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Autore: yuki013    17/11/2012    3 recensioni
"Self-restraint, aveva spiegato una volta Wakka mentre giocavano con le spade. Qualcosa che aveva a che fare con il vizio masochistico di Riku di mettersi in situazioni che compromettevano la sua sanità mentale (e tutto quello che veniva dopo) e l’esatta maniera per starne alla larga. Ma poi era arrivato Sora con il pancino nudo sotto il sole di Luglio, con un’anguria tra le braccia ancora piccole e morbide e il suo sorriso enorme a chiedergli se voleva aiutarlo a spaccarla con il bastone, e Riku a dodici anni aveva avuto la sua prima erezione per il suo migliore amico che sputacchiava semini neri sulla sabbia, mentre gocce di succo rosso trasparente gli scendevano lungo la pelle della gola."
Genere: Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Riku, Sora
Note: Lime | Avvertimenti: Bondage | Contesto: Più contesti
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Titolo: Lègami
Wordcount: 4929
Personaggi: Riku/Sora
Rating: arancione - NC17
Generi: erotico, introspettivo
Avvertimenti: lime, yaoi, dub-con, UST, BDSM (SM riferito a Riku ovviamente), oneshot
NdA: per la Sagra del Kink di kinkmemeita, prompt "BDSM" (Menu Toscano - Bistecca alla Fiorentina) e "Foreplay" di manubibi

Lègami.



Le unghie delle mani, a furia di esser rosicchiate e ripetutamente violentate dai suoi denti, si erano assottigliate e non oltrepassavano il confine con la pelle al di sotto. Era avvenuto giorno dopo giorno con una lentezza esasperante, ma sembrava che il gesto avesse sortito l’effetto desiderato. Alla fine però a Riku non erano rimaste più unghie da mangiare né sassi che potesse trovare facilmente senza dover trascinare la propria persona fino alla sponda opposta dell’isola – perché dal lato residenziale non c’era altro che sabbia e ghiaia, e sua madre cominciava a domandarsi il perché piccoli cumuli di pietre si accumulassero dentro il cestino per la carta straccia.
Per cui un diciassettenne svogliato e privo di interessi tipicamente adolescenziali come lui non aveva poi molti altri modi di distrarsi dal suo chiodo fisso. Un chiodo che aveva un nome, sedici anni sulle gambe magre che avevano portato il peso di responsabilità più grevi delle sue, una risata da idiota quale effettivamente era, capelli scuri da accarezzare con le dita e paffute guance rotonde da mordere sotto due occhi blu intenso che sarebbe stato maledettamente appagante vedere languidi di piacere.
Self-restraint, aveva spiegato una volta Wakka mentre giocavano con le spade. Qualcosa che aveva a che fare con il vizio masochistico di Riku di mettersi in situazioni che compromettevano la sua sanità mentale (e tutto quello che veniva dopo) e l’esatta maniera per starne alla larga. Ma poi era arrivato Sora con il pancino nudo sotto il sole di Luglio, con un’anguria tra le braccia ancora piccole e morbide e il suo sorriso enorme a chiedergli se voleva aiutarlo a spaccarla con il bastone, e Riku a dodici anni aveva avuto la sua prima erezione per il suo migliore amico che sputacchiava semini neri sulla sabbia, mentre gocce di succo rosso trasparente gli scendevano lungo la pelle della gola.
Ma quello che Wakka non sapeva era che trattenersi non lo aiutava affatto, anzi: era come vivere di palliativi, giorno per giorno, un fumatore incallito messo costantemente davanti al profumo invitante delle sue sigarette preferite. Bastava che lo avesse accanto, se lo ripeteva costantemente quando gli sembrava che la tentazione di toccare Sora – un po’, soltanto un po’, per vedere se era ancora morbido e tondo e profumato com’era da bambino – sembrava riempirgli i pensieri e non c’era altro da fare per lui che sedersi in riva al mare e aspettare che passasse. Contava i secondi, i minuti, le barche che scivolavano lente lungo la costa, i gabbiani che si tuffavano in acqua e tornavano con il loro bottino tra le nuvole. Diventava molto poetico Riku, assaporava una tranquillità che per due lunghi anni gli era stata preclusa. Poi però arrivava Sora da lontano, urlava il suo nome e ogni cosa sembrava svanire davanti alle sue mani posate sulle ginocchia e al fiatone che Riku avrebbe volentieri zittito con un bacio.
