stringendosi nelle spalle, prima di presentarsi a Glenn.
Aveva le dita sciupate di chi suonava da una vita ed un sorriso accomodante e amichevole, ma quando il bassista ebbe i suoi occhi così vicini, per un attimo credette di vedere una ferita, un abisso oscuro in cui sarebbe stato facile precipitare, in cui forse egli stesso stava precipitando. Lo notò chiaramente, perchè era la stessa martellante, ossessiva fiamma di distruzione che anche lui sentiva dentro, le notti in cui la troppa luna finiva per schiarire i pensieri. Nonostante la bellezza soave e ispirata, Bolin non era luce. Non era luce piena, ma quel sole malato che è sempre inseguito dalle ombre, da una fitta rete di nubi pronte ad addensarsi. Ne ebbe quasi paura, ma lui stava lì, con quella sua espressione dolce, la mano nella sua, non sapendo se fosse scortese ritrarla.
-Beh, suonaci qualcosa, no? Ti va? - era una domanda di cortesia, quella di Coverdale, che si raggomitolò sul tavolo come un grosso gatto, tirandosi le ginocchia al petto.
Li aveva tratti d'impaccio: doveva ricordarsi di ringraziarlo.
Bolin si accoccolò a terra, accanto all'amplificatore, dopo avervi collegato la chitarra: - Sono qui per questo, no?
Si mise a suonare con una grazia spontanea, come se non stesse nemmeno dando peso alle note che produceva, come se le corde fossero una estensione naturale delle sue mani. Invece l'esecuzione era pulita, impeccabile. Ci rise sopra: - Non riesco mai a star fermo. Appena ho un attimo, ho bisogno di suonare. Non posso tenere tranquille le dita.
Intanto, nella stanza, si espandevano i riff secchi e fulminei di Hard chargin' woman, una vecchia canzone degli Zephyr, di chiaro stampo blues.
La porta che si aprì non lo distrasse. Lord era entrato, seguito a ruota da Paice, tormentandosi i baffi: - Siamo in ritardo.
-Disastrosamente in ritardo. - puntualizzò Ian, sistemandosi gli occhiali – Ti dico sempre che qui non è come Londra, che c'è traffico, ma tu non mi ascolti mai. È terribile. Siamo rimasti imbottigliati col tassì per quarantacinque minuti d'orologio.
-Chi è che sta suonando? - il tastierista posò gli occhi sul perimetro della stanza fino ad incontrare la figura accoccolata a terra – Oh, figliolo, sei tu. Ero proprio curioso di conoscerti. Quel disgraziato di Coverdale mi ha svegliato alle tre di notte per parlarmi di te: devi proprio averlo impressionato. Resti fra noi, ma non ne sono capaci in tanti. - gli assestò qualche sonora pacca sulla spalla, prima di stringergli vigorosamente la mano – Facci sentire qualcosa.
-Era quello che stava cercando di fare, prima che tu lo interrompessi, Jon.
-Paice, sei una vecchia suocera!
Gli altri due si erano appartati, approfittando del loro arrivo.
-A me piace. - gli sussurrò David all'orecchio – Per me è lui. È quello giusto.
-Ha talento. È innegabile.
-Ha personalità.
-Anche. Non ha suonato qualcosa dei Purple per fare colpo.
-Non ha suonato qualcosa dei Purple perchè ha chiaramente detto che non ci conosce.
-E vabbè. Ha uno stile originale ma, piuttosto, riuscirà ad adattarsi?
-E chi ha parlato di adattarsi? Stiamo creando qualcosa di completamente nuovo. Io, tu e questo ragazzo saremo qualcosa di completamente nuovo. Segneremo una svolta, lo sento. Qualcosa di personale, di innovativo, un progetto che ho sempre accarezzato ma che credevo impossibile, incentrato sulle canzoni, perchè sono quelle che devono restare per sempre.
Hughes rise dell'impeto romanzesco e adolescenziale dell'amico, pur essendone in qualche modo allettato: -Dovremo aspettare anche il parere di Lord e Paice, no?
-Naturalmente.
-Ad ogni modo, se anche non dovessimo tenerlo, lo voglio io.
-In che senso? - David lo guardò stupito, da sopra gli occhiali.
