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Autore: CowgirlSara    12/11/2012    2 recensioni
L'amicizia è un incontro di affinità. Una mano che ti sorregge. Una parola che ti da forza e fiducia. Un posto dove tornare. Un contatto umano. E ne hai tanto più bisogno quando sei un bambino solo che viene addestrato per diventare un Cavaliere.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Human touch - 1
Torno con un altro episodio del Saraverse di Saint Seiya. Credo che potrei forse fare una serie per raccogliere le fan fiction sul giovane Milo, visto che sono già due, ci penserò.
Spero che la mia versione personale della vita al Santuario non risvegli animi troppo talebani…
Dovete capire che sto vivendo un personale Rinascimento nell’ispirazione per questo fandom, quindi ho bisogno di raccontare finalmente bene un mondo che ho impiegato anni a costruire.
Nei commenti alla mia ultima storia, poi, mi era stato chiesto di dare un po’ di spazio ad alcuni personaggi originali a cui anche io sono molto affezionata. Ed eccoli tutti qua, i miei cavalieri preferiti immersi nel loro mondo.

I personaggi usati appartengono ai loro legittimi autori e sono usati senza scopo di lucro. La canzone in introduzione – e che da il titolo alla storia – è la bellissima “Human touch” di Bruce Springsteen.

Sta a voi dirmi cosa ne è uscito fuori e se questa versione delle cose vi convince.
Buona lettura!
Sara


- Human Touch -

Capitolo 1

You might need somethin' to hold on to
When all the answers, they don't amount to much
Somebody that you could just to talk to
And a little of that Human Touch

Faceva caldo, in quel pomeriggio di tarda primavera, ma la pineta offriva un riparo sufficiente al sole greco. L’aria era balsamica e profumava di aghi e mare. I due giovani guerrieri erano sul ciglio di un pendio ed osservavano dall’alto l’addestramento nel campo sottostante.
Shura era appoggiato ad un pino e fissava concentrato l’attività svolta più in basso, mentre Camus si riavviava i capelli, cercando di dare sollievo alla nuca accaldata.
“Che te ne sembra dei ragazzi?” Domandò il cavaliere di Capricorn al compagno.
“Sono dei mocciosi.” Rispose Acquarius.
“Lo siamo stati anche noi.” Replicò l’altro, sempre guardando il campo d’addestramento.
“Hn, s’impegnano.” Gli concesse Camus. “Ma ne hanno ancora di strada da fare.”
“Parli come se avessi l’esperienza di un venerabile maestro novantenne, Camus.” Lo derise l’altro.
“Tu ci sei nato vecchio…” Commentò acido lui.
“Difetto dei Capricorni.” Si limitò ad ammettere Shura, stringendosi nelle spalle. Camus non volle dirgli quanto era vero. “Ad ogni modo, non puoi dimenticare che siamo solo poco più vecchi di quei mocciosi là sotto.” Aggiunse, indicando il campo con un cenno del capo.
“È vero.” Annuì Camus, del resto non poteva negarlo.
“Molti di loro, poi, hanno grandi potenzialità.” Riprese Shura. “E ci sono ancora diverse armature d’ora senza custode.”
“Andiamo!” Sbottò l’amico. “Non penserai che qualcuno di loro possa davvero ambire a tanto?!”
“Secondo me sì.” Dichiarò l’altro. “Ho diretto un addestramento, giorni fa, e ne ho individuati alcuni veramente promettenti.”
“Tipo?” L’interrogò Acquarius.
“Ioria.” Rispose subito Shura. “Il fratello del Traditore.” Camus si stupì di sentirglielo dire. “È un ragazzo determinato, coraggioso, incrollabile e non si fa pesare il suo… problema.”
“Non sono certo che il Gran Sacerdote gli permetterà mai d’indossare le Sacre Vestigia.” Sostenne Camus, lanciando un’occhiata al ragazzo dai corti capelli chiari, impegnato in un corpo a corpo.
“Devi capire contro cosa sta lottando, Camus.” Affermò serio Shura, anche lui impegnato ad osservare il soggetto in questione. Il suo tono e la sua espressione erano stranamente cupi. “Non puoi avere un peso del genere e vivere con leggerezza, io lo so… Dovrà lottare il doppio degli altri, per farsi valere, ma la caparbietà non gli manca.”
Camus si chiese quale fosse il peso di Shura, ma preferì non indagare, era più interessante continuare a parlare dei futuri cavalieri. E poi c’erano cose che era meglio non sapere.
“Chi altro?” Incitò infatti.
Shura accennò di nuovo al campo, ma più di lato rispetto allo scontro in atto. “Aphrodite.” Disse.
“Oh, andiamo!” Esclamò subito Camus, con un sorrisetto sbieco. “Quello è praticamente una ragazza – e molto carina – qualcuno dei compagni gli avrà già messo gli occhi addosso!”
“Non crederai che succeda?” L’interrogò Shura, voltandosi verso di lui. “Hanno solo dodici anni!”
“Beh? Lo sai che sono sempre successe queste cose, la pubertà, gli ormoni al galoppo…” Rispose, prima di scoppiare a ridere. Capricorno scosse il capo.
“Non sottovalutare il ragazzino, comunque.” Gli disse poi. “È furbo e impara in fretta.”
“È un leccaculo.” Fece Camus sprezzante.
“Vero, ma a volte è utile.” Replicò l’altro. “A te chi piace invece?” Aggiunse.
“Il ragazzo che lotta con Ioria.” Rispose sicuro Acquarius, guardando il campo.
“Milo?!” Esclamò incredulo Shura. Lui annuì. “Quello è una testina di cazzo, risponde!”
Camus gli lanciò un’occhiatina furba. “Se non avessimo un po’ di carattere non saremmo buoni Cavalieri.” Sentenziò.
“Ci vuole rispetto!” Sbottò l’amico, severo. “E lui non ce l’ha.”
“Può sempre impararlo.” Ribatté Camus. “È intelligente, un ottimo stratega e… guarda, se la batte alla pari con Ioria, che è più forte di lui fisicamente.”
“Ammetto che ha delle potenzialità.” Fece Shura. “Ma se non si lega la lingua, andrà poco lontano.” Camus, a quelle parole, fece un sorriso compiaciuto. “Dimenticavo che a te piace il sarcasmo…”
“Credo sia un segno di grande personalità, sì.” Ammise lui.
“Milo, ad ogni modo, è un attaccabrighe, si rovinerà con le sue mani.” Soggiunse Capricorn, prima di girare i tacchi e scendere verso il campo.
“Non se qualcuno gli insegna la strada giusta.” Mormorò Camus, rivolto più a se stesso che all’altro cavaliere ormai fuori portata.

