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Autore: Roxar    07/11/2012    3 recensioni
Anno 2021. Dopo un estenuante periodo di tensione, Russia e Stati Uniti d’America si sono reciprocamente dichiarate guerra, coinvolgendo ogni nazione del globo.
Così, impelagata in quella che è ufficialmente la Terza Guerra Mondiale, la giovane Valerie è costretta a vivere una vita fatta di ansia, nervosismo e stenti, costretta a badare alle esigenze del piccolo ranch ereditato dal nonno paterno e a Jack, un ragazzino ritrovato moribondo ai margini della strada.
Da una cosa sola Valerie è terrorizzata: vedersi piombare la nemesi in casa, in piena notte, favorita dalle ombre. E il suo terrore diventa concretezza quando Jack rinviene il corpo incosciente del giovane Aleksandr Lebedev, soldato del più efficiente corpo armato russo.
Inizia così una stretta convivenza fianco a fianco, America e Russia costrette a vivere sotto un unico tetto, con tutti i disagi, i litigi e le incomprensioni che questo comporta.
E chissà che i due giovani, infine, non riescano a giungere ad un trattato di pace.
[Dal capitolo 9:]
"Che relazione turbolenta, la nostra. Quando credevo di aver commesso un fallo, quando pensavo che la tregua fosse giunta al termine, tutto si era capovolto un’altra volta e tutto era terminato sulle nostre labbra."
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Val! Svegliati!»

Jack mi scosse forte e sussultai, mettendomi fulmineamente a sedere tra le lenzuola sgualcite.

«Che succede? Le sirene?» mormorai frenetica, aguzzando l’udito per cogliere solamente il canto spensierato dei passeri appollaiati sul tetto.

«No, c’è Sam. Scusa se ti ho spaventata».

Sospirai di sollievo, attendendo che il battito cardiaco si acquietasse. Restai perfettamente immobile per pochi attimi, scansando la frangia madida di sudore dalla fronte.

«Non importa. Digli che mi vesto e lo raggiungo».

«Va bene. Scusa ancora» disse, sorridendo colpevole mentre sgusciava via dalla mia camera da letto.

Mi stropicciai il viso, dando il benvenuto ad una nuova giornata e alla consueta ondata di terrore che, come la risacca sulla battigia, andava e veniva ad intervalli cadenzati e tuttavia troppo vicini tra loro.

Come ogni giorno, mi sciacquai frettolosamente il viso, spazzolai i capelli e indossai gli abiti ormai vecchi e sformati, ma puliti.

Come ogni giorno, sostai più del dovuto davanti allo specchio, appurando quanto i miei tratti somatici fossero mutati in soli cinque anni, di come il mento si fosse affilato e di come la carne si fosse ritratta sino a diventare il guscio molle delle ossa sporgenti.

Come ogni giorno, sfregai inconsciamente sulla cicatrice pallida e frastagliata che mi segnava il collo, retaggio indesiderato del primo bombardamento, il primo di una sequenza che pareva destinata a protrarsi fino all’estinzione dell’umana specie.

E come ogni giorno, abbandonai lo specchio senza ulteriori indugi, percorrendo quindi quel pugno di passi che mi separavano da Sam.

«Buongiorno, Sam; buone nuove?»

«Buongiorno, Valerie. Nuove sì, buone no di certo».

Nulla di nuovo, dunque. Nessuna resa, nessuna vittoria, nessun perdente.

«Entra, mangiamo qualcosa».

Sam si sfilò il cappello da mandriano dalla tesa lisa e sbiadita e i suoi stivali picchiarono ritmici contro il legno rovinato che, una volta, era stato un bellissimo parquet.

Mentre mi dava le spalle, anticipandomi in cucina, notai quanto i suoi capelli bruni fossero cresciuti dal giorno in cui ci eravamo incontrati.

Si dispiegavano in crespe onde che nascevano sulla nuca, per adagiarsi poi morbidamente sulle spalle larghe e forti abbastanza da sorreggere il peso di non una, ma ben due famiglie da sfamare e accudire: la sua e la mia.

