A GIRL WITH TWO NAMES
Tutti quanti hanno un nome.
C’è chi ne ha
tanti da non
riuscire a ricordarli tutti e chi ne ha uno solo.
C’è chi ne ha
uno importante,
c’è chi ne va orgoglioso e chi invece se ne
vergogna, o ancora c’è che
preferirebbe cambiarlo con un altro.
Ma, qualunque esso sia e a
discapito dell’importanza e del rango che indica, ci
appartiene, ci
caratterizza e ci rispecchia.
È l’unico modo
che le persone
hanno per indicarci, per riferirsi a noi, è la prima cosa
che conoscono.
Tutti noi abbiamo un nome.
Per molto tempo era rimasta
convinta di questo fatto, fino a quando qualcosa – o forse
è meglio dire
qualcuno – non le aveva fatto cambiare idea.
Fin da quando era bambina,
tutti quelli che conosceva, suo padre, suo fratello, la sua padrona e
per fino
le altre ragazze che lavoravano al castello, avevano sempre usato un
nomignolo
per chiamarla.
Un’abbreviazione, un
soprannome datole da suo padre quando era ancora piccola, quando
sembrava tutto
possibile, quando si poteva sognare.
Era nato così, per
scherzo, o
probabilmente per nascondere quel nome troppo strano per una semplice
ragazza
del popolo, quel piccolo nome che adesso aveva quasi preso il posto
dell’originale.
Nessuno la chiamava più
per
intero, o nessuno almeno pareva ricordarsi di farlo.
E a chi sarebbe importato,
infondo, di conoscere il vero nome di una serva? Per la maggior parte
dei
nobili con i quali aveva a che fare tutti i giorni, il nome serve solo
ad
indicare, a chiamare quando c’è qualche compito da
svolgere o, nel peggiore dei
casi, quando c’è qualcuno da incolpare.
E, ammesso che qualcuno
avesse saputo che il suo nome era un altro, nessuno si era mai
interessato a
lei a tal punto di chiederlo.
All’inizio, quando ancora
dava importanza a queste cose, era lei che lo specificava, andando
tanto
orgogliosa di quel nome così inusuale che sua madre aveva
scelto per lei; ma
poi aveva smesso, capendo che quella, dopotutto, era solo una perdita
di tempo.
Col passare del tempo poi,
aveva anche smesso di pensare di avercelo un altro nome, tanto abituata
a non
sentirlo mai ripetere da nessuno, che se l’era quasi scordato.
Per tutti quanti lei era solo
Gwen, solo una serva.
E andava bene così,
davvero.
Cosa avrebbe potuto chiedere di più che lavorare al
castello, per una padrona
tanto dolce e amabile, con una paga alta e costante e senza nessun
impiccio tra
i piedi?
Niente, appunto.
La sua vita era felice,
trascorreva lenta e continua tra le ampie e sfarzose sale del castello
e la sua
piccola ma accogliente casetta.
Ma, proprio quando aveva creduto
di essere felice, di non avere bisogno di nulla, una piccola parola
aveva fatto
crollare tutte le sue certezze.
Il suo nome, quello vero.
Da quanto tempo non ne
assaporava il suono?
Troppo, probabilmente.
Ma ricordava perfettamente
l’ultimo giorno che lo aveva sentito. Era stato il giorno
più brutto della sua
vita quello e ancora oggi faticava a non piangere ricordandolo.
Il giorno in cui sua madre
era morta e le aveva chiesto, invocando quel nome a lei tanto caro, di
prendersi cura di suo padre e di suo fratello.
Se chiudeva gli occhi,
riusciva ancora a sentire il dolce suono della voce di sua madre e la
stretta
della mano di lei farsi sempre più debole mentre stringeva
la sua, tanto
piccola ma già così forte.
E, risentirlo così
all’improvviso, le aveva scatenato dentro una miriade di
emozioni che non
riusciva – o probabilmente non voleva – spiegare.
Per la prima volta dopo tanto
tempo, qualcuno non l’aveva chiamata semplicemente usando
quel soprannome tanto
insignificante quanto piccolo, non si era rivolto a lei come una serva,
come
qualcuno a cui dare ordini.
L’aveva chiamata con il
suo
vero nome, e aveva parlato con lei, con la persona celata dietro quelle
piccole
lettere che costituivano una parte tanto importante della sua
personalità.
In quel momento, solo per
quella piccola frazione di secondo, si era sentita libera e felice.
Non era Gwen, la serva.
Lei era Ginevra, la donna.
Una persona come tante altre,
con i propri sogni, le proprie speranze, e i propri timori. Una persona
degna
di essere considerata come tutte le altre, che non deve temere il
giudizio
della gente e che non viene considerata in base al proprio titolo
nobiliare.