°°°°°°

Elettra finì di raccogliere i giocattoli di suo figlio, mettendoli in un’elegante cesta di vimini, poi la chiuse e la ripose accanto al divano. Era l’unica donna che Camus conoscesse che riusciva a mantenere un ordine perfetto anche con un bimbo di quasi tre anni.
Per Elettra l’ordine era più una forma mentale che un qualcosa di ambientale. Se c’era disordine, lei non pensava bene, era disturbata. Sospirò soddisfatta e si sedette sul divano.
“Che mi racconti?” Chiese a Camus con un sorriso.
Il ragazzo preferì non raccontarle dei suoi sogni ricorrenti che prevedevano lei, lui, bagni notturni e nessun vestito addosso. Preferì qualcosa di meno frivolo e compromettente.
“Shura dice che Ioria ha le potenzialità per diventare un Cavaliere d’Oro.” Le disse calmo.
“Oh…” Commentò lei, poi abbassò e deviò lo sguardo. “È sempre stato il suo sogno, spero che ci riesca.” Aggiunse, tristemente; poi si alzò ed andò al tavolo a versare il the freddo.
“Mi dispiace che non vi parliate più.” Ammise Camus, osservandola dal divano.
“Dispiace anche a me.” Affermò fredda lei. “Ma ha fatto la sua scelta, non posso farci niente.”
“Era un bambino, lo è ancora…” Soggiunse lui. Elettra si voltò di scatto, in un fruscio di stoffa e gli rivolse un’occhiata glaciale.
“Niente di quello che gli ho detto è servito, Jean.” Dichiarò severa. “Volevo che venisse via con me, ma lui si è convinto di dover espiare la colpa di suo fratello… Quale colpa, poi.” Aggiunse, prima di tornare a girarsi verso il tavolo.
Camus sapeva perfettamente come la pensava Elettra. Era fermamente convinta che quello di Aioros – il suo grande amore, il padre di suo figlio, il fratello di Ioria – fosse stato un estremo sacrificio in nome della Giustizia, contro un non meglio identificato Male che possedeva il Santuario di Atena. Per questo, dopo la sua scomparsa aveva lasciato il tempio di Atena, per prendere il suo posto sul trono di Zeus, ben lontana dal nuovo Gran Sacerdote.
Ioria, invece, forse ben indottrinato, aveva maturato la convinzione – più caparbia, perché nella mente di un bambino – che suo fratello fosse veramente un traditore e che a lui spettava il compito di salvare l’onore della famiglia. La rottura con la cognata era stata inevitabile.
“Scusami, ho sbagliato argomento.” Fece il cavaliere, alzando le mani.
“No, scusami tu.” Replicò lei, portandogli il bicchiere con il the. “Come sta, piuttosto?”
“Sembra che stia bene.” Rispose Camus, mentre lei gli si sedeva di nuovo accanto. “S’impegna molto.”
“È un ragazzo determinato, può farcela.” Disse la ragazza, annuendo.
Il cavaliere osservò per un attimo Elettra, che si era appoggiata sospirando alla spalliera. Era sempre bellissima, ma sembrava più pallida del solito.
“Sembri stanca.” Le disse, lei fece un lungo respiro.
“Ci sono appena state le cerimonie di maggio, sono piuttosto impegnative.” Spiegò con un mezzo sorriso. “E Alexi cresce in fretta, da quando cammina devo avere gli occhi ovunque!”
Camus sorrise e poi le passò un braccio intorno alle spalle; lei si adagiò contro il suo fianco.
“Sai cosa facciamo domani?” Le disse il ragazzo, Elettra lo guardò incuriosita. “Portiamo Alexi al mare, così tu ti riposi sotto l’ombrellone e io gli insegno a nuotare!”
“Jean, ha due anni e mezzo, non può nuotare!” Esclamò la donna.
“E chi l’ha detto? Buttalo in acqua e poi vedrai!” Ribatté sicuro il cavaliere.
“Me lo farai affogare!” Protestò Elettra.
“Che madre apprensiva sei!” Sbottò Camus. “Non lo sai che i bambini piccoli hanno l’istinto del nuoto? E poi non gli farei mai correre rischi, lo sai.”
“A volte sono preoccupata che tu sia la sua figura maschile di riferimento…” Accennò lei. “Diventerà un volgare, bugiardo sciupa femmine, da grande.”
“Hey!” Esclamò lui, fingendosi offeso. “Io non sono volgare!”
“E tutto il resto sì?” Ribatté pronta lei. Camus fece un sorriso sornione.
“Beh, con le donne, a volte, qualche bugia ci vuole…” Sostenne con espressione furba.
“Se le dici a me, ti taglio i capelli nel sonno.” Gli garantì Elettra, con tono preoccupante.
“Basta che tagli solo quelli…” Scherzò lui, stringendo un po’ le gambe.
“Hm, non è detto…” Replicò la ragazza, sollevando le sopracciglia sottili.
“Perfida!” Esclamò Camus, prima che entrambi scoppiassero a ridere.
Era facile ridere con Elettra, fin da quando erano bambini. Poteva anche riuscire a non pensare alla più grande bugia di tutte, quella per cui avrebbe meritato molto più che taglio di capelli e attributi. Il suo migliore amico… Una bugia tanto grande da essere diventata una dolorosa verità.