Proseguiva così da quando si erano riuniti dentro il castello dell’Organizzazione – e prima, molto prima, il pensiero continuo di votare la propria misera oscura esistenza al bene di Sora lo aveva tenuto in vita più di quanto avrebbe mai potuto sperare. C’era sempre un pezzetto di Sora con lui, qualcosa che glielo ricordasse, o che gli facesse pensare “ecco, questo a Sora sarebbe piaciuto”, anche solo una giornata di bel tempo in cui il cielo prendeva una tonalità simile a quella dei suoi occhi e il mare di qualche mondo ai confini dello spazio sembrava portare il suo stesso odore di ingenuità e fragole mangiate con i piedi a mollo nella cascata sull’isola dei bambini.
Ritrovarlo sempre piccolo dentro, con gli occhi un po’ più scuri perché pieni delle esperienze raccolte e della malinconia provata per tutte le cose che aveva lasciato dietro di sé una volta conclusa la missione, aveva smosso quei sentimenti e li aveva resi una spina che pizzicava Riku in profondità, una scheggia che premeva su un nervo scoperto dandogli il tormento. Poco a poco quel malsano attaccamento lo aveva portato a nutrirsi di briciole, delle poche cose inconsistenti che gli venivano offerte da Sora – un abbraccio casuale quando cadevano nella sabbia, le mani chiuse a pugno e sbattute l’una con l’altra, le carezze quando Sora si sbucciava un ginocchio nella sua goffaggine e a Riku toccava ricucire lembi di pelle e pezzi di cuore tenuti insieme soltanto dalla propria rigida volontà. Una volontà che iniziava drammaticamente ad oscillare, facendo venir meno la promessa che Riku aveva fatto a se stesso – mai più, mai più perdere Sora di vista, o averlo più lontano della distanza di qualche passo, o non sapere se di notte avesse un riparo per dormire sonni tranquilli. Mai più dannarsi per non aver fatto abbastanza per tenerselo incollato addosso, per non essere stato abbastanza da proteggere il suo sorriso dall’oscurità che corrodeva l’universo.
Ma averlo vicino, addormentato sul suo letto dopo una di quelle sere passate a bere alcolici di nascosto a casa di Selphie mentre i suoi non c’erano, con gli occhi gonfi di sonno e la sbornia momentaneamente passata era quanto di peggio una povera anima in pena come lui potesse ricevere in dono. Lo spettacolo era meraviglioso, con Sora che già in boxer per l’afa si sventolava con uno dei suoi manga – che in quel momento avrebbe potuto essere benissimo un depliant del supermercato, o le istruzioni per mettere i preservativi che sua madre nascondeva nel terzo cassetto del bagno, ma che ai suoi occhi era l’ancora di salvezza di Sora nella cappa di umidità opprimente della sua stanza. Riku era geloso di un oggetto? Sì. Assurdo? Molto probabilmente, ma si parla pur sempre di Riku.
«Riikuuuu» si lagnava Sora con quella sua voce tanto melensa che all’altro non avrebbe mai dato fastidio, troppo arrochita dai liquori ingeriti e dal sonno che sbucava a intervalli irregolari senza però sfinirlo completamente.
«Che hai ora? Sei ubriaco, dormi» tentò Riku, reclinando la testa all’indietro sul bordo del materasso per respirare l’odore lontano delle dita di Sora. Se si fosse spinto un po’ più a sinistra con il capo sarebbe riuscito a toccarle con il naso, e poi a lasciarsele scivolare in bocca per assaporarne il gusto che immaginava simile a quello delle more e dell’erba fresca del prato di casa sua. Collegava le piccole cose che lo circondavano a tutto quanto potesse sembrargli appartenente a Sora, il che era abbastanza patetico, ma non più dell’offrirsi alla madre dell’altro per mettere il bucato in lavatrice con l’osceno proposito di nascondere una maglietta o un paio di slip sotto la felpa.
«Neh Riku, pensi mai a quando hai lasciato l’isola?»
