Consumato dal tempo
Elisa
Piove. Oggi solo un po'. A Londra piove
spesso, non è una novità. Nessuno ci fa più caso. Se ci vivi
abbastanza a lungo, ti dimentichi anche di prendere l'ombrello prima
di uscire di casa.
A John piace la pioggia. Beh, piaceva. Ora in
realtà non è sicuro che gli piaccia realmente qualcosa.
Non gli sembra normale, ma non lo
ritiene un problema. È un medico, dopotutto. Sarebbe stupido da
parte sua presumere di stare bene – e convincersi di questo –
quando non è così. La differenza sta nel fatto che non ne è
davvero preoccupato. La sua psicoterapeuta gli ha sempre fatto pesare
il fatto di non riuscire a esprimersi. Ora lo fa anche troppo bene, e
la prima cosa che ha espresso quando se n'è reso conto è stato il
desiderio di abbandonare il suo studio e di smettere di spendere
trecentocinquanta sterline al mese per sentirmi dire che ho bisogno
di riprendere in mano la mia vita.
La donna ne è rimasta talmente scioccata che John potrebbe giurare
di averle provocato un attacco di cuore, ma non è sicuro, perché è
uscito all'aria gelida dell'inverno poco dopo, troppo presto per
sentirla strillare o piangere o qualunque cosa abbia fatto.
John, come medico
di se stesso, sa di non stare bene. È ovvio, come potrebbe? Chiunque
gli stia vicino può accorgersene. È come girare per la strada con
un cartello luminoso sulla fronte, e un corvo che gracchia a ogni
passo.
Ciò che realmente
John ha fatto è stato smettere di autocompatirsi e di nasconderlo.
Di mentire.
Non
perché è un soldato, che sciocchezza,
ma per il semplice fatto di essere un uomo vivo,
nel senso più letterale del termine.
Non
può dimenticare, perché sarebbe tradirlo,
non può uccidersi, perché sarebbe tradirlo,
non può ricostruirsi una vita, perché sarebbe tradirlo.
E allora John fa
l'unica cosa sensata da fare in questi casi: vive.
A John non piace, ma vive lo stesso, perché gli è stata donata. Ma nessuno
può costringerlo ad essere felice per questo.
- Fa un po'
freddo, eh?
John annuisce
piano, senza voltarsi, ascoltando il suono ritmico del treno sui
binari. È una donna sulla settantina, a giudicare dalla voce. Non ha
figli, altrimenti qualcuno l'avrebbe accompagnata dal suo medico –
le lastre che spuntano dalla borsa sono una prova lampante – in una
giornata gelida come questa. Probabilmente suo marito è morto da
poco, non indossa la fede ma ne porta ancora il segno all'anulare.
Vive da sola, a giudicare dalla spesa esigua che ha fatto al
supermarket vicino alla stazione e si ferma a dare cibo ai cani e
gatti randagi del quartiere prima di rincasare, considerando le
scatolette di vario tipo che fanno capolino dalla busta di plastica.
John sospira.
- Sì, davvero
freddo.
La
fermata per Baker Street è passata da un po'. Nessuno è sceso,
nemmeno lui. Il treno è un po' affolato, ed è strano che neanche
una persona abbia deciso di mettere piede in quella zona del centro.
John non ci fa caso, ma una piccola, piccolissima,
stretta al cuore gli intacca una parte del muro che si è costruito
attorno.
- Dove stai
andando con questo tempaccio, giovanotto? Senza ombrello ti
ammalerai.
- Non lo so,
Signora.
La donna rimane in
silenzio per qualche istante. Il treno procede spedito verso la sua
destinazione. John vorrebbe essere sicuro della propria meta quanto
lo è il macchinista; per ora si accontenta di lasciarsi alle spalle
i cattivi pensieri che stanno tirando calci alla sua scatola cranica
e cercano di prendere possesso del suo cuore.
- Tieni,
ragazzo. Ti servirà quando uscirai da qui.
La Signora gli
porge un ombrello. È scuro, un po' consumato dal tempo. John si
sforza di guardarla negli occhi per la prima volta da quando lei ha
cominciato a parlargli e capisce subito il tremendo errore che ha
commesso. Sono celesti, di un colore particolare e un po' più
chiaro dell'estate. Ha la pelle segnata dalle rughe dell'età e
il
sorriso dolce di chi non ha mai perso la speranza. John è un po'
invidioso di come la vita di questa donna deve essere stata felice,
prima della morte del marito e nonostante l'assenza di prole.
