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Autore: Harukei    16/11/2012    0 recensioni
Un amore nato dall'osservazione quasi ossessiva, giorno per giorno, della persona desiderata. L'immedesimarsi e il vegliare da lontano su qualcuno sono alla base della storia dei due protagonisti.
Questo amore, considerato innaturale dalla gente semplice e ignorante, verrà ostacolato da tutto e da tutti, salvo dalla piccola Georgia, considerato l'angelo custode della coppia su cui è incentrato il racconto.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Lo osservavo da lontano mentre le sue risate riempivano le mie orecchie.
La piccola, sua sorella, giocava con lui, contenta e serena, e rincorrendosi e stringendosi si fece sera.
Li vidi rincasare, entrambi con le guance rosee e imperlate del sudore della spensieratezza.
La fece entrare per prima nella calda dimora con le cortesie che si riservano solo ad una dea.
I riccioli castani della bambina svolazzarono dentro la casa e, scrutando un’ultima volta il rosso del cielo, il fratello maggiore chiuse la porta.
Il giorno successivo, come di consueto, due ore dopo l’aurora, mi trovavo di nuovo nel prato di neve davanti la loro casa. Leggevo distrattamente quel giornale, sempre lo stesso di ogni mattina, che ormai conoscevo riga per riga. Era utile per la mia copertura, affinché sembrassi una persona che stava lì per caso.
Attesi in preda all’ansia come quando si incontra per la prima volta il proprio amore.
Quel nervosismo, però, come accadeva quotidianamente, svanì quando, puntuale come sempre, lui varcò la soglia di casa seguito dalla sorellina.
Mano nella mano, si avviavano lungo il solito sentiero che portava a scuola.
Con face innocente e disinvolto, li seguii fino al cancello d’ingresso e mi fermai nel bar di fronte la struttura.
Dopo che, come faceva abitualmente, le carezzò la testa riccioluta e le diede un bacio affettuoso su una guancia, un’altra bambina, probabilmente un’alunna della scuola, chiamò la compagna da lontano gridando “Georgia!”. Quel nome lo avevo imparato già da tempo, ma quello su cui ancora avevo dubbi, era il nome di lui. Tutti lo chiamavano Aaron, ma avrei giurato che sua sorella usasse un altro appellativo.
Non si mosse di lì finché non fu certo che Georgia fosse al sicuro dentro la scuola.
Sapevo già cosa sarebbe successe per il resto della giornata: lui sarebbe tornato a casa e non sarebbe uscito fino alle 11, poi sarebbe andato al ristorante dove lavorava part time e alle 16 avrebbe staccato per andare a riprendere la sorellina a scuola. Avrebbero fatto una passeggiata al parco, poi avrebbero giocato fino al tramonto con la neve e sarebbero rincasati.
Avevo scoperto, ascoltandolo parlare con dei suoi conoscenti, che i suoi genitori erano partiti mesi prima per lavoro e che sarebbero tornati in estate. Inoltre non sembrava avere una ragazza.
In sintesi, dedicava tutto il suo tempo a Georgia. In silenzio, lo ammiravo ogni giorno di più. Le premure e la dolcezza che riservava alla sorella mi colpivano dritto al cuore e mi davano uno strano senso di piacere, di beatitudine. Lentamente, settimana dopo settimana, apprezzavo i suoi modi di fare, i suoi gesti, la sua voce e la sua risata. Attraverso la bambina, riuscivo a conoscerlo a fondo e sentivo di vivere le loro emozioni come mie. Probabilmente chiunque avrebbe inteso ciò che facevo come “attività da stalker”, ma non credevo che fosse opportuno definirla tale. Osservavo e imparavo da quella piccola famiglia e mi immedesimavo come se stessi con loro, come se potessi interagire anche senza farlo realmente.
Qualcosa mi bloccava, qualcosa mi impediva di rivolgergli la parola. Allora stavo lì, nel buio, ad ascoltare e guardare ciò che faceva Aaron.
Ero nella ferma convinzione che lo conoscevo più di chiunque altro. Chi poteva sapere le sue abitudini più di me? Chi poteva percepire i suoi sentimenti, le sue paure, le sue emozioni, al di fuori di me? Sentivo nell’animo che potevo fondermi in una sola cosa con lui,  un solo essere, gli stessi pensieri.
A volte credevo addirittura di prevedere le sue mosse.
Cosa dire inoltre del suo aspetto, in cui vedevo la vita in forma umana, i lineamenti armoniosi, il volto sereno e lo sguardo colmo di intrigo, il corpo così perfetto da incutere terrore, terrore nel toccarlo, terrore nel respirarlo. La chioma color dell’oro, gli occhi verdi come la terra fresca e fertile, le labbra che mi sembravano il simbolo del desiderio stesso, le mani delicate che quasi mi facevano implorare per una sua carezza, tutto sembrava chiamarmi come un eco lontano, un invito irraggiungibile e inestinguibile.
 
Il mattino successivo ero di nuovo di fronte la loro casa ad attendere con la solita impazienza.
Lo stesso orario, la stessa strada, lo stesso saluto fraterno.