«Non spesso. Sai, ho avuto altro da fare io. Non giravo mica con un cane idiota e un papero insopportabile al seguito.»
«Ehi, se non fosse stato per il loro aiuto mi avresti fatto fuori a Hollow Bastion! E comunque, cos’è che hai fatto mentre non eravamo insieme?»
Desiderare che fossimo insieme?, pensò Riku, tirando un sospiro più forte. Ammise a se stesso che non aveva pensato ad altro che alla gelosia all’inizio, al dolore che il sentirsi dimenticato e rimpiazzato da due servi del Re gli aveva fatto provare. Il possesso che sentiva nei confronti di Sora continuava a farlo a pezzi dall’interno, anche se aveva provato a togliergli il cuore, anche se si era abbandonato a Xehanort. Quando non aveva visto più nessuna luce nell’oscurità che lo aveva avvolto, Sora era stato l’unico pensiero che lo aveva spinto ad annaspare nel buio alla ricerca di qualunque cosa che potesse portarlo in superficie.
E Sora era lì, come sempre, non se n’era mai andato. Aveva dormito un anno e al risveglio si era messo a cercarlo – come se fosse la cosa più normale del mondo, non pensare alla ragazza che viveva ormai da sola alle Destiny Islands e vagare invece senza una meta ben precisa alla ricerca di colui che, per quanto ne sapesse Sora, poteva anche essere svanito oltre la porta. Ma Sora era Sora, il cocciuto, testardo, adorabile Sora che piangeva ai suoi piedi come quando Tidus lo aveva clamorosamente battuto a blitzball e Riku gli aveva comprato un ghiacciolo con gli spiccioli della sua paghetta per farlo contento.
La triste eppure vitale costante della sua vita era Sora, e anche se sembrava il contrario non riusciva proprio a dispiacersene. Persino quando si trascinava tra il sonno e il dormiveglia e ogni suo respiro pesante simile a un gemito faceva eco nella sua testa, assottigliando la sua già precaria decisione di non fare nulla di avventato.
«Cioè, lo so che mi hai protetto anche se non eri con me. Ma hai imparato qualcosa di nuovo?»
«Ad esempio?»
«Beh, io ho imparato a volare. E a impacchettare regali natalizi, e a scacciare le iene.»
Riku si voltò quel tanto che bastava per vedere le braccia di Sora finalmente ferme, unite sopra il petto scoperto e sudato – e Riku aveva davvero, davvero tantissima voglia di inginocchiarsi e baciargli la pelle all’altezza del cuore mentre con una mano lo teneva fermo dalla schiena, e il rendersi conto che quelle fantasie erano inattuabili era sempre un piccolo trauma.
«Tutte cose molto utili. Non credo che il resto degli individui che popolano i mondi ne siano capaci.»
«Smettila! Avanti, visto che hai imparato tanto bene, dimmi un po’ cos’hai imparato tu.»
«Che a salvare un amico dai casini non ci si ottiene nulla.»
«Qualcosa di più pratico?»
Riku ciondolò con la testa da un lato e dall’altro, sfregando il labbro inferiore tra pollice e indice mentre pensava. Se non altro, dargli da parlare avrebbe contribuito a fargli venire sonno, così lui sarebbe potuto rimanere sulle assi del pavimento a crogiolarsi nel delizioso sottofondo del suo respiro.
«Mi hanno insegnato a fare i nodi.»
«Nodi?»
«Sulla Jolly Roger. Uncino era troppo occupato a complottare con Malefica, Kairi non dava segni di ripresa e io passavo le giornate a masticare gallette. Alla fine uno dell’equipaggio mi ha insegnato a fare un paio di nodi.»
«Fammi vedere.»
Sbuffò Riku, ma allungò una mano verso il comodino al cui fianco giacevano le sue scarpe da tennis di un bianco reso sporco dalle strade impolverate dell’isola. Tolse il lungo laccio da una e impiegò pochi secondi per mostrare a Sora un perfetto nodo Savoia. L’altro, da bravo idiota qual’era, spalancò gli occhi e si mise immediatamente seduto, dovendosi però tenere al materasso perché la testa gli girava ancora parecchio.
