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Autore: lady vampira    11/11/2012    0 recensioni
Può un sogno dare la forza ad un'anima piagata da un'esistenza di brutture di andare ancora avanti? Anja ne è convinta. Almeno finché quello stesso sogno, attraversando il confine tra reale e irreale, non muta nel suo peggiore incubo ... saprà continuare a lottare ancora?
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1


 
Il sogno americano. Tutti ne parlano, tutti lo perseguono, tutti lo vogliono. Ma, come accade per la già  nota Araba Fenice, nessuno lo trova. Ho lasciato il mio Paese, un puntino minuscolo nel cuore dell’America Latina che non appartiene a nessuno degli Stati confinanti, ma solo stesso e ad un feroce tiranno di estrema che ha travisato tutti i principi, giusti o ingiusti che siano, non tocca a me stabilirlo- del socialismo per fare di quei pochi chilometri quadrati di terra e foresta il suo regno personale. Ovvero, questo avveniva  fino a qualche mese fa, quando la dittatura è crollata sotto il peso delle sue stesse malefatte e di colpo ci si è ritrovati immersi nel caos più totale, scontri che hanno insanguinato il suolo finché non è esplosa la guerra civile tra i fedelissimi del Generale e i rivoluzionari Sentivo di dover andare via giù da un pezzo da lì, ma l’occasione propizia si è presentata un po’ prima dello scoppio della guerra vera e propria durante le ostilità di maggio uomo con cui ero stata sposata a quindici anni, messosi in un brutto giro di narcos e delinquenti senza scrupoli, era stato fatto saltare in aria con la sua auto mentre cercava di battersela coi soldi che aveva fregato al capo della gang. Ora, loro pensavano che in quell’auto ci fossi anch’io con la bambina: in realtà erano la sua amante e la donna di servizio di quest’ultima, così piccola e bassa che dal finestrino posteriore di un’auto non troppo pulita poteva facilmente venire scambiata per una bimba. 
Con la guerra alle porte non c’era alcuna possibilità che la forza pubblica indagasse sul fatto: il caso era immediatamente stato chiuso come un regolamento di conti. Anastasia Vicente dos Santos era morta assieme alla figlioletta Jasmine Marie e al marito, Manuel Alonso Ortega. Nessuno avrebbe cercato nulla fino al termine della guerra e forse anche oltre. 
<< Ora sei Anja Millan, ho scelto il tuo diminutivo così avrai meno difficoltà  a confonderti. La bambina è Jasmine Millan, è meglio che conservare il suo nome perchè piuttosto piccola e gli errori possono capitare >>, aveva detto il ragazzo a cui avevo dato ordine di trovare, appunto, un passaggio per gli Stati Uniti e dei documenti falsi.
<< Okay, grazie >>. Con quel grazie esprimevo una gratitudine che non si limitava al ragazzo; ma si estendeva a tutto il mondo, l’universo intero. 
Così, io e la mia Jazz ci siamo lasciate alle spalle quel mondo amaro come fiele e siamo arrivate qui convinte che sarebbe andato tutto bene. 
Non è andata esattamente così. L’aggancio che il ragazzo ci aveva promesso qui negli Stati Uniti è finito in galera quattro giorni dopo il nostro ingresso nel “Paese della Libertà”; sono dovuta scappare di notte con Jazz in spalle per non venire rimpatriata. Mi sono rifugiata in un ricovero per senzatetto dove ho condiviso il letto col terrore che mia figlia potesse prendere i pidocchi, la tigna o chissà quale altro malanno. La mia più grande fortuna è stata incontrare Rosalyn, una delle volontarie che venivano a portare il cibo lì al ricovero. Jazz curiosa come sempre le aveva domandato se poteva prestarle la retina che portava sui capelli quando sarebbe andata a pescare nell’Hudson l’estate seguente e da lì avevano attaccato discorso; la mattina dopo, Ross mi offrì di dividere casa con lei. Era un bugigattolo dove in realtà tre persone erano già in troppe, ma io e Jazz non avevamo bisogno di molto spazio: tutti i nostri averi, quei pochi stracci che avevamo portato con noi in una valigia sbrindellata erano finiti catalogati in un verbale di polizia, imballati e spediti al commissariato per i controlli. Non mi preoccupai di quello: non ero schedata. Il vero problema era che non avevo neppure di che dar da mangiare a Jazz; e mi vergognavo di dover vivere della generosità di Rosalyn, io che avevo pagato con le umiliazioni, le botte e il mio corpo di adolescente intatta il pane - poco tra l’altro, e sporco per giunta - che Manuel portava a casa.
Dopo giorni di ricerca estenuante, camminate quotidiane protratte per ore e ore a caccia di un lavoro, uno qualsiasi, m’imbattei in Buzz che usciva allora dal suo locale per affiggere un cartello con su scritto: “CERCASI CAMERIERA“. Era un segno del cielo O almeno così pensavo. Finché non vidi il sorriso svanire dal volto di Ross quando le diedi l’annuncio. Ma io scacciai quell’impressione dolorosa: mi servivano soldi. Non avevo scelta. L’atmosfera era ripugnante. Uomini affamati come pochi ne avevo visti di cibo perfino là al mio Paese che stavano a fissare le ragazze seminude che ballavano a bocca spalancata come pesci. Durante il giro delle ordinazioni ne beccato spesso qualcuno con le mani nel sacco ... Ehm, nei pantaloni. 
L’orrore più puro s’impossessava di me ogni volta che si avvicinava l’orario in cui attaccavo; ma non potevo fare altrimenti. 