°°°°°

Odiava il turno addestramento. Ma, per quanto ci avesse provato, non aveva trovato mai una scusa sufficientemente valida da riuscire a saltarlo.
Funzionava così. I bambini iniziavano ad essere addestrati intorno ai sette anni, in gruppi. Due, tre anni dopo veniva fatta una prima scrematura, i più validi continuavano, gli altri venivano passati alle truppe comuni. A quel punto, alcuni venivano affidati a maestri personali e avviati alla conquista di un’armatura minore; altri continuavano più o meno in gruppo, sotto la supervisione dei cavalieri di rango più alto, così che venisse deciso chi era degno di un’armatura della cerchia superiore. A quel punto, via verso i luoghi più ameni di addestramento.
E Camus odiava il suo turno di supervisione addestramento.
Santi Numi, ma chi li aveva passati al corso superiore? C’era gente che non era ancora capace di far esplodere una pietra, parliamone! Menti così granitiche che, quando gli spiegavi qualcosa, ti fissavano come se gli avessi confessato un piano per attentare alla vita del Gran Sacerdote. Roba da pazzi! Quando qualche cervello illuminato sembrava dimostrare di aver afferrato il concetto, c’era da mettersi a fare il trenino brasiliano!
Avrebbe dovuto proporre costumi in versione tanga per le saint femmine, ecco quello sarebbe stato interessante…
“Maestro.” Lo chiamò una vocetta petulante, strappandolo ai suoi sogni caraibici.
“Hm?” Fece lui annoiato, senza nemmeno alzare il mento dalla mano su cui lo appoggiava. L’occhiata che dedicò ad Aphrodite ed al suo corpicino efebico fu piuttosto vacua.
“In mensa si stanno picchiando.” Dichiarò deciso il ragazzino.
“E tu fai la spia?” Gli chiese, lo stupore dell’allievo fu palese.
“Il regolamento…” Tentò Aphrodite.
“Seh, seh…” Lo interruppe Camus, alzandosi dal tronco e sventolando una mano. “C’è del sangue?” Domandò poi.
“Cosa?!” Esclamò il ragazzino.
“Se devono picchiarsi che lo facciano bene, per Atena!” Esclamò il cavaliere, precedendo l’altro verso la tenda della mensa.
La zuffa era sulla sinistra dell’entrata. C’erano panche rovesciate, piatti e vassoi sul pavimento di terra battuta. Un capannello di ragazzini incitava e faceva il tifo, mentre due, a terra, si picchiavano senza esclusione di colpi. Camus si avvicinò a grandi passi.
“Adesso basta!” Gridò; i tifosi si zittirono subito, ritraendosi di qualche passo dai contendenti. “Ho detto basta!” Aggiunse autorevole, quando vide che i due non smettevano di darsele.
Il giovane cavaliere roteò gli occhi spazientito, poi portò le dita alle labbra e fischiò con tutta la sua forza. Molti ragazzini presenti dovettero tapparsi le orecchie. I due che si picchiavano, si staccarono confusi per un istante, poi, con uno sguardo in cagnesco, ripresero a menarsi.
Camus, allora, esasperato, li prese entrambi per la collottola e gli trasmise una scarica ghiacciata, schiarendogli le idee.
“Vi basta così, o devo congelare i vostri glabri testicoli come palle di neve?” Li minacciò.
I due si ritirarono a qualche passo di distanza, abbassando il capo. Entrambi avevano un labbro spaccato, quello coi capelli corti anche un sopracciglio, l’altro aveva una manica strappata.
“Chi ha cominciato?” Chiese il cavaliere. Milo e Ioria si scambiarono un’occhiata e poi riabbassarono subito gli occhi. “Chi ha cominciato.” Ripeté Camus.
“Il primo pugno l’ha dato lui!” Indicò infine Milo, alzando il dito contro Ioria.
“Sì, perché tu mi ha provocato per tutta la mattina!” Ammise l’altro, difendendosi.
“Vabbene!” Esclamò Camus, tenendoli lontani con le braccia aperte. “Ho capito la situazione.”
“Accipicchia, come sei veloce!” Commentò sarcastico Milo.
Camus, prima lo guardò malissimo, poi alzò una mano e gli diede lo scappellotto più veloce e doloroso che il ragazzo avesse mai ricevuto.
“Ahia!” Sbottò, reggendosi la testa.
“Vedi di chiudere quel buchetto di culo, perché già mi girano ad essere dovuto venire a dividervi.” Gli disse il cavaliere minaccioso, poi si rivolse all’altro ragazzo. “Ioria, sei consegnato nel tuo alloggio per le ore libere, fino alla fine della settimana.”
“Sì, Maestro.” Annuì impettito lui.
“Ora vai a farti vedere quei tagli.” Gl’intimò. “Tu, invece, vieni con me.” Ordinò a Milo.
“Ma… anche io sono ferito…” Obiettò il ragazzo.
“Non morirai.” Sentenziò il cavaliere di Acquarius. “Seguimi.”