Georgia stava salendo di fretta i gradini che la separavano dal portone dalla scuola, quando accadde qualcosa, una cosa di poco valore, ma che cambiò tutto.
Il cameriere del bar in cui mi trovavo, mi versò accidentalmente un caffè sui vestiti. Iniziò a scusarsi incespicando nel parlare, ma ormai non prestavo più attenzione a niente di quel che diceva.
Quel baccano aveva attirato l’attenzione di Aaron, che si voltò a guardare la scena.
Tre, massimo quattro secondi, secondi infiniti, secondi senza tempo: la sua anima incrociò la mia.
I miei occhi spalancati, increduli e incoscienti, i suoi quasi socchiusi, sorridenti e sicuri.
Il cameriere mise qualcosa tra le mie mani, ma sul momento non ci feci caso e infilai tutto in tasca.
Aaron si allontanò lungo il sentiero. Io rimanevo immobile, lo sguardo perso nel vuoto, la mente in un subbuglio di pensieri incompleti e disconnessi.
Mi alzai e cominciai a camminare a passi insicuri, senza una destinazione precisa.
Vidi un vicolo innevato tra due case, illuminato dal sole timido del mattino. Mi lasciai cadere sulla soffice duna bianca e socchiusi gli occhi.
Improvvisamente, tiepidi brividi mi abbracciarono seguiti da un tepore delicato che mi avvolse, mi strinse e mi cullò dolcemente. Quel giorno, nemmeno la neve riuscì a scalfire quella sensazione, il freddo pungente non trafisse la mia pelle. Quel giorno, sentivo che il mio sorriso sereno poteva contagiare la gente intorno a me, percepivo una beata tranquillità mista a felicità ed eccitazione.
Quel giorno, sorrisi per tutto il tempo. Quel giorno, mi innamorai.
 
Quando ripresi coscienza, frugai tra le tasche e trovai dei soldi: il cameriere doveva avermeli dati per la lavanderia.
La settimana che seguì, fu uguale a tutte le altre, tranne per un unico dettaglio: la mattina, quando sedevo al bar, i nostri sguardi si incontravano per qualche breve istante. Ed era sempre come la prima volta, le stesse sensazioni che mi gustavo come un caffè.
Impiegai almeno un mese per abituarmi a quella situazione: per paura che, avendo notato la mia presenza, potesse accorgersi che lo seguivo, prestavo più attenzione a non farmi vedere.
Ma quello al bar era diventato come un appuntamento con le mie stesse emozioni. Mi bastavano i suoi occhi rivolti verso di me per sentirmi felice.
Il mio non era stato un colpo di fulmine, non lo era affatto. Era una relazione che durava da tempi immemori, come una lunga amicizia appassionata che si era evoluta in un sentimento più profondo, un sentimento innocente nato da una rivelazione. Non importava che non ci fossimo mai parlati, non importava che non ci fossimo mai toccati. Passavo ogni giorno con lui a sua insaputa e pregavo in fondo al cuore che lui, in qualche modo, si accorgesse di questo bocciolo d’amore e mi aiutasse a farlo crescere.
 
Una domenica piuttosto fredda, mi svegliai in ritardo e non potei prendere parte alla messa delle nove. Era la prima volta che mancavo di andare in chiesa, e probabilmente non me ne sarebbe importato molto se anche lui non ci fosse stato.
Guardai l’orologio che segnava le 10.35. A quell’ora, Aaron era al cimitero per lasciare un fiore e una preghiera al nonno defunto.
Mi recai nel posto, di fronte il cancello principale e osservavo da lontano: lui era in ginocchio davanti la lapide grigiastra, col capo chino e gli occhi chiusi, che recitava silenziosamente parole sacre. Accanto c’era Georgia che lo imitava e di tanto in tanto tratteneva qualche starnuto.
Li vidi alzarsi e tornare verso l’entrata. Mi spostai e rimasi un po’ a riflettere: anche io dovevo avere qualcuno, magari un parente, a cui portare dei fiori, ma non avevo mai avuto quest’abitudine.
Mi passarono vicino mentre fingevo di giocare con la neve. Li guardai allontanarsi e poi volsi lo sguardo all’entrata del cimitero. La mia mano si posò sul cancello per aprirlo, ma forse non era necessario che entrassi. Sospirai. Erano morti, e i morti hanno gli occhi chiusi, quindi non vedrebbero nessuno che li va a trovare.
Ebbi come un senso di desolazione, di vuoto. Non provavo nessuna emozione in particolare, solo il nulla.
Mentre camminavo per tornare a casa, mi chiedevo se un giorno, quando avessi lasciato questo mondo, avrei voluto che qualcuno venisse a trovarmi, per un saluto, per una preghiera.
Le due “vittime” dovevano già essere rincasate e se i miei calcoli non erano sbagliati, avrebbero passato la domenica in casa.
Per tirarmi su il morale decisi di comprare qualche dolcetto. Entrai nella pasticceria più vicina e quando arrivai al bancone, ebbi una sorpresa.
