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Autore: edwardandbella4evah    13/11/2012    20 recensioni
Courtney e Duncan ai tempi dell'Olocausto. Courtney è un'Ebrea, Duncan un soldato tedesco.
TRADUZIONE ♪
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan | Coppie: Duncan/Courtney
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
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Non riuscivo a crederci. Non riuscivo proprio a crederci. Come era stato possibile che fossi sopravvissuta? Perché oggi, tra tutti gli altri giorni, proprio oggi le camere a gas erano fuori servizio? Tutto era andato come volevo, tutto era andato secondo i piani. Noi tutti eravamo stati costretti a spogliarci dei nostri vestiti, e poi spinti in una piccola, angusta stanza, priva di finestre se non per una piccola vetrina sulla porta. Ero stata nervosa e in attesa della mia morte, ma il bambino dentro di me mi aveva tranquillizzata. Le mani mi erano rimaste sulla pancia tutto il tempo, e i suoi frequenti calci e tremori mi avevano fatto pensare che ogni cosa si sarebbe poi aggiustata.
Avevo capito di essere pronta a morire.
E poi, improvvisamente, eravamo stati tutti spinti fuori dalla stanza, con le guardie che ci gridavano di rivestirci. Dietro di me alcune persone avevano pregato Dio per ringraziarlo di averli salvati. Qualcuno aveva ipotizzato che vi fosse stata una perdita di gas. La mia mente non riusciva a capacitarsi dello sfortunato colpo di fortuna che mi era capitato, tutto quello su cui riuscivo a concentrarmi era il mio minuscolo bambino che sembrava gioire dentro di me; quasi sorrisi. Eppure ero così sopraffatta dalla miseria; ma quel giorno non sarei morta, e Dio sapeva che non avrei avuto più la forza o il coraggio di riprovare questa bravata. Ero a dir poco abbattuta.
Questo significava che sarei stata incinta per tutto il prossimo mese, e poi avrei dato alla luce il mio bambino. Questo stava anche a significare che avrei dovuto dire a Duncan della mia gravidanza; stasera. Non avevo la minima idea di come si sarebbe evoluta la cosa, eppure ero sicura al settantacinque per cento che la notizia non gli avrebbe fatto piacere. Come avrebbe potuto esserne contento, quando nessuno di noi due era pronto ad avere dei figli? Soprattutto un figlio come questo: nato da uno stupro.
Sospirai, sprofondando sempre più nell’autocommiserazione, e mi scostai i capelli dal viso, sdraiandomi sul mio ripiano e posando una mano sull’addome. Davvero ero capace di odiare mio figlio al punto di uccidere sia lui che me? In quel momento, quella decisione avventata mi fece capire di non aver considerato bene ogni cosa. Non sarebbe stato giusto uccidere il mio bambino, nonostante non fossi pronta per lui. Sì, ero sicura che il mio bambino sarebbe stato un lui, uguale a suo padre.
Ma, in primo luogo, come avrei informato suo padre di tutto ciò? Cosa gli avrei detto? E se lui fosse venuto a sapere quello che avevo fatto circa mezz’ora fa? Di certo m’avrebbe scuoiata viva. Improvvisamente, allontanai la mano dalla pancia disgustata. Come potevo amare qualcosa che avrebbe finito col rovinarmi la vita? Come potevo amare una creazione mostruosa, ridicola, impropria e non desiderata?
Non potevo.
La risposta era davvero semplice. Non potevo amare qualcosa che avrebbe ridotto la mia vita in piccoli, minuscoli brandelli. Eppure la sua nascita era inevitabile, in quanto dubitavo che avrei avuto di nuovo la forza di cercare il suicidio. Sospirando, ignorai la schiena dolorante e riflettei su come avrei potuto dare la notizia a Duncan. Avrei dovuto andare dritta da lui e dirglielo? Oppure avrei dovuto farglielo capire da solo?
Il tempo passava.
L’orologio ticchettava.