-Nel senso che voglio portarmelo a casa, invitarlo a qualche festa, non so. Ma te lo sei visto? Con quei capelli, quei vestiti, è qualcosa di geniale ed adorabile.
-Per quei capelli si è fatto cacciare dal college, a quanto ne so.
-Meglio ancora: è un ribelle!
-Colpo di fulmine, Hughes?
-Gelosia, Coverdale? - lo canzonò – Serve a poco, dal momento che sei tu a sfuggirmi.
-No, semplice curiosità.
Bolin stava continuando a suonare con trasporto. Poi, quando terminò, si guadagnò un applauso accennato del cantante.
-Sei il nostro uomo.
In un angolo, anche se con un velo di malinconia, Paice e Lord annuirono convinti.

 

Hughes uscì dal bagno, avvolto nell'accappatoio che aveva trovato: ne aspirò forte l'odore, ritrovandovi quello della casa che, per estensione, era lo stesso che si portava addosso David. Fu allora che lo vide, seduto sul letto, tra i cuscini, a gambe incrociate. Aveva gli stessi capelli colorati, come quando l'aveva conosciuto, una maglietta a righe, troppo leggera per quella stagione, i pantaloni sgualciti e le scarpe di tela. La sua chitarra l'aveva seguito, come aveva sempre fatto, ed ora giaceva sulle sue ginocchia, soltanto perchè lui potesse tormentarne distrattamente le corde con la punta delle dita.
-Su, non fare quella faccia, Glenn. Non avrai mica visto un fantasma. - rise.
-Tu non dovresti starci, qui. Tu non dovresti seguirmi proprio, Tom.
-Oh quante storie, per una visita. Che poi, sono davvero venuto a farti visita o è uno scherzo della tua mente? La tua mente annebbiata dalla droga ecco.
-Non scherzare, per favore, Tommy.
-Hai ragione. - il suo tono si era fatto più accorato. Gli tese la mano: – Vieni qui, Glenn.
-No. Io non...
-Ti prego.
Cercare di afferrare la sua mano era come prendere quella del vento. Gli sfuggì tra le dita, che si richiusero sul suo palmo senza avere trattenuto niente, nemmeno un istante di calore.
Si ritrasse, appoggiando le spalle al muro, come se volesse proteggersi. Stava impazzendo. O era già diventato pazzo: quella maledetta roba gli stava fottendo il cervello e adesso ne aveva l'ennesima prova.
-E così sei tornato da lui: alla fine anche tu, dopo tanto peregrinare, avevi bisogno di un campo base. - sospirò Bolin, pizzicando le corde alla chitarra. Ma, nonostante le sfiorasse, non producevano nessun suono.
-Non sono tornato da nessuno: è stato lui a chiedermi di venire. Fosse stato per me, sarei ancora in viaggio.
-Tu dici? Un giorno o l'altro ammetterai di avere bisogno di qualcuno, Hughesy. Di te, di lui, della Musica. In un certo modo, nemmeno possiedi più te stesso, anzi, fuggi da te stesso ma col tuo peso addosso. Non andrai mai da nessuna parte, così. Devi metterti in testa che nessuno riesce a bastarsi: per quanto lo si neghi, abbiamo tutti bisogno degli altri. Sai, se anch'io potessi tornare da qualcuno, tornerei da lui.
-Speravo che saresti tornato da me.
-Da te? Dio, Glenn, come potresti salvarmi, se non riesci a salvare nemmeno te stesso?
-Nemmeno tu ne sei stato capace.
-Appunto. Per quale motivo pensi che sia qui? Per quale motivo pensi che la tua mente mi abbia condotto qui, da te, se non per ricordartelo?
-Io non riesco a dimenticarti, Tommy. Non passa un giorno, un minuto, senza che io pensi a come sei finito.
-Bel modo di pensarmi, facendo di tutto per raggiungermi. - la durezza delle sue frasi lo colpì: non gli aveva mai parlato a quel modo, lui, sempre così lieve, così accomodante.
-Ma che cazzo avete tutti? Tu, David, chiunque altro: vi siete messi in testa di salvarmi, ma io sto benissimo, non ho bisogno di nessuno. Di un cazzo di nessuno, è chiaro?