-Uhm… Cosa piacerebbe a Veli? Pasticcini al pistacchio o al cioccolato? O forse… Fragola?- una bambina con un cappotto rosso sbiadito mormorava tra sé e sé le scelte dei dolciumi e non l’avrei notata se non avesse pronunciato un nome, quel nome: Veli. Era così che Georgia chiamava suo fratello.
-Scegli pistacchio- non riuscii a trattenermi, sapevo perfettamente quali fossero i gusti di Aaron.
-Mh? Dici? Però a me piacciono alla fragola…-
-Allora prendiamoli di tutti i tipi!- intervenne lui, appena entrato nel negozio con una busta di pane tra le braccia. Il mio cuore sobbalzò.
-Davvero possiamo? Grazie, Veli!-
Pagarono ed erano già sulla soglia quando Georgia si fermò. Fece cenno ad Aaron di aspettare e tornò verso di me.
-Grazie lo stesso per il consiglio! Questo è per te dato che ti piace il pistacchio!- mi porse un pasticcino verde ed uscì canticchiando.
A dir la verità, il mio gusto preferito era il cioccolato, ma non potevo certo spiegarlo a lei.
Tornai a casa senza acquistar nulla.
Accesi la stufa e mi distesi sul divano mangiando il dolcino e sorseggiando una camomilla.
Holly, il mio gatto, miagolava nella speranza che qualche briciola cadesse sul pavimento pronta ad essere ingurgitata voracemente da quella piccola bestia.
Il pomeriggio rinunciai alla mia attività da stalker e dedicai qualche ora alla lettura. Il sonno ebbe il sopravvento su di me nelle prime ore serali, così sprofondai tra le coperte e lasciai che i sogni mi cullassero.
Aprii gli occhi alle prime luci del mattino e mi preparai per la solita routine.
Quando arrivai alla solita postazione, vidi il nasino rosso e le mani paffute di Georgia appoggiati alla finestra. Gli occhietti vispi sembravano scrutare ogni singolo angolo alla ricerca di qualcuno o qualcosa.
Guardai l’orologio e capii che qualcosa non andava: perché lei e suo fratello non si stavano già dirigendo a scuola?
Il suo sguardo si poso su di me. Uscì di casa e mi venne incontro sorridente.
-Com’era il pasticcino?- chiese dolcemente.
-Ottimo!- risposi.
-Posso chiederti un favore? Veli non è ancora rincasato e io devo arrivare puntuale a scuola... Potresti accompagnarmi?-
Come avrei potuto rifiutare? Annuii con la testa e camminammo lungo il sentiero più breve senza parlare. Un senso di preoccupazione mi assalì e decisi di spezzare quel silenzio.
-Veli è il nome di tuo fratello?- provai a pronunciare quella frase con più disinvoltura possibile.
-Non esattamente. Il suo nome è Aaron. “Veli” è un modo affettuoso per chiamarlo “fratellone” nella nostra lingua.- finalmente capii il senso di quel nomignolo.
-Dov’è andato?- speravo di non essere invadente, ma volevo sapere.
-Un suo amico si è sentito male questa notte, così è rimasto con lui per tutto il tempo… Spero vada tutto bene…- lasciò trasparire una nota di preoccupazione, ma prima che potesse diventare triste, sentimmo dei passi in corsa che si avvicinavano sempre di più. Era lui.
Chiese scusa a sua sorella e poi si rivolse a me.
-Grazie per averle fatto compagnia!- prese fiato e mi guardò attentamente –Aspetta un secondo… Ancora tu! Io ti conosco!- sembrava sorpreso e felice allo stesso tempo, o forse era solo una mia impressione.
Sentii un calore intenso riempirmi le gote e sgranai gli occhi: era un sogno?
-Ti vedo ogni giorno, non mi sbaglio, sei proprio tu!-
Quel che accadde in seguito, fu così incredibile e rapido che quasi non me ne accorsi.
Eravamo ormai giunti nella piazzola di fronte la scuola, quando successe un fatto che causò lo sdegno dei passanti.
Non aggiunse una parola, prese il mio viso tra le mani e congiunse le sue labbra alle mie in un delicato bacio. Non avrei mai pensato a un tale gesto, così impulsivo, temerario e inaspettato.
Non feci in tempo a chiudere gli occhi e potei osservare ciò che succedeva attorno a noi: alcune madri impedivano ai loro bambini di guardare quello che altre definirono “spettacolo osceno”, altri bisbigliavano “oltraggioso, indicibile!”, altri ancora sembravano così indignati da voler scappare.
Ma io non badai a niente di tutto ciò. Udii solo il suono piacevole dell’applauso gioioso di Georgia che incoraggiava suo fratello.
Quello mi bastò a lasciarmi andare: chiusi gli occhi e assaporai quel momento. Non capivo con esattezza perché stava accadendo, ma ero paurosamente felice.
Solo il punto di vista puro di quella bambina riccioluta sembrava apprezzare la scena.
Forse gli altri non avevano mai visto due uomini baciarsi?
Ma che importava! Quel giorno, io, Ilija, toccai per la prima volta l’uomo della mia vita.
  
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