«Wow! Ne sai fare anche di più complessi?» chiese esaltato Sora, spingendosi più avanti perché Riku lo notasse meglio – come se non si fosse già accorto di quanto pericolosamente vicino si stesse spingendo, ancora quasi completamente nudo e con il sudore che gli appiccicava la frangia sulla pelle della fronte.
Ci mise più tempo per il paglietto rotondo e dovette far ricorso anche all’altro laccio, ma il risultato fu molto elegante: una piccola figura simile ad un fiore che si attorcigliava su se stesso, così piccolo che non riempiva il palmo della sua mano. Sora glielo prese dalle mani, contemplandolo da entrambi i lati e aprendo poi le labbra in un sorriso soddisfatto.
«È bellissimo! Saresti stato un grande pirata, Riku. Dovresti parlarne con Jack.»
«Che sarebbe…?»
«Il capitano Jack Sparrow, che sta a Port Royal. Ti ci porto uno di questi giorni. Riusciresti a usarli anche per legare qualcosa?»
Riku si voltò quel tanto che bastava per vedere i suoi occhi assonnati nella penombra della camera. Se soltanto Sora avesse capito – se soltanto Sora avesse voluto – non avrebbe impiegato nulla a stendersi con lui sul proprio letto e dargli tenerezza e passione insieme, a farlo sentire importante e fargli provare tanto di quel piacere da pregarlo di smettere. Avrebbe anche potuto sacrificare i suoi sentimenti per soddisfare qualunque desiderio dell’altro – ma Sora non era il tipo, no, doveva per forza essere religiosamente serio sulle cose più futili quando di quelle importanti sembrava non rendersi proprio conto. Annuì senza un particolare interessamento, troppo occupato a pensare a notti gelide e zuppa di fagioli per farsi passare il morboso attaccamento che lo teneva attaccato al lenzuolo come una calamita.
«Perché non provi a legare me?»
Com’è giusto che fosse, Riku pensò immediatamente che Sora doveva essere più che brillo per chiedere in maniera così smaliziata qualcosa che implicava invece un certo grado di malizia, che diversamente a Riku non sfuggì affatto. Avrebbero potuto incolparlo dicendogli che aveva sempre la testa su quel particolare chiodo fisso, e lui avrebbe negato sino alla morte se fosse servito a tenere lontano Sora da quelle che erano le sue reali intenzioni.
«Perché non la pianti di dire cazzate e ti addormenti, una buona volta? Sei ubriaco.»
«Riiiikuuuu» lo fece ancora, ma si spostò con le labbra sul suo collo, mentre le braccia andarono a stringere Riku per le spalle e le mani si posarono sul suo petto.
Gli servì un profondo respiro per mantenere la lucidità, pur facendo appello a tutti i buoni propositi e le ottime ragioni per non voltarlo di schiena e leccarlo lì dove il costume aveva lasciato la stampa più chiara – in basso, oh, così in basso che se fosse sceso appena un po’ con la lingua lo avrebbe fatto gridare di piacere e contorcere per gli spasmi involontari dei propri muscoli. Abbassò lo sguardo sulle piccole dita di Sora che erano diventate robuste e forti, in grado di tenere un Keyblade e afferrare la sua mano così come quelle di tanti che si erano lasciati vincere dall’oscurità.
«Non sono ubriaco, e non sto dicendo nulla di strano. Che c’è di male nel legarmi?»
Ah, ma a Riku sarebbe piaciuto infinitamente bendarlo e passare la propria lingua sulle clavicole e sulle spalle, mordergli i capezzoli lentamente e lasciare tanti minuscoli baci sulla pelle della pancia. Avrebbe adorato il modo in cui si sarebbe spinto verso il palmo della sua mano mentre le sue erano legate alla testiera del letto, e la voce densa di godimento con la quale avrebbe chiamato il suo nome. Per un istante nella sua mente già definitivamente compromessa da troppe fantasie sull’amico immaginò di legargli i polsi alle caviglie, con le piante dei piedi sul letto e le ginocchia sollevate, e infilarsi tra di esse per fargli sentire quanto si poteva torturare qualcuno fino a fargli rasentare la follia.