Il chitarrista si alzò, posando lo strumento sul letto, poi si avvicinò alla finestra con un'ombra triste negli occhi: - Volevo solo che ti risparmiassi la mia fine. Sai, non mi sono mai reso conto di dove stessi precipitando. O forse sì e non ho fatto nulla per evitarlo. Ho sempre preso le cose come venivano. Ma tu, Glenn... - si abbandonò ad un profondo respiro – Tu forse potresti riprendere in mano la tua vita. Ma questa volta davvero, non con le sterili illusioni di una libertà che in fondo non abbiamo mai avuto né con il decadentismo degli anni passati. La verità è che siamo tutti degli sbandati, dei soldati di ventura che cercano qualcosa che non possono avere, che forse non sanno nemmeno cos'è. Anzi, è più importante la ricerca della meta stessa. E siamo disposti a provare qualunque esperienza ci capiti sulla strada, pur di approfondire quella ricerca. Ma la gente non ci vuole, Glenn, il mondo non ci vuole: vuole quello che noi possiamo dare, la nostra musica, la nostra arte, ma non è la stessa cosa. Non vuole noi e ci sentiamo un gran vuoto dentro, non è così?
-Non so se è solo questo.
-E' che io non provo più niente.
-Nemmeno io vorrei provarlo.
-Vorresti morire. Vorresti ammazzarti, Glenn? E quello che hai?
-E che cos'ho?
-La musica. Ne hai bisogno.
-Non so nemmeno se ne valga più la pena.
-Ne vale la pena. Guardati. - con una forza insospettabile lo trascinò fino allo specchio, costringendolo ad osservare la propria figura. Quella di Bolin non si rifletteva, come se fosse fatto d'aria. O di sogni inquieti. - Guardati: tu sei vivo. Non ti pare, ma lo sei. Devi vivere, Glenn. Scegliti qualunque ragione per farlo, ma vivi.
Solo allora si rese conto della visione che aveva alle spalle, che non poteva essere nulla di reale, di tangibile, per quanto continuasse a restare, per quanto non riuscisse a scacciarla, anche tentando di ordinarlo alla propria mente. Ma la mente non ubbidiva.
-Io sto benissimo, Bolin! Mettitelo in testa. Io non sono come te, non ci lascerò la pelle, non ne ho nessuna intenzione. Non ho bisogno di te, non ho bisogno di lui. Non ho bisogno di nessuno. Vattene! Io non sono malato. Io non... - afferrò la lampada che stava sul cassettone e la scagliò in direzione del chitarrista. L'oggetto si frantumò in grossi pezzi con rumore di cocci, mentre l'immagine svaniva nell'oscurità.
La porta si aprì dopo pochi istanti, lasciando apparire sulla soglia il cantante con un'espressione preoccupata in viso: - Dio mio, Glenn! - diede luce alla stanza dal lampadario principale – Glenn, che è successo?
-Mi... mi è scivolata la lampada. Mi dispiace, te ne ricomprerò una: spero non fosse di tua madre.
-Era di mia moglie: poco male. L'avrei fracassata io, un giorno di questi: era orrenda. - Coverdale guardò scettico l'improbabile traiettoria che aveva seguito il lume per rompersi, mentre il bassista aveva preso a tremare e piangere, scosso dai singhiozzi.
-Glenn, che hai? Non starai facendo della tragedia per una fottuta lampada, vero? Glenn! Mi rispondi, cazzo! - lo scrollò per le spalle. Non ottenendone nulla, lo strinse a sé.
-Davey! - cercò le parole in mezzo alle lacrime – Davey, lui era qui. Ti giuro, era qui: mi parlava, mi guardava.
-Ma chi? Chi? Adesso calmati poi mi racconti tutto. - gli scostò i capelli umidi dal viso – Siediti.
L'altro scrollò la testa, abbracciandolo più forte: - Lasciami qui.
-Come vuoi. - la voce si era ridotta ad un sussurro – Chi c'era, Glenn? Siamo solo noi in casa.
-Tommy. Era lì, sul letto, con la sua chitarra. Guarda, dev'essere rimasta...