A lui non rimangono
nemmeno i ricordi a cui aggraparsi.
- Grazie. Ma no,
Signora. Non ne ho bisogno.
Il
treno si ferma in un punto qualsiasi di Londra e John schizza fuori
dal convoglio senza voltarsi indietro, con il fiato corto e un
principio d'incendio che gli sbriciolerà i polmoni, se non riesce a
liberarsi della sensazione di essere ancora – di nuovo, e sempre –
così irrimediabilmente triste.
L'acqua è fitta e
un po' pesante. John la sente scivolare sui capelli e le spalle,
infiltrandosi sotto il cappotto che non ha chiuso e il maglione un
po' troppo largo che non lo copre abbastanza. Ha freddo, ma non è
abbastanza attento a se stesso per rendersene conto. C'è troppo
ghiaccio dentro per sentirlo anche fuori.
A John non importa, ma agli
altri sì.
E quel cartello luminoso sulla fronte dice a chiare
lettere ho bisogno di lui.
John non vuole
accettarlo, e questo forse è il vero nocciolo di tutta la questione.
Perché se John accetta che ha bisogno di lui, allora sarà anche
costretto ad accettare che è morto.
Non può
permetterselo. Non può, non vuole.
Sherlock è ancora
lì con lui: deve solo trovarlo.
Corre veloce, un
po' più veloce di quanto il suo cuore martoriato gli consenta, e
attraversa la strada senza accorgersi di una macchina che arriva e
che quasi gli finisce addosso. Non chiede scusa, non si ferma, muove
le gambe in maniera automatica, e il fiato gli si mozza in gola ogni
volta che urta qualcuno perché potrebbe essere lui, ma non è lui,
nessuno di loro lo è.
Forse avrebbe
dovuto accettare l'ombrello di quell'anziana Signora.
Forse avrebbe
dovuto dirgli tutto prima.
Forse avrebbe
dovuto tante cose.
John non si
accascia sul marciapiede, quando si rende conto di aver corso fino a
Baker Street.
John non piange
davanti alla porta del 221, quando si rende conto che ha portato se
stesso nell'unico posto in cui non sarebbe mai dovuto tornare.
John piange solo
quando solleva lo sguardo verso il cielo e si rende conto che le
finestre dell'appartamento B sono sigillate. E che nessun suono di
violino proviene dall'interno.
Così si siede sui
gradini e piange. In silenzio, senza singhiozzare o emettere suoni.
Nessuno se ne
accorge, perché la pioggia è fitta e tutti si nascondono sotto il
proprio ombrello, per non essere costretti a guardare, a sentire, a
vedere.
John è solo, lì,
in mezzo a decine di persone. Perfettamente immobile, con la schiena
dritta e gli occhi fissi – spenti, vuoti, diversi – come un
soldato davanti alla tomba di un amico, morto per servire il suo
paese, come ne ha visti tanti negli anni dell'Afghanistan. Perfetto
nella sua uniforme, guanti bianchi e spada al lato sinistro del
corpo.
La differenza sta
che, oggi, John è vestito solo del suo dolore. Non c'è nessuna
spilla a brillargli sul petto, né una serie di spari nell'aere a
segnare la fine o l'inizio di una vita che ha forse cambiato il mondo
o che, almeno, è morta provandoci.
Fa freddo.
A John non importa.
Importa invece il
motivo per cui non hanno fatto un funerale di Stato anche a Sherlock.
Sherlock che ha salvato la Nazione non si sa più quante volte,
Sherlock che ha cercato, scovato e fatto arrestare metà dei
criminali di Londra, Sherlock che è morto per proteggere tutti,
Sherlock che...
Sherlock.
- Sherlock.
Inizia a fare buio
qua fuori. John è seduto sul marciapiede da almeno un'ora e le
lacrime si sono confuse con le gocce di pioggia. Nessuno si è
fermato per domandargli se avesse bisogno di aiuto e John si chiede
se sarebbe poi così sbagliato porre fine a una sofferenza che lo sta
uccidendo dall'interno.
Sherlock gli ha
permesso di vivere, ma quanto può ancora sopportare di farlo senza
una ragione?
- Forse sta
cercando nel posto sbagliato, Dottore.
La pioggia smette
di battere improvvisamente e un'ombra scura lo ricopre come se
volesse inghiottirlo dentro di sé. Gli occhi chiari di Mycroft
Holmes lo fissano dall'alto e John lo guarda e basta. Non si sono
mai veramente visti, e John non inizierà adesso. Ignora il
dolore che legge riflesso nelle sue iridi, e ignora quel senso di
colpa dilagante che gli arriva addosso come una frustata improvvisa.