Se non altro, la casetta di mattoni in uso ai cavalieri in turno di addestramento offriva un po’ di refrigerio all’afa di quel giorno. L’arredamento era spoglio: solo un tavolino, qualche sedia, degli armadietti lungo la parete e una scrivania. La sola finestra aveva una persiana verde un po’ sverniciata.
Milo, seduto davanti alla scrivania, osservava la grande pala girare sopra la sua testa, mentre Camus lo osservava dall’altra parte del tavolo.
“Che devo fare con te?” Si chiese retoricamente il cavaliere, attirando l’attenzione dell’allievo.
“Perché?” Gli rispose lui, con un sorrisetto.
“Non mi piace quando sorridi così, sembra che tu mi voglia prendere per il culo e non mi pare il caso, nella tua situazione.” Replicò Camus controllato.
“Oh, andiamo, era solo una piccola rissa!” Sbottò Milo, atteggiandosi a duro.
“Eh, no!” Gli rispose subito il cavaliere. “Tu godi di una brutta reputazione, tra i compagni, Milo.” Continuò poi. “Dicono che li provochi, che non chiudi mai la bocca quando sarebbe il momento di farlo, che rispondi ai maestri…”
“Sono un branco di ottusi cazzoni, quelli!” Commentò inaspettatamente il ragazzo, stupendo il suo interlocutore.
“Oh!” Fece Camus. “Ohhh, sì, che lo sono!” Affermò a sua volta, lasciando basito Milo, che non si aspettava di certo simili dichiarazioni da uno che faceva parte della categoria. “Ma devi essere un Cavaliere, per poterti permettere di criticarli, e tu non lo sei.” Aggiunse serio Camus.
“Tu, lo sei?” Chiese allora timidamente il ragazzo.
“Secondo te?” Replicò lui, raddrizzandosi sulla sedia.
“Quella cosa che hai fatto prima, col ghiaccio… sembrava fica.” Mormorò l’altro. “Avresti potuto veramente gelarci le palle?”
“Non vuoi scoprirlo.” Gli rispose serafico il cavaliere. Lui ridacchiò. “Non è divertente, Milo.” Riprese Camus. “Io devo punirti e non credere che mi piaccia.”
“Allora non farlo.” Soggiunse Milo, stringendosi nelle spalle.
“Ma non ce la fai proprio a tenere chiusa quella boccaccia, eh?” Gli rimproverò Camus, senza purtroppo riuscire a nascondere bene quanto lo divertisse la conversazione. “Dicevo, mi rompe le palle trovare una punizione per te, ma purtroppo devo farlo, quindi…” Si alzò e aggirò la scrivania. “Ora torni all’addestramento e tieni chiusa la ciabatta fino a stasera, domani ne riparliamo.”
“Non puoi farlo subito e basta?” Chiese Milo. “Odio aspettare…”
“Impara la pazienza – te lo dice uno che non ne ha.” Gli consigliò il più grande. “Devo parlare con una persona, prima.”
“Cosa devo aspettarmi? Pulire i cessi con uno spazzolino da denti?” Domandò timoroso l’altro.
“Eheh, divertente!” Commentò acido Camus. “Magari la prossima volta. Adesso vai e guai a te se combini un altro casino da qui a stasera.”
“Perché, cosa mi fai?” S’informò ironico il ragazzo, dopo essersi alzato. “Mi congeli le palle?”
“Può darsi, non sfidarmi.” Rispose severo Acquarius. Milo ridacchiò, dirigendosi alla porta.
“Sei sicuro di essere un Maestro?” Gli domandò infine, fermo sulla soglia.
“Sì, perché?” Ribatté Camus.
“Hm, sei simpatico.” Rispose lui, poi uscì di corsa.
Aspetta a dirlo, moccioso, vedrai come ti sistemo… pensò il cavaliere, pensando ai dettagli della punizione per Milo.

La biblioteca era fresca ed in penombra, come sempre. L’aria impregnata dell’odore dei libri, i suoni ovattati contro l’alto soffitto, la luce che entrava con tagli strani. Rassicurante come il ventre materno. Il cuore del sapere e dei segreti del Santuario.
Camus si avvicinò ad un alto bancone, dove un uomo stava catalogando e ordinando due grosse pile di libri antichi. Lui era piuttosto alto, i corti capelli biondi cominciavano a tingersi di grigio; una barba leggera conferiva autorità al suo viso forte, così come gli occhiali dorati gli davano saggezza.
“Nikolais.” Chiamò il cavaliere, attirando l’attenzione dell’uomo.
Egli alzò il capo e si voltò, dedicando al ragazzo un sorriso accogliente, in cui non era troppo difficile riconoscere quello della figlia.
“Jean!” Esclamò contento, lasciando il libro che aveva in mano e andandogli incontro. “Che sorpresa, cosa ci fai qui?” Gli chiese poi. Il cavaliere sorrise a si avvicinò al banco.
“Come ti vanno le cose?” Chiese il ragazzo al bibliotecario, mentre sedeva davanti a lui, su uno sgabello alto.
“Come sempre, non vedi?” Rispose l’uomo, indicando il suo lavoro con i libri. “Tu, piuttosto… ti fai vedere poco, ultimamente.”
Il tono era vagamente di rimprovero e Camus accusò il colpo, abbassando il capo e cominciando a giocherellare con un timbro.
“Sono stato impegnato, lo sai…” Borbottò poi, sempre evitando di guardarlo. “Sono stato di nuovo in Siberia e poi mi hanno incastrato con questa menata dell’addestramento…”
“Non mi sembrano motivi validi per evitare una visita a casa.” Gli fece pesare Nikolais, prima di afferrare un altro libro e classificarlo con calma. “Sai che Danae fa il pane alle olive ogni domenica?”
Camus alzò gli occhi, spalancandoli colpito. Il pane alle olive era il suo preferito, quanto lo era quello ai semi di papavero per Elettra. Lo adorava, perché restava sempre morbido e profumava di casa.
“Non farmi sentire in colpa…” Supplicò il ragazzo.
“Oh, è proprio quello che voglio fare!” Esclamò l’uomo, mentre passava ad un nuovo volume. “Scommetto che il tempo per andare ad Atene lo trovi…”
Il giovane cavaliere roteò gli occhi, voltando il viso in una smorfia rassegnata. Quando Nikolais ci si metteva, era un vero artista nel farlo sentire colpevole, perfino più bravo di Elettra, ed era tutto dire.
“Come sta Elettra?” Domandò però il bibliotecario, costringendo il ragazzo a guardarlo di nuovo. Camus trovò, con sorpresa, ad aspettarlo un sorriso gentile.
“Sta bene.” Rispose sincero. “Niente l’abbatte, lo sai.” Nikolais annuì, l’espressione remota.
“E il bambino?” Chiese quindi.
Camus non poté trattenere un sorriso tenero, pensando ad Alexi. “Cresce, è bellissimo.” Affermò poi.
Il giovane rifletté per qualche secondo sulla situazione. Da quando Elettra aveva lasciato il Santuario di Atena, lei ed il padre erano stati costretti a diradare i contatti e questo per l’incolumità di Nikolais. La Gran Sacerdotessa di Zeus aveva sposato la causa del Traditore ed era inutile dire che nessuno vicino a lei era più ben visto.
Il silenzio, in quegli attimi, li aveva avvolti, come succedeva spesso quando da ragazzino lo aiutava col lavoro su quegli stessi banchi.
“Mi dispiace che tu non riesca a sentirla spesso.” Si decise a dire, infine Camus. Nikolais sorrise amaro ma consapevole.
“Per fortuna ci sei tu che mi porti notizie.” Dichiarò quindi.
“Lo faccio volentieri.” Fece lui, stringendosi nelle spalle.
“Jean.” Lo richiamò l’uomo, serio, costringendolo a guardarlo negli occhi. “Rischi tanto.” Gli ricordò, con tono paterno.
“Non m’interessa.” Proclamò il cavaliere. “Io so difendermi.”
“Non dovresti farlo.” Disse l’uomo, di nuovo chino sui libri.
“Nikolais, siete la mia famiglia!” Sbottò Camus, quasi indignato.
Il custode della biblioteca sollevò su di lui uno sguardo retorico ed un sorrisetto sghembo, fin troppo simile a quelli pericolosi di sua figlia.
“Allora, dovresti venire a trovarci un po’ più spesso…” Buttò lì l’uomo.
Camus sbuffò. “Quando devo venire a cena?” Si rassegnò a chiedere, arreso davanti alla cocciutaggine del capostipite dei Niakros.
Conoscendo bene padre e figlia, poteva tranquillamente ipotizzare che anche il nipote sarebbe diventato caparbio come un mulo da grande.
“Domani sera, va bene?” Fece nel frattempo Nikolais, con un sorriso soddisfatto.
“Sì.” Annuì Camus. “Posso portare un ospite?”
L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso. “Ti sei fatto la ragazza?”
“Ma no!” Sbottò il cavaliere. “È un mio nuovo «amico»…” Affermò poi, mimando le virgolette. “Forse ti ho trovato un nuovo assistente, Nikolais…”