Sedette al solito posto, lasciandosi sfuggire il solito sospiro stanco.

Poi si passò una mano sul viso, sulla barba incolta e ispida, sulla bocca rossa e screpolata.

Sam era una bellezza poco convenzionale, selvaggia quasi, terribilmente affascinante.

Forse, se la guerra non fosse mai scoppiata, se l’avessi incontrato in circostanze più felici, se non ci fosse stato quel divario di ben dieci anni, me ne sarei potuta innamorare.

Ma in tempi tanto disperati l’amore era una creatura fuggiasca e spaventata oltre ogni immaginazione, che badava bene di tenersi lontana dalla civiltà, o da quel che ne restava.

«Allora, che succede?» domandai, servendo le ultime fette di pane stantio ma ancora commestibile, accompagnate dai rimasugli della confettura all’albicocca che lasciava sul palato un retrogusto acre e acido.

«La Germania ha tradito; è passata dalla parte della Russia e con lei anche il Belgio e l’Austria. Si sono vendute al nemico, fottute puttane» imprecò con leggerezza, addentando il pane.

Qualche giorno prima avrei sorriso dei suoi modi irruenti, ma quel giorno la mia mente era così ottusa, offuscata dalla gravità della notizia, che me ne restai perfettamente immobile, respirando piano per frenare il panico disperato.

«Fortunatamente, l’Italia, la Francia e la Spagna sono appena scese in campo. Ne abbiamo perse tre, ma ne abbiamo guadagnate altrettante» aggiunse, sfiorandomi distrattamente il gomito.

«Gli alleati sono soltanto soldati semplici che aiutano i generali, Sam» dissi, lentamente, spezzettando il pane.

«I generali sarebbero già a gambe all’aria senza i soldati semplici, Valerie» mi contraddisse, sorridendomi appena. I sorrisi di Sam erano rari quanto la possibilità di acquistare dei vestiti nuovi o della carne fresca, per questo ne approfittavo ogni volta, sorridendo di rimando.

«Credi che finirà mai? Che ci sarà mai un vincitore?»

«La Russia non molla e noi nemmeno; la stanno portando per le lunghe, quando potrebbero sfoderare le armi nucleari e farla finita».

Trasalii.

«Non dirlo nemmeno per scherzo» mormorai aspramente, ipotizzando solo una piccolissima frazione del danno che tali armi potevano arrecare.

Zone radioattive ed inabitabili per decine di anni, campi sterili, flora contaminata e destinata a marcire, nascituri malformati o gravemente malati...

«Accadrà, lo sai che accadrà. La Russia armerà le testate nucleari e noi li bombarderemo con il gas VX» mi provocò, ammiccando.

«Spero di morire prima, allora» sbottai infastidita, lasciandomi deridere dalla sua risata beffarda. Scattai in piedi come se la sedia mi avesse morsa, percorrendo lo stretto perimetro della cucina. Fu Sam a fermarmi, portandosi alle mie spalle e afferrandomi per i fianchi, il mento poggiato sulla mia spalla.

Gesti come quello erano così naturali, tra noi, che l’imbarazzo era morto subito o forse non era nemmeno mai esistito.

«Rilassati, Val. Non arriveranno a questo punto; cercano di tenersi stretto quel che hanno, distruggerlo sarebbe controproducente e inutile».

«Pensavo... pensavo che siccome settant’anni fa la guerra tra noi e loro era stata sventata, anche questa volta sarebbe andata così...» lasciai che la mia voce scemasse nel silenzio.

«Settant’anni fa non esisteva che una minima parte di tutto quello che oggi fa gola» borbottò, allontanandosi da me per gettare sul tavolo un pesante sacco di iuta.

«Piuttosto, ti ho portato un po’ di cibo. Chiudi quella bocca, non replicare. È l’unico modo che abbiamo di ripagarti delle erbe medicamentose che ci fornisci» disse, riconoscente e segretamente soddisfatto delle mie discrete abilità.