A John non
importa. Di niente, ormai.
La Signora del
locale ha guardato male John, quando è entrato sgocciolando per
terra, prima, e sulle sue sedie nuove di zecca, poi. Mycroft le ha
sorriso, freddo e affabile, e ha allungato una banconota da cento
sterline e la donna si è zittita all'improvviso. John si è
domandato se quei soldi portassero le macchie del sangue di Sherlock
e un conato di vomito gli si è fermato in gola.
- Come sta,
John? Ho saputo che ultimamente ha avuto dei... problemi.
- Di problemi ne
ho tanti, Mycroft.
Il thé è buono,
la compagnia meno. Tutto rende questa pantomima incredibilmente
patetica e, oltre al disgusto, anche la rabbia blocca il respiro di
John, ora.
- L'ho cercata
nel suo appartamento, questa mattina. E anche all'ospedale non
sapevano dove fosse.
- Avevo bisogno
di stare solo. È un reato?
Mycroft sembra
pensarci un attimo, continuando a girare il cucchiaino dentro la
tazza bollente del thé.
- Certo che no, – dice alla fine – ma mi piacerebbe poterle essere d'aiuto. Se
possibile.
John alza un angolo
della bocca in un ghigno.
- Non è
possibile.
- Mi lasci fare
un tentativo, almeno.
John appoggia la
tazza di porcellana sul tavolo un po' troppo forte e scheggia sia
quella che il piattino.
- L'unico
tentativo che avresti dovuto fare sarebbe dovuto essere quello di aiutare
tuo fratello. Non l'hai fatto. Non è possibile che tu possa fare
qualcosa, adesso.
Un silenzio pesante
cala nel pub. La porta si apre un paio di volte e qualche ragazzino
entra, godendosi il tepore caldo del locale rispetto alla temperatura
gelida dell'esterno. John riesce a ricordare com'è essere giovani e
felici. È una sensazione tanto brutta quanto spaventosa.
- John. Ho
sbagliato. Lo so. Sto cercando di rimediare. Sherlock-
- Non.
Nominarlo.
Mycroft lo guarda,
sbattendo le palpebre un paio di volte. La mano di John, con l'indice
puntato verso la sua gola, trema appena.
- Non dire il
suo nome. Non davanti a me, Mycroft. Sto cercando in tutti i modi di
mantenere la calma. Non... provocarmi, ok? Non dire il suo nome.
Ancora silenzio.
Ancora tanto, pesantissimo silenzio. Mycroft non ha più detto nulla,
e John non è intenzionato a parlare. Il thé, quel poco rimasto in
entrambe le tazze, è ormai freddo. Fuori diluvia e John non ha un
ombrello. Ma anche se continua a ripeterselo, la situazione non
cambierà. Niente cambierà. Non smetterà di piovere.
- Mi ha chiesto
di prendermi cura di te.
John lo guarda
voltandosi piano verso di lui. Gli occhi di Mycroft sono profondi.
Riesce a vederli adesso, non sa bene perché.
- Prima di...
prima di fare quello che ha fatto. Mi ha fatto giurare che mi sarei
preso cura di te.
Fa male.
- Gliel'ho
giurato, John. È quello che sto facendo, che sto provando a fare.
Lo farò senza che tu me lo permetta, se sarà necessario.
Solo un po'.
- Io non voglio
niente da te. Se Sherlock è stato costretto a farlo è solo per
colpa tua. È morto e io non potrò mai-
Si blocca,
mordendosi le labbra e distogliendo gli occhi da quelli di Mycroft.
Sbatte piano un pugno sul tavolo, e guarda fuori. Non c'è un raggio
di sole in mezzo alle nuvole.
- Non
m'interessa cosa gli hai promesso per lavarti la coscienza. Impara a
convinvere con il senso di colpa, come ci convivo io.
Lascia venti
sterline sul tavolo – forse troppe per due soli thé – e si
allontana veloce, perché deve uscire da lì. Deve farlo,
adesso, perché sta sentendo troppo e fa male più di quanto
riesca a sopportare.
Ma una mano forte
lo ferma prima che riesca e imboccare l'uscita, e John è pronto a
caricare un pugno e ad uscire dal locale a forza, se serve. Però si
blocca, lì dov'è, quando un'altra mano gli sfiora la guancia che
friziona piacevolmente con la sua barba appena accennata. John guarda
Mycroft negli occhi, e il suo respiro caldo gli solletica la pelle.