Poi arrivò la botta. Visto il gradimento per un corpo che troppo aveva visto e subito ma nonostante tutto reggeva ancora bene, Buzz mi propose un … “salto di qualità”. Di passare al palo. 
Non avrei voluto, e Dio mi è testimone: ne avevo abbastanza degli uomini di quel genere. 
Ma non potevo far altro. Le spese erano sempre più pesanti, e Jazz aveva bisogno di tante cose … 
E adesso sono qui, ad avvinghiarmi a quest’asta di metallo gelido, che le tante mani femminili dalle unghie laccate che vi passano ogni notte non riescono a scaldare. Gelido come il cuore di chi balla e quello di chi guarda. 
Il mio sogno però non accenna a voler morire. E’ un sogno in cui mi sono imbattuta per caso, un pomeriggio in cui mi avviavo al lavoro. Passando davanti ad una rivendita di elettrodomestici. Uno sguardo. Una voce. 
Un germoglio verde, bruno e madreperlaceo di speranza. Ha gettato il suo seme nella mia anima e … da allora, vi è fiorito come un rampicante, legandola saldamente a sé perché non potesse andar via, fuggire da lui. 
Ed è ancora lì, si tiene stretto a me e il mio spirito si tiene stretto a lui, una simbiosi inscindibile che rende meno amara questa condizione.  
Un sogno che non si arrende. Come un gabbiano agonizzante che ancora sbatte le ali, convinto di potersi alzare in volo da un istante all’altro e non sa che l’unico volo che gli spetta è quello verso il buio eterno. 
Ma i resti di lui palpitano ancora. E mentre le mie dita s’intrecciano a fili invisibili e filamenti iridescenti di fantasia, sento i suoi occhi, grandi, potenti, magnetici e contemporaneamente così dolci, malinconici e innocenti addosso e … il cuore prende a frullarmi in petto. Quel piccolo gabbiano morente stringe il becco e si tira su, sulle zampine, raggiunge la riva e si tuffa. 
Non si lascerà spegnere come un ciocco di legna secca e annerita sulla sabbia. Andrà nell’oceano, lo stesso oceano caldo e incredibilmente azzurro di Los Angeles. La prima volta che l’ho visto, sono scoppiata a piangere come una bambina, stringendo Jasmine a me come una bambola di pezza.
E riprendo forza. I miei gesti si fanno decisi e morbidi insieme, sembrano lasciarsi dietro una scia luminosa di piccoli cristalli, frammenti di una luce che questi uomini non conoscono; e in quest’istante, nonostante tutto, voglio condividerla con loro, sperando che queste schegge affilate possano affondare nelle loro anime spente e svegliarle, anche se con un piccolo dolore. 
Ma non accade. Quando la base termina, fischi di approvazione, grugniti e applausi mi lasciano intendere che … nulla è cambiato, dentro di loro. 
Né dentro me. 
Ma anche stasera è passata. 
Scendo nelle “quinte”, slaccio velocemente il completo di scena, una gonna a macchie di leopardo e un top che a malapena mi copre il seno, sfilo il fermacapelli con le orecchie feline e mi avvicino alla mia specchiera. Via i brillantini finti sotto gli occhi, le ciglia finte, le calze a rete e le scarpe dai tacchi vertiginosi. 
<< Brava, Lux. Tieni, queste sono le tue mance >>. Eline, la ragazza che si è esibita dopo di me, mi ha portato i soldi che ha raccolto dal palco, quelli lanciati durante la mia performance; anche le altre, fanno sempre così con me. Io non ho cuore di farlo, sarebbe come spezzare l’incantesimo, il filo magico che mi permette di tirare avanti questo lavoro. 
Loro all’inizio non capivano, spesso per terra  in cinque minuti c’è più di due giorni di paga. Solo quando hanno visto il piccolo ritaglio di giornale che tengo accanto alla foto di Jazz, e il fatto che abbia chiesto a Joyce, il “disc-jockey” di mettermi sempre e solo delle basi … “sue”, hanno cominciato a farsi un’idea di quello che c’è nella mia testa mentre mi esibisco, con gli occhi quasi sempre chiusi. 
In fondo sono buone. Molte sono come me, messe qui dal coltello alla gola. C’è chi si paga gli studi per fuggire da una vita di violenza, chi ha avuto a che fare con la droga in casa e non ha visto altra via d’uscita, chi ha avuto figli troppo presto e non sa come dar loro da mangiare. 
Per questo qui dividiamo tutto, quasi come sorelle. Eline mi sorride e mi porge cinque dollari. << Compra qualcosa a Jazz >>, mi dice. 
<< Oh, no, dai, Eline … >>.
<< Non accetto scuse. Un regalo non si rifiuta mai. Non è molto ma … >>.
Sento che se rifiutassi ancora la offenderei, così non la lascio continuare. << Grazie, Eline. Davvero >>. 
Mi rivesto in fretta, infilo le scarpe da ginnastica e abbraccio la mia collega. Lei ha ancora una lunga notte davanti: si prende cura di due fratellini più piccoli e del padre paralizzato. La madre è andata via di casa tre anni fa. 
Raggiungo la fermata dell’autobus, ci salgo su al volo, senza guardarmi indietro. Una lieve nebbia cosparge la notte losangelina, bianca e sanguigna. 
Arrivo a casa stordita, annebbiata anch’io, come se una parte di quella bruma fosse penetrata anche nel mio cervello; entro in punta di piedi e corro in bagno, apro l’acqua bollente e mi ci ficco sotto, lavandomi di dosso come ogni notte i resti di quello ch’è avvenuto. Metto su il pigiama, m’infilo sotto le coperte e abbraccio stretta stretta la mia bambina, che dorme già. 
Quando finirà tutto questo? 
  
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