°°°°°

Milo seguiva Camus mentre scendevano dalle baracche degli allievi verso il piccolo villaggio dove vivevano i soldati con le famiglie.
Prima di arrivare ai primi edifici bassi, tra il ruscello e la pineta, c’era una casa ben tenuta, con una piccola staccionata di legno scuro davanti, a limitare il giardino fiorito.
Milo l’aveva già notata prima, le volte che era sceso al villaggio, e si era chiesto a chi appartenesse, perché era la migliore di quelle dei dintorni. Certo lui non era mai stato fuori dal Santuario, magari ce ne erano di molto più belle. Lui e Camus, ad ogni modo, si fermarono proprio davanti a quella.
Il cavaliere si voltò verso di lui con sguardo severo. “Qui vive il Custode della Biblioteca del Santuario, una persona di una certa importanza.” Si premurò di spiegargli. “Quindi comportati bene.” Aggiunse, alzando l’indice.
“Perché ci tieni tanto? È da lassù che mi ammorbi con sta storia…” Chiese annoiato l’allievo.
“È la mia famiglia, le persone che mi hanno cresciuto.” Rispose serio l’altro.
“Tu sei greco?” Domandò allora il ragazzo, mentre lo seguiva dentro il cancello.
“Ehm… no.” Ammise Camus, attraversando il breve vialetto di pietra. “Sono arrivato qui da piccolo e loro si sono presi cura di me.”
“Lo dicevo io, con quell’erre moscia…” Affermò Milo, con un sorrisetto pestifero. Camus si girò di scatto, fermandosi.
“Io non ho l’erre moscia!” Sbottò offeso.
“Come no!” Ribatté divertito il ragazzo. “Parli come una checca francese!”
“E che cazzo ne sai tu di checche francesi?!” Replicò incredulo il cavaliere.
“Beh, non hanno l’erre moscia?” Fece Milo con aria innocente.
Camus scrollò il capo, poi ridacchiò e lo prese per il collo, conducendolo verso la porta.
“Tu ti ficcherai in un sacco di guai, se non ti mordi quella lingua!” Esclamò allegro, prima di bussare energicamente.  
La porta si spalancò quasi subito e loro si trovarono di fronte la figura matronale di una donna in grembiule bianco, legato sotto al seno prosperoso. I capelli ancora scuri legati in uno chignon basso, il viso segnato da qualche ruga ma ancora tondo e simpatico. Gli occhi nocciola vispi ma dolci. Osservava severamente Camus, che si grattò la nuca imbarazzato.
“Cattivo, cattivo ragazzo!” Lo rimproverò, alzando pericolosamente un cucchiaio di legno.
“Danae…” Mormorò lui, con tono colpevole.
“Oh, vieni qui, per gli Dei!” Esclamò però la donna, cambiando completamente tono e diventando melensa, prima di acchiappare il cavaliere e stringerlo in una morsa d’acciaio. “Santo cielo, quanto sei magro, ma ti danno da mangiare? Guardati, sei tutto sciupato! Per fortuna che ho cucinato un sacco di roba! Ma fatti vedere! Stai diventando una pertica… E le ragazze, eh, eh? Vieni, vieni, ho apparecchiato in sala da pranzo…”
Trascinati da quel fiume di parole, i due ragazzi entrarono in casa e la donna, continuando a parlare, sparì in cucina. Loro si trovarono davanti il sorriso cordiale di Nikolais.
“Ha veramente apparecchiato in sala da pranzo?” Chiese spaventato Camus.
“Oh, sì.” Annuì l’uomo.
Il cavaliere si rivolse a Milo. “Preparati, a breve si spalancheranno le porte dell’Ade, i morti usciranno dalle tombe e noi… periremo.” Proclamò solenne, Nikolais rise.
“Perché?” Domandò invece il ragazzo, confuso.
“La sala da pranzo di questa casa è una specie di luogo sacro, intoccabile.” Spiegò Camus. “Io e Elettra ci beccavamo dei cazziatoni infiniti anche solo a passarci dentro, da piccoli.”
“Chi è Elettra?” Interrogò Milo.
“Mia figlia.” Rispose Nikolais. “Io sono il padrone di casa.”
“Milo, ti presento Nikolais Niakros, il Custode della Biblioteca.” Fece Camus ampolloso. “Nikolais, lui è Milo, un promettente giovane allievo del corso di addestramento.”
I due si strinsero la mano ed il ragazzo rimase subito favorevolmente colpito dall’aria mite e gentile dell’uomo, ma anche dalla sua stretta energica.
Dopo le presentazioni, i tre, guidati dal padrone di casa, si diressero in sala da pranzo, passando dal corridoio – perché Danae non voleva che gli ospiti passassero dalla cucina, non era il modo.
“Hey.” Fece Camus, richiamando Milo; lui si girò. “Non farti illudere dai suoi modi carini…” Gli disse, indicando Nikolais con un cenno. “…è un cazzo di osso duro.” Il ragazzo sorrise.