«Non ti rendi conto di quello che dici.»
Sarebbe bastato solo un altro po’ della sua voce, un altro tocco sbagliato, e Riku si sarebbe lasciato andare davvero. Poteva farlo? Poteva sperare che una notte di… cosa, sesso? Amore? Poteva permettersi di rischiare di perdere ogni cosa? Di perdere Sora? No, quello mai. Riconquistare la sua allegria ed il suo sorriso gli era costato una fatica che non era quantificabile in sforzi o patimenti fisici, quanto più nelle sevizie emotive che si era auto inflitto pur di proseguire e non lasciarsi andare al vuoto una volta arrivato a metà strada. Era una lotta che combatteva da un periodo indefinito contro quella parte di sé che non sottostava alle leggi comuni del mondo, quella parte che voleva ripudiare tutto e perdersi negli occhi bellissimi di Sora e nel calore meraviglioso che le sue mani contro la propria schiena gli avrebbero potuto donare.
«E invece sì. Che ti costa? Sono io a chiedertelo. Pensa a me come a una cavia, per migliorare le tua capacità. Una volta finito non romperò più, promesso.»
Persino la voce di Sora sembrava scendergli bollente per le orecchie, gli rimbombava nella scatola cranica e gli faceva credere che avrebbe potuto farcela, sarebbe riuscito a vedere il proprio amico legato stretto sotto di sé e ad uscirne indenne. Ce l’avrebbe fatta? Aveva seri dubbi a riguardo, ma allo stesso modo era consapevole di quanta cocciutaggine fosse capace di mostrare l’altro ed era certo che non se lo sarebbe scrollato di dosso senza accontentare la sua richiesta.
«Una cosa rapida, che voglio dormire.»
Si alzò meccanicamente, senza preoccuparsi di guardare Sora o chiedergli ancora una volta se fosse sicuro o meno. Controllare la propria smania di coprire il suo corpo con il proprio impiegava già la stragrande maggioranza delle sue energie, e soffermarsi ad osservarlo senza abiti sul suo letto mentre gli chiedeva con gli occhi e le parole di essere legato non sarebbe servito allo scopo.
Rovistò nell’armadio, alla ricerca delle vecchie funi da arrampicata che usava quando era bambino per scalare le palme dell’isola dei bambini. Suo padre gli aveva insegnato come fare, e da allora era certo che le corde ancora nuove fossero rimaste lì a prendere polvere. Spostò il baule dei vestiti invernali, una pila di abiti di dubbia provenienza, altre cianfrusaglie delle quali non si ricordava, e infine mise la mano nello scatolone che conteneva le racchette da beach tennis, un pallone sgonfio e l’oggetto della sua ricerca. Tirò fuori una corda arrotolata su se stessa, di un bel rosso acceso, della quale si ricordava perché insieme a suo padre l’aveva bollita per renderla più morbida ed evitare che strusciandogli contro la pelle lo bruciasse o gli provocasse graffi. La fece scorrere tra le dita, assaporando una sensazione familiare e lontana nel tempo mista al pensiero che ben presto quella corda avrebbe sfiorato la pelle di Sora come mai a lui sarebbe stato concesso.
«Trovata?» chiese Sora stropicciandosi un occhio, ancora seduto svogliatamente sul letto di Riku.
Riku deglutì a forza nel voltarsi, obbligato a volgere lo sguardo al viso di Sora e a nient’altro, specialmente ai boxer azzurri che gli lasciavano scoperti i fianchi e dal cui bordo spuntava un accenno di peluria – e non ci aveva nemmeno fatto caso Riku che lo stesse guardando proprio in mezzo alle gambe, ma era più forte di lui. Si avvicinò cauto e con passo fermo, pronto a prendere le redini della sua coscienza nel caso in cui la situazione fosse precipitata vertiginosamente.
«Sì. Adesso però sta fermo, non voglio farti male.»
Aggirò i piedi del letto, valutando con calma il modo in cui sarebbe riuscito a toccare meno pelle possibile. Fu in quel momento che gli sovvenne una particolare tecnica di legamento di cui parlavano due marinai della ciurma, qualcosa che aveva a che fare con nodi scorsoi e girovita. Si massaggiò il mento e la rada peluria che vi cresceva sopra nel tentativo di ricordare come si chiamasse o come si facesse, suscitando il nervosismo di Sora, che comunque ebbe il buonsenso di starsene zitto e lasciarlo rimuginare per conto proprio.