«Ringrazia il fatto che a poche miglia da qui ci sia qualche bosco sparso qua e là» replicai, accecata quasi dal profumo denso del formaggio fresco. La saliva mi riempii la bocca e fui costretta a deglutire e restare concentrata sulla voce bassa e cupa di Sam.

«Adesso devo andare. Ah, ho visto il ragazzino; sta bene».

«Non dà problemi» replicai rigida, perché la questione del ragazzino era sempre talmente spinosa e nebulosa che avrei dato un organo per poterlo restituire alla sua vera quanto sconosciuta famiglia.

«Ci vediamo, Val» mi lasciò la solita carezza sui capelli, montando poi in sella al suo cavallo e galoppando via, lontano diverse miglia da me.

Indugiai sulla porta più del necessario, soccombendo puntualmente davanti al desiderio sfrenato di vederlo tornare per restare con me, per offrirmi la sua compagnia e la sua protezione e forse anche una spalla su cui piangere le mie paure e le mie ossessioni.

Agivo per puro egoismo, perché ben sapevo che Sam avrebbe frainteso un così intenso desiderio; non aveva mai negato di volere una relazione con me, non aveva mai pensato alla differenza d’età come ad un problema. La guerra aveva spazzato via vita, abitudini e convenzioni; che differenza faceva? In fondo, non credevamo davvero in un domani roseo e prosperoso, senza fuoco né esplosioni.

Peccato che io e lui fossimo sintonizzati su frequenze diverse, peccato che io non fossi pronta a soverchiarmi del peso di un sentimento troppo fragile e troppo pericoloso come l’amore.

«Val, andiamo a mungere Georgie?»

Allungai una mano oltre la mia schiena fino a carezzare il braccio di Jack, annuendo distrattamente.

La nostra routine – debitamente condita di ansia e sensi allertati – prevedeva la mungitura di Georgie, la più anziana delle mucche che i miei genitori avevano ereditato da mio nonno Hanks.

Nonostante l’età, il clima ostile e il mangime sempre di qualità più scadente, Georgie continuava a ripagarci con latte bianco e delizioso, facendoci sentire degli ingrati per quel poco che avevamo da offrirle.

Presi posto su un piccolo sgabello, alle spalle di Jack, mentre il ragazzino mungeva con neonata abilità la mucca; quelle di Jack erano le uniche braccia maschili su cui potessi contare e avevo capito ben presto che era davvero il caso di tramandargli tutto l’insegnamento ricevuto da mio padre; da sola faticavo a badare alle esigenze dei pochi animali che avevamo e Jack, da quando aveva compiuto quattordici anni, inoltrandosi nell’adolescenza, era un preziosissimo aiuto.

Oramai aveva acquisito una certa manualità con la procedura, tanto che spesso me ne restavo in disparte, ad analizzare il flusso scoordinato e disordinato dei miei pensieri.

Quella mattina, mentre fissavo il profilo del ragazzino, ripensai al giorno in cui l’avevo trovato, appena tre anni prima.

Una figuretta smunta e pallida, rosa dal freddo e dalla fame, accasciata sul ciglio della strada che collegava il mio ranch a Fort Worth. Lo avevo soccorso immediatamente, portandolo a casa, offrendogli un letto caldo e casalinghi rimedi contro la febbre alta.

Quando fu abbastanza lucido da potermi raccontare la sua storia, scoprii che il bambino era fuggito dalla St. Antoine Family House, casa-famiglia che ospitava tossicomani volenterosi di guarire, prostitute alla ricerca di protezione dalle angherie dei loro protettori e orfanelli abbandonati, di anno in anno, sulla soglia della porta.

Di Jack si sapeva soltanto che era stato abbandonato in quella struttura quando aveva solo una manciata di mesi di vita sulle piccole spalle. Chi lo aveva abbandonato non si era nemmeno premurato di lasciare detto il nome del bambino, al quale, successivamente, ne era stato affibbiato uno fittizio: Jack Peterson.