La sala da pranzo era una stanza chiara, con una porta finestra alta che conduceva nel giardino retrostante la casa. Era arredata con mobili scuri, dall’aria antica ed era perfettamente in ordine. Il tappeto era allineato alle grandi mattonelle di cotto del pavimento, la tovaglia bianca col bordo di pizzo non faceva una piega, sul grande tavolo ovale. I piatti e le posate splendevano.
“Sono degno di tutto questo?” Domandò Camus, leggermente allarmato.
“Beh, non vieni a cena da quasi un anno, Jean.” Rispose tranquillo Nikolais, sedendosi a capo tavola.
“Jean?” Fece Milo, occhieggiando il cavaliere.
“Uhm, sì…” Mormorò imbarazzato lui, deviando lo sguardo. “È il mio vero nome: Jean Michel…”
“Eheheh!” Rise il ragazzino. “Hai pure il nome da checca!”
“Non è un nome da… Ohhh, che palle! È francese, ok?” Replicò Camus.
“Ah, sei francese!” Esclamò divertito Milo, alludendo al discorso precedente sull’erre moscia.
“Oh, tappati la bocca!” Ribatté stizzito l’altro.
“Siete divertenti.” Commentò Nikolais, che li osservava all’altro capo della stanza.
Milo, quindi, si spostò, avvicinandosi ad un pianoforte a muro su cui erano disposte diverse cornici. Erano vecchie foto. Nikolais molto più giovane, con una bella donna bionda e due bambini altrettanto biondi. Il padrone di casa con un ragazzo vestito di tunica e un cappello strano, una bimba per mano. Due bambini sorridenti, lei bionda, lui con i capelli scuri. Una ragazza bella come una dea seduta su un muretto, sotto degli olivi.
“Questo sei tu?” Domandò Milo a Camus, che gli si era affiancato e osservava a sua volta le foto.
“Sì.” Annuì lui, guardando la foto dei due bambini. “Ero appena arrivato qui.”
“Sembri felice.” Commentò il ragazzo, con un tono leggermente triste.
“Non capivo una parola, ma lei mi ha aiutato.” Raccontò il cavaliere, indicando la bambina insieme a lui nella foto. Milo annuì.
“Questo chi è?” Chiese ancora; stavolta la foto era quella del giovane laureato.
“Aristoteles, il fratello di Elettra.” Rispose Camus. “È molto più grande di noi, non vive più qui da tanto.” Aggiunse, poi fece un breve sorriso all’amico.
“Lei è Elettra?” Milo fece la domanda indicando la foto della ragazza sotto gli olivi. Camus annuì, fissando rapito l’immagine.
Ricordava che era stata scattata nella primavera di quasi sei anni prima. Di lì a poco i lunghi capelli biondi di Elettra sarebbero stati tagliati cortissimi per la cerimonia di consacrazione a Zeus. Ma in quella foto erano ancora lunghi fino ai fianchi e si muovevano nella brezza, insieme alle pieghe del suo abito bianco, con lo sfondo dei mattoni rossi del muro e delle foglie scure degli alberi. Aveva un sorriso puro e meraviglioso. Prima che succedesse tutto. Prima che lui la perdesse. Prima del dolore e delle responsabilità. Prima di Aioros.
“Ma è vera?” La voce ancora infantile di Milo lo riportò alla realtà.
“Cosa?” Chiese confuso.
“Lei, è vera?” Domandò ancora il ragazzo.
Camus sorrise beffardo. “Oh, sì che lo è, ed ha anche un sacco di difetti!” Proclamò con le mani ai fianchi.
“Non parlare male della mia bambina!” Intervenne la voce severa di Danae. “E adesso andate a lavarvi le mani, che è pronto in tavola!” Ordinò quindi. Loro poterono solo obbedire.