Nel frattempo Riku aveva ricordato con una certa difficoltà il sukaranbo, ma allo stesso tempo si rese conto di quanto fosse impraticabile sul piccolo, ingenuo, adorabile Sora. Passi che lo avrebbe legato dalle spalle ai piedi, ma fargli passare due cavi di corda in mezzo alle gambe e annodare il tutto in vita sarebbe sembrato strano a chiunque – e per quanto quell’altra sua molesta metà tentasse di convincerlo dello stato confusionale in cui si trovava Sora, il Riku ancora senziente era del tutto consapevole di cosa avrebbe messo in gioco spingendosi oltre un limite che aveva varcato per e contro se stesso.
Di contro non c’era occasione migliore: Sora non avrebbe avuto da ridire, era stato lui a chiedere una dimostrazione pratica; Riku semplicemente lo avrebbe accontentato a modo proprio, guadagnando un pezzetto di Sora che avrebbe conservato con cura e rimosso dalla mente, classificandolo come uno dei tanti sogni in cui ogni cosa dell’amico diventava, per un attimo infinito, sua.
«Allora, ti muovi o aspetti che mi leghi da solo?» lo esortò Sora dal letto, con quei suoi occhioni da cucciolo spaurito che non era affatto. Riku si era sempre domandato come riuscisse ad essere tanto diabolico nella sua innocenza, ma come per tutte le cose finiva per non incolpare Sora ma se stesso che si soffermava a guardarlo come un leone affamato contemplava un pezzo di carne fresca prima di saltarle addosso.
Posò un ginocchio sul letto, facendo cenno a Sora di tenere il busto dritto. Averlo tanto vicino, essere costretto ad affondare il naso nelle sue costole per avvolgergli la vita con la corda era un oppio che lo avrebbe reso schiavo a vita, lasciandolo ad annegare nella sua stessa insoddisfazione. La fune messa in doppio si avvolse piano attorno alla vita di Sora, infilandosi poi nel cappio rudimentale e scorrendo in basso fino a raggiungere il letto. Riku impiegò poca pazienza e molto tempo nel regolare i nodi che lo avrebbero tradito nel qual caso Sora si fosse accorto di cosa stava pianificando, ma finché fosse riuscito a far sembrare tutto una semplice dimostrazione di bravura non avrebbe avuto motivo di instillare il dubbio nell’altro. 
Quando si fu assicurato che i nodi fossero al punto giusto richiuse il cappio sul davanti, per evitare che gli premesse sulle vertebre della schiena, e proseguì dividendo nuovamente la corda in due funi separate che andò a legare attorno ai suoi polsi, costringendoli dietro la schiena in una posa innaturale e abbastanza scomoda della quale però Sora non si lamentò.  Quando fu certo di aver assicurato bene ogni nodo senza che nessuno di essi comprimesse in qualunque modo i vasi sanguigni, si allontanò appena per osservare nel complesso il suo lavoro.
Il risultato era infinitamente peggio di quanto Riku potesse aspettarsi. La corda attorno ai polsi manteneva le braccia di Sora legate sulla schiena, i gomiti piegati ad angolo retto che si sovrapponevano sulla colonna senza pressarla. All’altezza dell’ombelico passava la doppia fune, collegata alla parte sul retro da un giro di corda che dalla vita attraversava le parti intime di Sora e – nonostante non potesse vederlo – affondava nel solco dei boxer, ricongiungendosi alla zona lombare. Era in definitiva la visione più appagante e malata che gli fosse mai stata concessa di Sora, il quale sembrava non comprendere appieno quanto la situazione fosse ambigua.
«Non riesco a muovere le braccia. Mi sa che stavolta mi tocca pure farti i complimenti.» Sora, nella sua infinita goffaggine, si sbilanciò quel poco che bastava per farlo finire dritto tra le braccia aperte di Riku. Naso contro collo, petto contro schiena, e il gemito che gli sfuggì dalle labbra dritto sulla sua gola.