E, inaspettatamente,
l’unico
che si era accorto di tutto questo, l’unico che forse si era
preoccupato anche
solo un minimo rispetto a molti altri, era stato proprio lui;
probabilmente l’ultima persona che avrebbe dovuto farlo.
L’aveva chiamata con il
suo
vero nome.
L’aveva chiamata per
quello
che era, per la persona che c’era dentro di lei.
L’aveva chiamata Ginevra.
Neanche Morgana l’aveva
mai
fatto.
Lui, il Principe Ereditario
di Camelot, il Principe Artù,
l’aveva
chiamata per nome.
Era una sensazione strana ma,
inspiegabilmente, non riusciva a non essere felice.
Perché, anche se aveva
usato
il suo vero nome, il tono con cui l’aveva pronunciato,
l’espressione del suo
viso, tanto dolci e rassicuranti, non le lasciavano alcun dubbio sul
fatto che,
nonostante a tutti potesse sembrare una persona arrogante e
capricciosa, lui
l’aveva fatto per lei, per farla sorridere.
E, compiendo questo gesto,
all’apparenza tanto semplice ma pieno di significato, aveva
risvegliato la
parte più nascosta e fragile di lei, la sua parte di
bambina, che ancora
credeva nelle favole e nel dolce lieto fine.
Probabilmente solo lui si era
accorto che, dietro la facciata della solita, ordinaria ed ingenua
Gwen, si
nascondeva la forte e coraggiosa Ginevra, che proprio come le
principesse delle
tante fiabe che avevano accompagnato la sua infanzia, aspettava solo di
essere
risvegliata.
Ma, come aveva imparato
più
volte a sue spese, la realtà è molto diversa
dalle favole.
Nella vita reale, se non sei
una bella e nobile principessa, non c’è nessun
principe dall’armatura
splendente pronto a salvarti e a donarti il suo cuore.
Perciò, nonostante lui
le
fosse così vicino, così tranquillamente
inconsapevole del turbine di emozioni
che aveva scatenato dentro di lei, con quegli occhi così
celesti da far invidia
al cielo d’estate e quei capelli simili ai raggi del sole di
Giugno, la
distanza tra di loro era incolmabile.
Se fosse stata ancora
bambina, probabilmente avrebbe iniziato a sognare che, magari, avrebbe
potuto
esserci un futuro per loro, da qualche parte.
Ma non lo era più
purtroppo,
non poteva più permettersi di sognare.
Da quel momento in poi
avrebbe solo potuto assaporare il ricordo di quel momento, richiamando
alla
mente il suono della sua voce così perfettamente intonata
alle lettere che
componevano il suo nome da sembrare di essere state create proprio per
pronunciarlo continuamente.
E lo avrebbe voluto. Oh,
come lo avrebbe voluto.
Sentire quella parola
così
semplice quando era pronunciata da altri, assumere un significato
così diverso,
così profondo, mentre veniva pronunciata da quella voce
forte e decisa, le
avrebbe dato la forza per andare avanti nei momenti di
difficoltà, quando la
speranza l’avrebbe abbandonata.
Avrebbe conservato
gelosamente questi piccoli attimi così intensi, non ne
avrebbe accennato a
nessuno. Così che, nei suoi pensieri – almeno in
quelli – anche lei avrebbe
potuto sentirsi una principessa per una volta, sentirsi importante per
qualcuno.
Perché mai e poi mai, in
nessun caso e in nessun luogo, sarebbe potuto accadere che il Principe
si
innamorasse di lei, mai.
Probabilmente era stata solo gentilezza la sua, o pietà
addirittura.
Ma anche se Artù un
giorno si
fosse accorto di lei, considerandola come qualcosa di più
che la serva di
Morgana, il loro avrebbe potuto essere solo un presente – un bellissimo presente – ma
senza alcun futuro.
Un futuro per il quale non ci
sarebbe mai stato spazio nel loro mondo, dettato da quelle leggi tanto
assurde.
Così, avrebbe continuato
a
vivere normalmente, come se nulla fosse successo, vestendo i panni di
Gwen, la
serva leale e fedele davanti a tutti e comportandosi come al solito,
senza fare
il minimo accenno dell’accaduto.
Ma, dentro di lei, sarebbero
cambiate molte cose.
Ginevra avrebbe continuato a
vivere, cibandosi solamente di quei pochi istanti in cui il suo cuore
era
finalmente tornato a battere come non succedeva più da tanto
tempo e come non
aveva mai creduto possibile, attendendo con impazienza il momento in
cui
avrebbe potuto mostrarsi di nuovo.
A lui.