-Non c'è proprio nulla sul letto. Povero Hughesy, – disse più rivolto a se stesso – cosa ti è successo? Il nostro Tommy se ne è andato da tredici anni, Dio l'abbia in gloria.
-Io l'ho visto, Dave. Era qui e mi parlava, mi diceva che... - la voce gli si spezzò, mentre aderiva a lui come se avesse voluto fondersi al suo corpo.
-E' solo la tua mente, Glenn. È passato tutto. Ci sono io.
-Mi diceva che io non devo fare la sua fine, David.
-E' vero. - commentò in tono piano – Ha ragione. O meglio, forse è il tuo inconscio che ti sta spingendo a risalire la china, non trovi?
-Non lo so. Non lo so più.
David lo baciò tra i capelli, sulla tempia, sulla fronte: - Cerca di dormire, adesso.
-Ho paura: ogni volta che chiudo gli occhi, il buio mi fa vedere tutto ciò che non voglio. - si sciolse dal suo abbraccio di malavoglia, accoccolandosi tra le coperte – Tutte le cose che la luce del giorno copre e dalle quali mi illudo di sfuggire con mille inutili attività.
Il cantante si sedette sulla poltroncina nel fondo della stanza, accanto alla finestra, dopo aver scostato i vestiti che vi erano sopra: - Resto qui. Nel caso avessi bisogno.
Glenn riusciva a scorgere il suo viso illuminato da un raggio di luna: pareva invecchiato anch'egli di colpo, da quando era arrivato. Forse la sua presenza non gli faceva bene. Forse c'era qualcosa che anche per David non andava, ma che lui non aveva notato, troppo preso da se stesso.
-No, non importa. Davvero. Starai scomodissimo.
-Credo che non riuscirei a dormire comunque. Resto, come ai vecchi tempi dei tour.
-Non ho più molte memorie, Davey, di allora. Non di quelle notti folli, almeno. Tu cosa ricordi?
-Ho conservato solo ciò che desideravo tenere. Ricordo che dividevamo la stessa stanza, spesso. Che quando non volevi star solo a volte mi è toccato pure di unire i letti per starti vicino.
Risero entrambi, con un certo pudore, dovuto alla lunga lontananza.
-Solo questo?
Lui abbassò lo sguardo, con un imbarazzo: - Ovviamente no. Non solo.
-E' stato un bel periodo, però.
-Davvero. - si alzò e trovò il bordo del letto a intuito, per sedersi sopra e sfiorare la fronte di Glenn – Non è vero, sai, ci sono cose che vorrei dimenticare e che non riesco.
Gli passò le dita tra i capelli, dolcemente, ascoltandolo sospirare e scivolare a poco a poco nel sonno.
Già, c'erano troppe cose che avrebbe voluto dimenticare, pensò, appoggiandosi al davanzale della finestra e osservando la luna specchiarsi quieta nel lago.
Troppe cose, a partire da un concerto di Liverpool di tredici anni prima, l'ultimo che l'aveva visto insieme ai Purple. Quella volta aveva rivolto a Tommy parole che, ripensandoci, ora non avrebbe più avuto il coraggio di pronunciare.

 

Liverpool, 1976. 15 marzo.

Coverdale lasciò cadere il microfono a terra e fece per andarsene, furioso, mentre il pubblico continuava ad osservarli attonito.
-Me ne vado. Questa è l'ultima maledetta volta che suono con questo fottuto gruppo.
Jon Lord l'aveva trattenuto per il braccio, nel backstage, carezzandogli appena la schiena, come tutte le volte in cui aveva cercato di calmarlo e di farlo ragionare: - Figliolo, non agitarti. Ora siediti un minuto, respira e torniamo là sopra, ok?
-Io non ci torno stasera su quel cazzo di palco, Jon. - si morse le labbra per non piangere – Non ci torno proprio se è quella la figura che dobbiamo fare. Glenn non prende una nota. Bolin ha più eroina in corpo che sangue. Non riesce a reggere la chitarra. Non riesce nemmeno a reggersi in piedi! Se dovevo finire con dei dilettanti, potevo restarmene nello Yorkshire.
-Ricordati da dove vieni, ragazzino. - gli ringhiò Bolin, sbattendo a terra la chitarra.