Quel briciolo di autocontrollo che ancora tratteneva Riku dal pensare – e dal fare – le cose peggiori con il suo migliore amico di mezzo andò in frantumi come il piccolo cuore di Sora quando lo aveva aperto con il proprio Keyblade. Lo sentiva distintamente respirare con una cadenza diversa sul suo collo, muoversi impercettibilmente per trovare quel sollievo che stava sicuramente cercando – cosa peraltro impossibile, visto che la corda ad ogni suo minimo movimento sfregava contro l’interno coscia e la mezza erezione coperta dalla stoffa dell’intimo, ed il nodo che Riku aveva assicurato appena più indietro esercitava una dolorosa ma piacevole pressione sopra la propria apertura. Era molto più di quanto Riku avesse sperato di poter vedere nella sua vita, una fantasia che poteva tenere tra le braccia senza la paura di essere scoperto o interrotto sul più bello.
«Riku, queste corde… mi danno fastidio» mugugnò Sora, cercando con la sola forza delle spalle e delle ginocchia di rimettersi in una posizione decente. Riku se lo tenne addosso senza dare nell’occhio, ben attento a non insospettirlo. Una remota parte del suo cervello che ancora funzionava a dovere gli stava urlando di smetterla con quel gioco, che si era spinto anche troppo in là ed era meglio slegare Sora e chiedere scusa per uno scherzo che si era spinto troppo oltre. La realtà oggettiva dei fatti era però che il ragazzo che in fin dei conti amava fino a farsi del male era abbastanza nudo sul suo letto, legato in modo da non poter decidere da sé dove andare e palesemente eccitato dalla situazione che si era venuta a creare – o mortalmente imbarazzato forse, ma le guance rosse di vergogna venivano tradite dal modo in cui cercava lo sfregamento contro la fune per avere un po’ di sollievo.
«Vuoi che te le tolga?» Persino la voce di Riku era molto più bassa del normale, come se pronunciare qualunque cosa ad alta voce avesse potuto spezzare l’atmosfera surriscaldata che aleggiava nella stanza. Nessuno quella mattina gli aveva detto che nell’arco di ventiquattr’ore si sarebbe ritrovato a godersi lo spettacolo della sua unica fantasia erotica che si strusciava su di lui alla ricerca di un piacere che Riku gli avrebbe più che volentieri offerto, e una gradita sorpresa così inaspettata lo confondeva e sovvertiva tutte le motivazione che da mesi si ripeteva insistentemente, un mantra che aveva finito per diventare il suo pane quotidiano. Ma Sora scuoteva la testa e si piegava e premeva contro la sua gamba appena alzata chiedendo di più, un più che Riku temeva di dargli, troppo terrorizzato dall’idea di lasciarsi andare senza riuscire più a trovare la strada del ritorno. Cosa poteva essere un bacio, o qualche carezza solo per farlo stare bene? Davvero lo avrebbe lasciato in quello stato di pietosa agitazione in piena notte, con i suoi genitori che dormivano a quattro metri di distanza? Cosa avrebbero detto se lo avessero trovato intento a sfogarsi da solo nel bagno del pianerottolo?
«Riiiiiikuuuuuu» fu un miagolio più basso, dritto contro la conchiglia del suo orecchio, che Riku non poté rifiutare. Pregò i cuor suo che Sora fosse abbastanza intontito da non capire e se lo attirò di più addosso, lasciando che le proprie dita scorressero languidamente sulla schiena dell’altro. Si sentì come se da assetato gli avessero posto davanti un’oasi, una fonte sorgiva di acqua limpida alla quale abbeverarsi: tutto il resto, dal masturbarsi al buio della sua stanza al raccogliere cocci di un Sora che agli altri era precluso, da quel momento in avanti avrebbe avuto il sapore dell’acqua mista al fango. Niente di così limpido, niente di così perfetto quanto quel momento in cui l’altra mano si posò sui boxer appena umidi di Sora strappandogli infine il tanto desiderato gemito che Riku agognava sentire – un suono eccitante e liquido, solo per lui, unicamente perché se ne saziasse fino a scoppiare. I muscoli che si tendevano e contraevano ad ogni spinta della sua mano aperta, la pressione che con l’altra esercitava sul nodo e le unghia sottili di Sora che gli graffiavano la schiena nel tentativo confuso di non urlare erano tutte percezioni distintamente reali, sensazioni che gli facevano girare la testa e desiderare di poter spingersi molto oltre – ma non ce n’era bisogno, non con Sora, non quando quello che gli veniva concesso andava già ben oltre quanto avesse mai potuto aspettarsi. Infilò due dita sotto la stoffa, sfiorando la pelle sopra il punto stretto dal nodo, lì dove Sora era così caldo che Riku non faticò ad immaginarsi come sarebbe stato slacciarsi i pantaloni e farlo scendere piano sopra il proprio membro durissimo, sentire le pareti del suo corpo che si allargavano per lasciarlo passare e le sue labbra scandire lamenti ancora più acuti soltanto per lui.