Mi raccontò di come era stato costretto a subire i soprusi degli altri ospiti, di come i ragazzini lo prendessero in giro, di come lo picchiassero per puro divertimento, di quanto i cocainomani, coi loro occhi vacui e rossi, lo spaventassero a morte.

Non ebbi cuore di mandarlo via, sebbene tenerlo con me fosse un vero azzardo. Sapevo di non potergli offrire molto (e come avrei potuto, senza genitori né fratelli, con soltanto il nonno Hanks che si approssimava sempre più alla morte?), ma sapevo anche che avrei potuto garantirgli una vita molto migliore.

Fu l’unica spalla che mi offrì conforto quando nonno Hanks morì.

Lo vedevo crescere di anno in anno, vedevo il suo viso tondo affilarsi, la pelle tendersi sul mento e sugli zigomi, il corpo allungarsi, gli occhi grigi assumere un’espressione sempre più rassegnata, sempre più consapevole, sempre più adulta.

E soprattutto, era l’unica forma d’amore che potessi permettermi, quello fraterno, quello che un tempo era stato destinato tutto al mio vero fratello, Adrian, che combatteva al fianco di mio padre, nel valoroso corpo dei Marines degli Stati Uniti d’America.

La piccola Liz, invece, era stata abbandonata nel mio fienile, avvolta in una logora coperta gialla a cui era stato allegato un biglietto che ne citava solo il nome e la data di nascita.

Ma era talmente piccola e malnutrita – malata, anche – che l’avevo prontamente affidata alle cure della madre di Sam, pregando quest’ultimo di tenerla con loro, ché di sicuro non sarei stata capace di badare a lei.

Di tanto in tanto Sam la portava con sé, tenendola ben stretta nella curva del proprio braccio.

Chiusi gli occhi e sotto le palpebre rievocai l’immagine di una graziosa bambina dai luminosi capelli biondi e grandi occhi castani.

«Val, ho finito» Jack mi riportò al presente e mi alzai per baciargli i capelli spettinati, ringraziandolo.

«Mettilo pure in pentola, lo bolliremo stasera. Adesso vai a studiare un po’, mentre io raccolgo le uova di Netty».

Netty era la decrepita gallina che, assieme a Linda e Giselle, ci riforniva quotidianamente di uova piccole ma saporite.

Jack sbuffò della prospettiva poco gradevole, guadagnandosi una spintarella tra le scapole.

«Studiare è importante e tu sei così bravo con la matematica... Su, più tardi vengo a controllare il tuo lavoro».

Avevo fatto appena in tempo a diplomarmi, prima che scoppiasse la guerra e sconvolgesse ogni cosa. Oggi era troppo rischioso mandare i bambini a scuola, perciò era compito delle madri o dei padri o dei nonni sobbarcarsi la loro istruzione.

E io non ero stata da meno con Jack, il quale prometteva bene, sebbene la svogliatezza.

Lo osservai allontanarsi – strascicando i piedi sulla terra rossa – borbottando tra sé e sé.

Da quel momento il tempo era trascorso lentamente. Avevo raccolto le uova nel pollaio, pulito Kellan, la punta di diamante del mio ranch, che mi aveva ricompensata con un nitrito soddisfatto, spazzato il pavimento della casa, lavato i vestiti e rassettato le camere, dedicandomi quindi alla pulizia del bagno. Avevo preparato il pranzo e io e Jack avevamo alternato i bocconi a chiacchiere frivole, concentrate essenzialmente sulla mia vita passata, scorci di ricordi felici che parevano così inadeguati al presente.

Il pomeriggio era scivolato tra la bollitura del latte e uno sguardo ai compiti di Jack, tra la preparazione della cena e l’organizzazione della giornata successiva.

Dopo aver mangiato eravamo ancora abbastanza in forze da poterci concedere un po’ di televisione, i cui programmi si alternavano continuamente a strazianti bollettini di guerra.

Quando venne l’ora di andare a dormire, Jack mi augurò una buonanotte e si rintanò nella camera un tempo appartenuta ad Adrian. Pochi minuti dopo lo sentii russare piano e borbottare parole spezzate nel sonno.