Erano ormai seduti a tavola e Nikolais osservava da un po’ il ciondolo al collo di Milo. Era un ovale d’oro appeso ad una catenina finissima che pure si sarebbe detta estremamente resistente. Sul medaglione, oltre una cornice intarsiata a fune in oro rosso, svettava in rilievo la figura di uno scorpione, contornata da uno sfondo di piccoli rubini. Tutta la collana sembrava antica.
L’uomo spostò lo sguardo su Camus e lui rispose con un’occhiata esauriente, come se dicesse: “l’hai notato anche tu, eh?”.
Nikolais, essendo il custode della biblioteca ed avendo conoscenza personale con più di un cavaliere d’oro, era perfettamente consapevole dell’esistenza dei gioielli dello zodiaco. Sapeva che Camus possedeva un bellissimo e pesante anello d’oro con una tormalina rossa e incisioni riportanti i simboli di Acquarius; lo indossava solo in occasioni importanti. Elettra, invece, spesso portava il grande braccialetto di perle d’oro e lapislazzuli, dono di Aioros, tutto ciò che era rimasto in Grecia delle sacre vestigia di Sagitter. Insomma, ogni sacra armatura d’oro era accompagnata da un gioiello che riportava le insegne della costellazione e aveva incastonata una pietra simbolica.
Ma quello che indossava Milo non poteva essere uno di quei gioielli, era impossibile. Il ragazzo non era ancora un cavaliere e, a quanto ne sapeva, l’ultimo custode di Scorpio era scomparso anni prima, il ragazzo non poteva essere già nato.
“Milo.” Lo chiamò l’uomo, distraendolo dal suo piatto di cozze gratinate.
“Sì?” Fece il ragazzo, senza distogliere lo sguardo dal paradiso in cui era affondato il suo naso e che presto avrebbe fatto godere anche il suo palato.
“Tu da dove vieni?” Gli domandò delicatamente Nikolais. Lui lo guardò perplesso.
“In che senso?” Replicò aggrottando la fronte.
“Beh, Jean è nato in Francia ed ha vissuto lì fino ai sei anni, circa.” Spiegò tranquillo l’uomo. “Tu dove sei nato?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle, afferrando la prima cozza. “Non lo so, da che mi ricordo sono sempre stato qui.” Rispose infine, con tono indifferente, prima di cominciare a mangiare.
“Potresti essere nato al Santuario, quindi.” Insisté Nikolais, prendendo anche lui la forchetta per iniziare il proprio pasto.
“Boh.” Fece Milo, stringendosi ancora una volta nelle spalle.
“Il medaglione, lo hai da molto?” Chiese allora il padrone di casa, senza guardare, intento ad estrarre il polposo ripieno di una cozza.
Milo sollevò gli occhi su di lui, allarmato, poi strinse il pugno sul ciondolo. “È mio, ce l’ho da sempre.” Affermò poi, deciso.
“Nessuno mette in dubbio che non sia tuo, Milo.” Gli disse comprensivo l’uomo. Il ragazzo guardò Camus e poi Nikolais e quindi lasciò la presa sul medaglione.
“Qualcuno lo ha fatto, Ioria tempo fa ha detto che l’ho rubato, ma non è vero.” Raccontò l’aspirante cavaliere. “Io l’ho sempre avuto.”
“Vedo che ci sei molto affezionato.” Intervenne Camus, cercando di stemperare la tensione. Milo guardò di nuovo la collana.
“È la cosa più preziosa che ho e pensavo…” Disse con una piccola smorfia.
“Cosa?” Lo incitò Nikolais.
“Beh, forse è collegato alla mia famiglia… insomma, qualcuno dovrà avermi messo al mondo, non sono nato sotto un cavolo.” Spiegò risoluto.
“Tutti noi vorremo saperlo.” Affermò mogio Camus, facendo voltare Milo verso di se. “Spero che tu possa riuscirci, un giorno.”
Nikolais sorrise tristemente a quelle parole. Tutti quei ragazzi erano orfani, molti reclutati in istituti in giro per il mondo. Quasi tutti senza un passato che potesse essere chiamato tale e senza alcuna possibilità di recuperare le proprie radici.
Lui però sapeva quale era il luogo in cui tutte quelle strade perdute s’incontravano. C’era una stanza, nella biblioteca, il cui accesso era proibito anche a lui, dove erano depositati e archiviati i documenti di tutti quei bambini. Di Jean Michel Tessier, il piccolo francese arrivato da un orfanatrofio della Borgogna. O di questo ragazzo dagli occhi vispi e dolci, color cristallo azzurro, che non aveva nemmeno un nome da ricordare.
“Su…” Incitò l’uomo, ostentando buonumore. “…mangiamo, o Danae non ci servirà il resto!”

L’orto era buio e fresco, profumava di rosmarino e salvia, col grande ulivo che torreggiava al centro, immutabile nel corso degli anni, se non per la varietà delle verdure piantate.
Camus si avvicinò al tavolo di legno, sotto alla tettoia coperta di viti rampicanti; Nikolais gli sorrise alla luce della vecchia lampada a olio che illuminava fiocamente lo spazio circostante.
“Ouzo?” Invitò il cavaliere, sollevando la bottiglia di liquido chiaro verso l’uomo. Lui lo guardò male. “Sono maggiorenne, adesso!” Sbottò Camus.
“Siediti.” Gli concesse allora il padrone di casa. Il ragazzo si mise a cavallo della stessa panca in cui era seduto l’altro e divise il liquore in due bicchierini.
“Ora spiegami cos’è questa storia di Milo.” Lo incitò quindi Nikolais, dopo aver preso il proprio bicchiere. “Non è una punizione, mandarlo a lavorare in biblioteca con me.”
“Ne sei sicuro?” Ribatté malizioso il ragazzo.
“Jean.” Lo gelò Nikolais.
Solo lui ed Elettra avevano il potere di riportarlo all’ordine col solo pronunciare il suo nome. Ma lui non era sicuro di riuscire a spiegare bene cosa stava succedendo. Chinò il capo, poi prese un sorso di ouzo che gli scaldò la gola.
“Non è giusto.” Mormorò quindi.
“Cosa?” Chiese delicatamente l’uomo, avvicinandosi a lui. Camus risollevò lo sguardo verso il buio del bosco.
“Forse la nostra vita sarebbe stata dura lo stesso.” Affermò, evidentemente alludendo alla condizione di orfano sua e degli altri cavalieri e aspiranti tali. “Ma non ci è stata data la possibilità di scegliere.” Aggiunse serio.
Nikolais gli appoggiò una mano sulla spalla. “Avresti voluto una vita diversa?” Domandò poi.
Camus si risollevò, mettendosi dritto. “No, sono fiero di essere un Cavaliere.” Ammise orgoglioso. “Il mio equilibrio, però, l’ho trovato solo quando ho conosciuto te e la tua famiglia.” Gli disse, guardandolo negli occhi.
“È una bellissima cosa, quella che hai detto.” Gli disse Nikolais, con un sorriso dolce.
“Non voglio essere l’unico che ha avuto questa opportunità.” Ribatté però il cavaliere, guardando negli occhi l’uomo. “Lui non ce la farà se non ha qualcuno che lo aiuta e tu puoi farlo.”
“Sono fiero di questa tua fiducia in me.” Soggiunse Nikolais, stringendogli la spalla. “Mi occuperò di Milo, stai tranquillo.” Gli promise poi.
“Grazie.” Fece il ragazzo, prima di stringergli il braccio.
“Hey!” Chiamò una voce giovane e arrabbiata. Si voltarono per vedere Milo avvicinarsi a grandi passi alla tettoia. “Mi hai lasciato nelle mani di Danae!” Protestò quindi.
“Hai chiesto tu se potevi dare una mano…” Replicò distrattamente Camus.
“Mi ha fatto lavare i piatti!” Esclamò indignato l’apprendista cavaliere. Camus e Nikolais ridacchiarono, mentre lui faceva un’espressione offesa a braccia conserte.
“Milo, da domani…” Gli annunciò poi l’uomo. “…farai qualcosa di molto più interessante…”