Lo aiutò a muoversi piano, a giungere a quel piacere che tanto desiderava con le proprie forze, usando Riku come semplice strumento per sentire l’orgasmo gonfiargli l’erezione e le corde premere di più sulla pelle già arrossata – polsi, vita, braccia, un tripudio di leggeri lividi rossi che Riku avrebbe curato e baciato uno per volta, mentre spiegava a Sora com’erano finiti a praticare roba simile alle tre del mattino.
Quando giunse l’orgasmo, Sora inarcò la schiena e si strinse al corpo già provato di Riku, la cui mano accolse con piacere lo sperma che bagnò del tutto i suoi boxer. Mentre Sora calmava il proprio respiro sulla sua spalla Riku ne approfittò per assaggiarne il sapore, per sapere se aveva davvero lo stesso sapore che immaginava nei suoi sogni – ed era anche meglio, per quanto potesse sembrare deplorevole un’azione del genere. Non provava ribrezzo né sdegno, se avesse potuto avrebbe preso ogni cosa di Sora e l’avrebbe resa sacra, anche quella più insignificante. Asciugò il resto della mano sulle lenzuola, senza preoccuparsi troppo di come avrebbe dovuto sciacquarle l’indomani, e si staccò lentamente da Sora per sciogliere il nodo che gli bloccava i polsi.
Compì l’operazione opposta con una calma innaturale, momentaneamente appagato nei sensi ma non nel corpo, finché anche la costrizione sui genitali di Sora venne annullata. Con altrettanta decisione gli tolse l’intimo fradicio e gliene infilò un paio suo, ancora incredulo e troppo eccitato per realizzare che i suoi boxer erano addosso a Sora. Baciò i segni delle funi con delicatezza, come aveva immaginato di fare in precedenza, e tenne il corpo sfinito di Sora stretto al suo ancora per un po’, fin quando non lo sentì finalmente tranquillizzarsi e cadere in un profondo sonno che lasciava presagire un risveglio nel pomeriggio inoltrato.
Si godette quel momento in cui Sora sembrava essere soltanto suo, libero da qualunque obbligo che glielo tenesse lontano: passò le dita tra i capelli ingarbugliati, gli accarezzò le spalle e la schiena senza fretta, premette le dita sulle fossette del bacino, contò una ad una le vertebre e memorizzò il suo respiro così che potesse fargli compagnia nelle notti a venire. Anche nel posargli la testa sul cuscino e nel coprirlo con il lenzuolo (quello pulito) scoprì una compostezza che non avrebbe creduto possibile dopo tutto quel tempo passato a fantasticare su sesso e depravazioni varie, ma che lo faceva sentire più sicuro di sé e di come avrebbe dovuto trattare l’amico pur restando nell’ombra della propria menzogna.
Non si chiese come avrebbe giustificato i segni a Sora, o il fatto che indossasse un paio di mutande non sue, troppo impegnato ad osservarlo dormire in pace. Anche la sua erezione sembrò calmarsi – perché Sora era lì con lui, c’era sempre stato, e aveva l’impressione che salvo un’apocalisse improvvisa in tutti i mondi lui ci sarebbe stato anche nei giorni che ancora dovevano vedere.
Fianco a fianco, insieme, con un destino unito da un legame che andava ben oltre quello creato da uno stupido frutto.


 

   
 
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