Odiavo la notte, odiavo il buio e la vulnerabilità nella quale ci sprofondava irrimediabilmente. Temevo il suono delle sirene (indice che non eravamo poi così lontani da Fort Worth) a squarciare il silenzio e il mio riposo, temevo un bombardamento improvviso o un’incursione nemica a sorpresa. Ma sopra ogni altra cosa, temevo che la nemesi mi piombasse in casa, favorita dalle tenebre, e facesse del male a me e a Jack.

Mai come in quei momenti desideravo la presenza solida e rinfrancante di Sam.

Sam. Sorrisi, rammentando la burrascosa occasione in cui ci eravamo conosciuti.

Ad entrambi serviva un cavallo, entrambi avevamo puntato lo stesso stallone selvatico, entrambi eravamo finiti con un serramanico puntato alla gola.

E dopo aver discusso civilmente, decisi che poteva tenersi il  cavallo che alla fine ero riuscita ad ammansire, a patto che mi lasciasse metà del contenuto della sua bisaccia gonfia.

E così iniziò la nostra amicizia. Da quel momento, non era mai trascorso un giorno senza che Sam si presentasse alla mia porta. Avevo imparato a conoscerlo, scoprendo un pezzo alla volta della sua vita.

Era il più grande di tre fratelli e suo padre, come il mio, era un soldato impegnato sul fronte di guerra; era lui l’adulto di casa, che si spartiva tra il lavoro in città e quello al ranch, che aiutava sua madre – unico medico nel raggio di miglia – a curare bambini malati o giovani mandriani caduti da cavallo o da uno sperone di roccia.

Talvolta ci scambiavamo viveri ed erbe medicamentose, che avevo imparato a riconoscere nelle tante sessioni di pascolo assieme a mio nonno.

Con il dilungarsi della guerra, i medicinali ed altri beni di prima necessità tardavano ad arrivare o non arrivavano affatto; così, all’approssimarsi del 2021, sua madre era stata costretta a riesumare dalla soffitta il vecchio libro di famiglia – medici da sei generazioni – infarcito di ricette di unguenti e farmaci casalinghi, ma efficaci.

Da tre anni, Sam era la mia salvezza, mia e di Jack. Spesso ci ospitava per intere settimane nel loro ranch – tre volte più vasto del mio, con cavalli magnifici che gli avevo profondamente invidiato –, soprattutto quando il notiziario annunciava un’incursione che, fortunatamente, non era mai arrivata.

I bombardamenti, da un anno a quella parte, si erano limitati a colpire le nazioni settentrionali. La nostra posizione ci proteggeva; per quanto, non sapevamo dirlo.

E mentre ponderavo sui diversi tempi della guerra – su quanto ci avrebbe messo a raggiungerci – mi appisolai, rigirata sul fianco destro.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Ed eccoci al primo capitolo di questa long, che non sarà poi così long (dieci capitoli, esclusi prologo ed epilogo).

Ciò detto, ho pensato e ripensato spesso a come introdurre Valerie, Jack e Sam, come introdurli nella storia senza creare confusione.

Ho scelto di seguire una giornata di ordinaria amministrazione, perché le abitudini di una persona dicono molto di essa.

Perciò, considerate questo capitolo come un modo per conoscere Valerie, così che le sue azioni, nell'immediato futuro, non vi sembrino troppo strane o inopportune.

Ciò detto, vorrei fare qualche ringraziamento: prima di tutto, ringrazio nali, che si è accollata il compito di betare questa storia, mostrando una grande pazienza con la sottoscritta e di questo non posso che ringraziarla davvero col cuore in mano; poi, ringrazio le cinque persone che hanno recensito e quelle che seguono questa storia, ringraziandoli per la fiducia riposta in questa storia e sperando di non tradirla.

Bon, temo d'aver concluso.

Appuntamento a mercoledì prossimo, non mancate, mi raccomando.

 

 

Passo e chiudo.

 

   
 
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