-Io me ne ricordo. Forse sei tu che non hai capito che questi non sono i pub americani di quarto ordine di qualche paese dimenticato da Dio. Che non ti puoi permettere di prendere tutti per il culo andando in scena fatto e strafatto. Bel risultato, con tutto che mi sono fatto il mazzo per tenere insieme questa band che davamo già per spacciata con la partenza di Blackmore.
-Oh, non venire a piangere come il povero martire. Come se fossi l'unico ad esserti sbattuto per i Purple!
David era scattato in piedi: - Sempre più di te, che non sei capace di fare altro se non...
-Finisci la frase, se hai il coraggio! - lo sfidò il chitarrista, prima di essere trattenuto da Lord.
-Calma, calma, a spaccarvi il muso non risolverete niente.
-Lo sai che c'è, Bolin, che maledico il giorno in cui ti ho fatto quell'audizione. Fossi stato un po' più realista, avrei capito che non vali un decimo di Blackmore.
-Fossi stato un po' più onesto, avresti capito che questo carrozzone era già fottuto da prima che arrivassi io. Ma ti faceva comodo tenerlo in piedi, per la tua gloria personale.
-Tu non sei un professionista. Non lo sarai mai, finchè continuerai a bucarti. Non sei in grado di badare a te stesso, come potresti prenderti le responsabilità che hai verso i Purple? E io la mia reputazione non voglio rimettercela per te, per le tue esibizioni patetiche. Vaffanculo, Bolin. Tu e tutto il resto. Io me ne vado. Lascio la band.
-Che band, David? - Paice lo guardò con aria rassegnata, dietro gli occhiali appannati di lacrime – Non c'è più nessuna band. Io e Lordy pensavamo che fosse giunto il momento di scioglierla già un paio di mesi fa.
-E nessuno mi aveva detto niente? - i singhiozzi si mescolarono alle parole – Grazie. Tante grazie per la considerazione. - si avviò verso i camerini, sfregandosi gli occhi con le dita.
-David! - Paice lo inseguì – Vieni qui, per favore. Esci di lì. Vai da Tommy, ti prego. Sta così male. E anche Glenn...
-Anch'io sto male! Forse dei tre sono quello che sta peggio, perchè ho ancora un minimo di lucidità.
Sbattè la porta, dando un giro di chiave, prima di accasciarsi sulla sedia e piangere, col volto tra le mani. I lievi colpi all'esterno lo raggiunsero ovattati come in un sogno.
-Ti prego, Dave, apri. Dave, te lo prometto: non accadrà più.
-Vattene, Bolin. Va' via.
-David, io... io non volevo. Dammi un'altra possibilità. Sarò il migliore, il miglior chitarrista che tu abbia mai avuto.
-Te ne ho date fin troppe, di possibilità. È finita, Tommy.
-Solo perchè lo vuoi tu. - aveva la voce rotta di pianto anch'egli.
Coverdale scrollò la testa, aprendo la porta: non avrebbe sopportato di saperlo seduto a terra a supplicare davanti ad un uscio chiuso per un altro minuto di più. Infatti era lì, accoccolato sul pavimento, avvolto nei lustrini degli abiti di scena, stretto alla sua chitarra che teneva in grembo.
-No, è finita davvero, Tommy. - gli si inginocchiò a fianco, scostandogli la frangia dagli occhi.
-E' tutta colpa mia.
-Non è vero, su. - non seppe dire neanche lui come successe, ma si ritrovò abbracciato a Tommy, alla sua chitarra, finendo per asciugargli gli occhi con la punta delle dita.
-Ma tu l'hai detto.
-Non lo pensavo.
-Io sono sicuro che andremo avanti, Dave, siamo troppo grandi per gettare via tutto. - gli si avvinghiò al collo con forza – Sei arrabbiato con me, lo sento. Ma abbracciami.
Il cantante se lo tenne stretto a sè, mentre l'altro continuava a tormentargli i capelli tra le dita.
-Non è finita, Dave. Te lo prometto.
Annuì, fingendo di credergli. Forse perchè ne aveva bisogno, come aveva bisogno di essere accarezzato e di sentirsi dire che c'era ancora una speranza, anche se così fragile e lontana.


(Continua)

   
 
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