Non sono mai stati così vicini. John vorrebbe allontanarsi ma la
luce di quei colori chiari gli ricorda altro. Iridi tanto
fredde da far male al cuore, e così calde da farlo battere un po'
più forte.
Si chiede se
sarebbe poi tanto sbagliato dimenticarsi di tutto e illudersi che
quegli occhi siano di qualcun altro.
- L'ho giurato,
John. Lascia che ti aiuti, che ti salvi. Posso farlo, sai che posso.
John aspetta un
po'. Non tanto, solo un po'. Poi si divincola piano dalla stretta di
Mycroft, allontanando la mano dalla sua guancia. È un sorriso
triste, quello che gli rivolge. È il sorriso di chi è arreso, e non
vuole essere salvato.
Di chi sa che
non può illudersi. Che chi c'era non c'è più.
- È troppo
tardi, Mycroft. Sai. Ho smesso di combattere.
Sì, lo sa. E forse è
per questo che lo lascia andare via senza fermarlo più.
La porta cigola
quando John esce. Mycroft non lo segue e – anche se nessuno dei due
lo sa – questa sarà l'ultima volta che si vedranno. Il calore
della sua mano perseguiterà John per un po', ma non sarà mai
abbastanza per dargli quello che cerca e che non potrà mai più
trovare. Cammina per un po', anche se non sa dove sta andando. Si
allontana da Baker Street, dal 221 B, cerca di allontanarsi dai
ricordi e dal dolore ma non ci sarà mai abbastanza distanza per
dimenticarli, quelli.
Se potesse si
allontanerebbe da Londra, dal mondo intero. Da ogni persona, da ogni
sguardo.
Il freddo
dell'inverno gli colpisce le ossa, dentro, fuori, intorno. È
incredibile, perché ogni cosa va avanti anche senza di loro –
senza di lui – ed è incredibile come adesso importi
di tutto.
Importa che nessuno
se ne ricordi. Importa che tutti abbiano già dimenticato.
Tranne lui, perché
era suo. E lui non dimenticherà.
John sale sul primo
treno che trova a dispozione senza pensare, come ha fatto qualche ora
prima. Non sa davvero dove lo condurrà questa volta, e va bene così,
come andrà bene da quel momento in poi.
Gli andrebbe bene
anche se deragliasse e, in angolo remoto del suo cervello, quasi ci
spera.
- Hai bisogno di
un ombrello, giovanotto?
John si volta, e il
sorriso della stessa Signora anziana di quel pomeriggio lo coglie
impreparato e rimane in silenzio e ammutolito per qualche
secondo. Lei non desiste e gli porge lo stesso oggetto con una
radiosa gioia
di vivere che lo investe in pieno e che per un po', lo ricorda,
è
stata anche sua.
- È un po'
consumato dal tempo. Ma credo che servirà più a te che a me.
Il treno si ferma.
John non sa cosa dire, finché le sue iridi non si posano
all'esterno. Un timido raggio di sole colpisce le gradinate
d'uscita. Le persone chiudono gli ombrelli, perché non piove più
anche se fa ancora molto freddo. Gli occhi della Signora sono cristallini, celesti come l'estate.
John piange e
questa volta fa male e basta. Senza sconti.
- Lo prendo.
Grazie, Signora.
Ps. I'm a Serial Addicted
Questa shot nacque in principio come una Johncroft.
È leggermenete deviata in qualcosa che non so davvero come definire. Angst senz'altro. Non ne sono pienamente soddisfatta ma mi ha fatto abbastanza male scriverla, per cui forse non è del tutto da buttare via. Non metterò l'avvertimento AU ma è giusto che lo sappiate, ecco, che Sherlock è morto per davvero in questa ff. Spero di non aver sminchiato i personaggi più del necessario, comunque. E vi chiedo scusa per questa paccata di angst. E non so nemmeno da dove è uscita 'sta cosa dell'ombrello, ma spero abbiate capito che la frase 'consumato dal tempo'... non si riferiva solo all'ombrello ma allo stesso John. Ecco perché l'ho scelto come titolo. E comunque è colpa di Blue Parrot, ecco. Mi ha talmente fatto male che mi sono messa a scrivere. Per cui questa cosina la dedichiamo a Cristina in modo particolare, e più in generale alle bellissime del TCTH, because of reason. Vi mando amore infinito, ecco (e se non avete letto Blue Parrot sciagura a voi, ANDATE!).
Ora mi ritiro nel mio cantuccio. A dondolare. E piangere. Specialmente a piangere.
Jess