°°°°°

La biblioteca del Santuario era sembrata a Milo, fin dal primo giorno, un luogo enorme, solenne e tetro. I torreggianti scaffali ingombri di libri, gli infiniti rotoli di antiche pergamene debitamente arrotolati e classificati, i vetusti, titanici tomi impolverati che avevano l’aria di non essere stati aperti dai tempi di Aristotele, continuavano a dargli l’impressione di trovarsi in un posto fuori dal tempo, che viveva di se stesso, senza legami col mondo di fuori.
Nikolais, però, con l’andare dei giorni, aveva cominciato a fargli capire quanto in realtà viva e importante fosse la biblioteca. C’era gente che andava e veniva, chiedeva, che andava aiutata a trovare quel che cercava. C’erano libri che uscivano ed entravano, che andavano registrati, classificati, analizzati, restaurati, curati: i libri erano vivi. Ed il lavoro poteva essere piuttosto impegnativo, specie se ti sei alzato all’alba e fino a mezzogiorno ti hanno massacrato sul campo di addestramento.
Per questo il custode, pur nella sua severità, era a volte indulgente col giovane aiutante, provato dallo sforzo. Sempre che non si addormentasse su un’antica bibbia rinascimentale e la decorasse con la propria saliva come stava facendo adesso. Nikolais incrociò le braccia sul petto, continuando a fissare il ragazzo riverso sulla scrivania, con la testa posata sulle soffici pagine in pergamena del prezioso volume.
“Milo.” Lo chiamò senza inflessione, lui non si mosse. “Milo.” Alzò il volume e aggiunse un colpo di tosse. L’aspirante cavaliere sobbalzò, raddrizzandosi sulla sedia.
“Sì?” Fece confuso, guardandosi intorno.
“Stavi sbavando sui miei libri.” Gli disse il custode, accennando alla scrivania; lui abbassò gli occhi sulla macchia più scura sulla carta e arrossì. “Milo, sai che puoi riposarti quando vuoi, ma vorrei che non lo facessi su una Bibbia del Cinquecento.”
Milo guardò il libro e poi si strinse nelle spalle. “È solo carta…” Mormorò per giustificarsi.
“Ne abbiamo già parlato…” Replicò l’uomo, con tono retorico e un po’ deluso. “Non è solo carta e inchiostro, Milo, sono parole.” Continuò con tono saggio e severo. “E le parole scritte sono la cosa più importante che abbiamo, perché restano e testimoniano che siamo esistiti.”
Milo osservò ancora Nikolais, poi abbassò gli occhi rammaricato. “Io… io non volevo, ma mi sono alzato alle quattro stamattina…”
L’uomo gli fece un sorriso bonario. “Stai tranquillo, non è un danno irrimediabile.” Lo rassicurò quindi. “Ma credo che dovresti cominciare a leggere qualcosa.”
Il ragazzo spalancò gli occhi allarmato. Non era mai stato un lettore appassionato e solo l’idea di mettersi su uno di quei libroni che puzzavano di muffa lo inorridiva.
“Ti darò qualcosa di adatto a te, prima che te ne vada.” Gli disse ancora l’uomo.
“E quando leggo? Non ho tempo…” Tentò il ragazzo.
“È la scusa di chi non ha voglia di farlo.” Ribatté prontamente Nikolais, Milo stava imparando che quell’uomo era implacabile. “Troverai il tempo, un po’ alla volta, i libri non vanno a male, possono durare secoli, è il loro vantaggio.”
“Ma…” Provò ancora Milo, alzando una mano.
“No.” Lo bloccò subito l’altro. “Non capirai mai quanto importanti siano le parole, se non lo impari da chi ha capito la vita prima e meglio di te.” Aggiunse deciso. “Prima di uscire, vieni da me.”

Milo rimase sorpreso. Non si trattava di un tomo polveroso. Era un libro snello, quasi tascabile, “narrativa per ragazzi” lo definì Nikolais. “Zanna bianca” di Jack London. E lui lo lesse. Lo appassionò davvero tanto, con le ambientazioni, le avventure, l’amicizia tra il protagonista ed il cane-lupo. Ne parlò col custode, in lunghe discussioni e appena lo finì ne pretese subito un altro.
Lui e Nikolais parlavano sempre dei libri che il ragazzo leggeva. Sembrava quasi che l’uomo lo facesse apposta, che si tenesse una mezz’ora, alla fine del lavoro, per parlare con lui dei racconti, dei personaggi, delle trame, per spiegargli punti che lui non aveva afferrato bene. Milo si domandò se lo avesse fatto anche con i suoi figli e Camus, prima di lui. Ad ogni modo, gli piaceva talmente tanto approfondire le sue letture, che non ci volle molto prima che Nikolais gli assegnasse testi più difficili e profondi e facesse di lui un appassionato lettore.
Il lavoro in biblioteca, se anche era cominciato come una punizione, si stava rivelando una delle cose migliori capitate a Milo da quando era iniziato il suo addestramento al Santuario. Anche perché, finalmente, qualcuno stava nutrendo il suo spirito e non solo addestrando il suo corpo.

CONTINUA



   
 
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