Ma, dopo un’ora, ancora non avevo trovato un modo per dirglielo, per paura della sua reazione. In quel lasso di tempo mi ero abbattuta, in realtà non preoccupandomi molto di cosa mi sarebbe successo. Duncan non mi avrebbe cacciata a calci, sicuro. Lui mi amava, e avremmo superato insieme questa situazione; avremmo dovuto fuggire solo un po’ prima del previsto, al fine di evitare che andassi in travaglio nel treno.
Tuttavia, pur pensando questo, continuavo a sentirmi abbattuta, come se un’ondata di pessimismo mi avesse presa in pieno; un bimbo, un dannato bimbo. Duncan ed io stavamo per avere un bimbo. Non riuscivo a farmene una ragione, nonostante il bambino scalciasse di continuo dentro di me. Continuavo a non volere un figlio, ma non potevo farci nulla. Sarei stata costretta a diventare mamma, costretta ad amare questa creatura impura e indesiderata. Se io la odiavo così tanto, Duncan di certo l’avrebbe odiata ancora di più.
Quando alzai lo sguardo, la guardia stava sulla soglia, così scesi lentamente dal ripiano, la mano ferma sulla pancia tutto il tempo. Non capivo perché sentivo di dover stare attenta, di dover stare attenta al bambino. Mi tremò il labbro al pensiero.
Mi sentivo una persona orribile a non voler essere sua madre, a non potergli volere bene. Ovviamente non era colpa sua, era colpa mia e di Duncan, e allora perché il bambino avrebbe dovuto pagarne le conseguenze? Non era giusto che un bambino dovesse nascere tra persone che non lo amavano e che non lo volevano, pure se non aveva fatto niente di sbagliato, e a causa di una famiglia che non lo meritava.
Poiché mi sentivo in colpa, continuavo a tenere la mano sull’addome, accarezzandolo con movimenti circolari come per assicurare al bambino che stava bene. Che sarebbe stato bene; ero io quella che non avrebbe avuto un lieto fine. Lui sarebbe stato amato, per quanto sarebbe potuto essere forzato il nostro amore. Sarebbe stato al sicuro; appena arrivati in Svizzera, niente e nessuno sarebbe stato capace di farci del male. Avrebbe avuto il padre più severo, e la madre più apprensiva del mondo. Non avrei fatto del male a mio figlio di proposito, a dispetto del mio odio nei suoi confronti. Dovrei avere abbastanza faccia tosta da riuscire a prendermene cura e da cercare di essere una buona madre.
Vedendo dove giaceva la mia mano, la guardia che mi stava scortando ridacchiò, ed io mi incupii, seguendola a malapena agli alloggi di Duncan. Mi sentivo congelare ad ogni passo che facevo; ero un passo più vicina al mio amante che scopriva di essere padre. Incapace di trattenere un gemito, tremai, e non per il freddo. Il mio pollice stava ancora rassicurando il bambino non ancora nato dentro di me del fatto che sarebbe stato bene, che sarebbe andato tutto bene. Sarebbe andato tutto bene; sarebbe dovuto andare tutto bene. Non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Eppure, ad ogni passo che facevo verso la mia condanna, non potevo fare a meno di sentirmi ancora più disperata e sconsolata.
Duncan mi aprì la porta, un’espressione d’odio sul volto a causa della guardia che poteva vederci. Io tremai, e non per la sua recita. Mi afferrò rozzamente per il collo, tirandomi dentro mentre mi gridava insulti e maledizioni, in tedesco, nell’orecchio. Io non potei fare a meno di liberarmi di quel paio di lacrime che volevano fuggirmi dagli occhi. Una volta chiusa la porta, mi lasciò andare immediatamente e rise della sua malvagia recita, mentre io mi strinsi forte, poiché ero sul punto di esplodere a causa dell’annodata sensazione che mi sentivo dentro.
Lui mi diede un’occhiata, i suoi occhi si socchiusero ma continuarono ad avere quell’espressione giocosa. Mi strinse dolcemente tra le braccia, assicurandosi che il mio viso fosse inclinato verso l’alto in modo che potessi guardarlo direttamente negli occhi. “Ti ho spaventato, mia Prinzessin?” mi chiese piano, facendo correre il pollice sulla mia guancia solcata dalle lacrime. Sentendomi come se stessi per vomitare da un momento all’altro, a malapena alzai lo sguardo, incapace di rispondere. Alla mia mancata risposta, poiché continuavo semplicemente a fissarlo ad occhi spalancati, spenti, il suo sguardo fu preso dalla preoccupazione. “Ti ho mica fatto molto male, cara?” . Aveva le mani sulla mia nuca e la massaggiava con delicatezza, pensando che stessi così male per il dolore fisico.
“S-sto bene” riuscii a dire dopo un po’, abbassando il capo. Solo che lui non mi credette e mi costrinse di nuovo a inclinare la testa verso l’alto, lanciandomi un’occhiata sospettosa. Mi ritrassi, il suo sguardo mi faceva credere che lui sapesse cosa fosse successo un paio d’ore prima. Solo che lui non poteva saperlo. Poteva? Lentamente, osservai come la sua espressione si fosse contorta quasi per disperazione, assumendo una faccia così preoccupata che per poco non fece preoccupare anche me.
“Tu… tu sai quanto ti amo… giusto, Channa?” mi chiese con tranquillità, accarezzandomi amabilmente il volto con le mani. Annuii lentamente, incerta su cosa dire. Certo che sapevo che mi amava; non era palese? “E non sei abbastanza felice di stare con me? Vuoi qualcos’altro?” . Scossi la testa meccanicamente, non ero affatto sicura del fatto che sarei riuscita a dire qualcosa, ma non avevo dubbi che sapesse sul peccato che avevo quasi commesso.
“Quindi… perché mai avresti dovuto farlo? Perché mai saresti dovuta andare lì… ad ucciderti?” disse tutto d’un fiato, con un tono pieno di dolore e preoccupazione. Mi morsi il labbro, cercando di trattenere le lacrime che volevo tanto versare. Lo sapeva; sapeva che avevo cercato di ammazzarmi. Adesso dovevo dirgli la verità. Tuttavia non riuscivo a costringere le parole fuori dalla mia bocca, che continuava a restare chiusa; poiché restavo in silenzio, lui dovette continuare con parole che mi pugnalarono ripetutamente il cuore, facendomi quasi rimpiangere quello che avevo fatto.
“Non hai pensato proprio a me quando lo hai fatto? Non hai pensato a quanto avrei sofferto? Perché!? Perché avresti dovuto fare una cosa tanto egoista e stupida?” iniziò a gridarmi contro, afferrandomi per le spalle e agitandole finchè gli occhi quasi non cominciarono a rotearmi all’indietro. A dire il vero non avevo pensato a lui. Tutto quello che era stato oggetto dei miei pensieri in quel momento eravamo stati il bambino ed io, nessun altro. In quel momento lui non aveva avuto molta importanza, e solo adesso riuscivo a scorgere la ferita che gli avevo inflitto.
I suoi soliti occhi blu intenso adesso erano spalancati e sfocati, traboccanti dolore, dolore, e ancora dolore; come se un paio d’ore li avessero invecchiati profondamente. Il suo portamento fiero era ora così tremante che non sapevo cosa pensare. Mi vergognavo, mi vergognavo profondamente di cosa avevo quasi fatto, e, bambino o non bambino, ciò avrebbe finito col rovinare il nostro rapporto.
Lo guardai intontita, chiedendogli con uno sguardo spento di avere pietà di me, di smetterla di trattarmi così selvaggiamente. Mi vergognavo già abbastanza di mio, non mi serviva un ulteriore dolore.
“Sei stata fortunata! Sei stata fortunata che non ci fosse abbastanza cianuro da ammazzare tutti!” , potevo chiaramente vedergli delle lacrime ardere negli occhi; lui mi scosse più potentemente e poi mi lasciò andare, facendomi cadere a terra. “Tu… tu… non so nemmeno più cosa dirti. Non posso neanche guardarti che mi viene la voglia di… di…” sospirò frustrato, poi diede un pugno sul muro di fronte a lui. Spalancando gli occhi per la sua dimostrazione di potenza, mi stupii del fatto che la mia bravata avesse fatto crollare il muro di compostezza che aveva costruito così bene e che aveva mantenuto così a lungo. Lui mi guardò febbricitante, poi si accovacciò accanto a me e mi prese il viso tra le mani con dolcezza, baciandomi ripetutamente. “Non mi ami, Prinzessin? Non sei felice di passare la tua vita con me? Dillo… dillo e ti lascerò andare. Niente più catene, sarai libera di vivere la tua vita. Ma, ti prego, dimmi che è stato solo un incidente, dimmi che mi ami ancora, ti prego, dimmi che tutto è come prima. Dimmi che stavi solo cercando di salvare qualcuno; ti perdonerò, ti perdonerò subito, ma, ti prego, dimmi che mi ami ancora e che va tutto bene”.
Le sue parole conficcarono ancor di più il coltello nella piaga, mentre io continuavo a stare lì, inespressiva, lasciandomi baciare e supplicare. Era così frenetico nel voler stare con me, e così ansioso di sentire che lo amavo ancora e che andava tutto bene. Ma niente andava bene. Ogni cosa sarebbe cambiata drasticamente. Prima che me ne rendessi conto, iniziai a piangere ancora una volta, singhiozzando come se non ci fosse stato un domani. I muri mi si strinsero attorno, le parole di Duncan ormai erano solo dei frenetici mormorii che non riuscivo più a comprendere. Non riuscivo a vedere nulla, potevo a malapena udire qualcosa. Respiravo con dei brevi sussulti, così irregolari che temevo di avere un collasso.
Un colpo.
Al momento del mio piccolo attacco di panico, la mano mi era finita sulla pancia, e il colpetto che avevo sentito dentro di me era stato più potente dei precedenti. Si era trattato del mio bambino che aveva cercato di tranquillizzarmi, e la cosa mi aveva fatto smettere. Nonostante le lacrime continuassero a scendermi sul viso, i singhiozzi si spensero, così fui di nuovo in grado di sentire le parole di Duncan. I muri erano al loro posto consueto, e lo spesso strato di agitazione non mi stava più soffocando.
Riuscivo a parlare.
“Duncan, basta” , sussurrai, quasi supplicandolo di smetterla con le sue frenetiche richieste. Lui fece come gli avevo detto e si allontanò, provando a lasciarmi un po’ di spazio affinché potessi ricompormi, ed io gliene fui grata. Prendendo un paio di respiri profondi, mi voltai verso di lui, e lo fissai dritto negli occhi. “Non è stato un incidente, e non stavo cercando di salvare qualcuno. Non l’ho fatto perché non ti amo più, sarebbe un’ipotesi assurda. Non dirò che tutto è come prima, poiché è cambiato qualcosa di molto importante. Ma cercare di uccidermi non è stato un incidente, l’ho fatto di mia spontanea volontà”.
“E allora perché lo hai fatto?” sussurrò lui, lanciandomi uno sguardo affranto. Prendendo un respiro profondo, decisi che gliel’avrei detto ora o mai più.
“Perché sono incinta”.
Non riuscivo a guardarlo; non potevo sopportare di guardarlo, per timore e per quello che avrebbe detto. Stava in silenzio. Stette zitto così a lungo che alla fine dovetti guardarlo. Lui mi fissò, un’espressione aspra padroneggiava ogni lineamento del volto. “Stai mentendo”, sputò, i suoi occhi fissi per l’incredulità. Facendomi piccolina, con le lacrime che mi scorrevano giù per le guance, mi tolsi i vestiti di dosso, alzandomi la canottiera in modo da mostrargli il mio pancione. Lui si limitò ad osservarlo ad occhi spalancati, un’espressione incredula gli comparve sul volto. Lentamente, vi poggiò sopra una mano, accarezzandolo con la massima delicatezza. Sentimmo il colpetto emesso dal nostro bambino, e la sua mano si ritrasse immediatamente. Senza degnarmi di uno sguardo si alzò e mi passò accanto, superò la porta e la chiuse di scatto.
Non era una di quelle reazioni che mi aspettavo; era l’unica reazione che non avrei mai voluto si fosse tramutata in realtà. Restai in attesa, sperando che fosse soltanto in preda allo shock, sperando che tornasse indietro e che si scusasse, e che progettasse cosa fare, da brava persona matura.
Ma non lo fece. 
  
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