11
Il
lunedì successivo, nella Day Class
c’era grande fermento.
Era il primo giorno di lezione del nuovo
professore di tedesco, e chi l’aveva visto fino a quel momento poteva giurare
che era assolutamente bellissimo.
Il corso di tedesco era stato istituito come
corso supplementare per chi avesse avuto interesse ad imparare una lingua
straniera che non fosse i soliti cinese ed inglese, ma era bastata la notizia
sul fascino del professore per riempire istantaneamente la classe, soprattutto
di ragazze.
«Aspettate di vederlo.» diceva qualcuno
«Sembra un attore di Hollywood».
Chi non riusciva per niente a farsi contagiare
erano Emma e Izumi.
Loro, infatti, ben conoscevano questo attore
di Hollywood, e sapevano cosa aspettarsi da lui.
Emma ancora fumava come una locomotiva, e non
era sicura di poter mantenere l’autocontrollo appena quel damerino avesse messo
piede in classe. Se solo quella testa di legno di Izumi non si fosse impuntata
a voler frequentare a tutti i costi quel corso, avendo sempre amato e coltivato
la passione per le lingue germaniche, lì lei non ci sarebbe non ci sarebbe
andata manco sotto tortura.
Lo stesso quasi si poteva dire di Carmy, che invece si trovava lì a titolo di pura curiosità.
Quando le porte infine si aprirono, vi fu
dapprima un istante di silenzio, seguito, al palesarsi verso e proprio del
professore, da esclamazioni di giubilo da parte dei ragazzi e gemiti ammaliati
delle ragazze.
Definirlo bello era un eufemismo.
I capelli, biondissimi, erano lunghi fino alle
spalle, gli occhi blu ammalianti, il viso di una bella ed elegante forma ovale,
ed il portamento sicuro, fiero. Sorrideva, come se si trovasse perfettamente a
suo agio, e come, raggiunta la cattedra, si voltò verso i ragazzi, le
esclamazioni divennero se possibile ancor più assordanti.
«Accidenti, ma quello è bello sul serio!»
esclamò Carmy, che subito dopo però si calmò come
soprapensiero «Eppure, non so perché, mi sembra quasi famigliare.»
«Buongiorno a tutti.» disse il professore «Mi
chiamo Peter Eisen, e a partire da oggi sarò il
vostro nuovo insegnante di tedesco.
Ho ventisei anni, e sono single.
Molto piacere».
Non ci fu neanche bisogno da parte sua di
concedersi ad eventuali domande, perché queste arrivarono a pioggia appena ebbe
finito di parlare.
«Professore, da dove viene?»
«Da Berlino. Ma sono nato a Monaco.»
«È mai stato fidanzato?»
«Ancora no.»
«Ha degli Hobby?»
«Mi piace leggere e pescare. Ho fatto anche un
po’ di tiro al piattello, ma niente di più.»
«Guardalo come si pavoneggia.» mugugnò Emma
«Inqualificabile».
La russa si stava ovviamente riferendo al
motivo per il quale Emma, e non solo lei, avevano trovato famigliari le
fattezze del professor Eisen nel momento stesso in
cui lo avevano visto.
Peter Eisen non era
certo un professore, né aveva alcun interesse particolare a diventarlo, se si
escludeva la possibilità di stare gomito a gomito con un esercito di leggiadre
e innocenti studentesse.
Lui era essenzialmente un hunter, ma come
molti altri hunter era solito arrotondare il proprio stipendio con lavori
secondari o saltuari.
E con un bel faccino come il suo, ed un corpo
che pareva scolpito nel marmo, quale attività poteva fare se non il modello?
In America in particolare era già piuttosto famoso,
avendoci lavorato nei suoi anni migliori, e di recente aveva iniziato a farsi
conoscere anche lì in Giappone.
«Bene ragazzi, basta con le domande. Direi che
possiamo incominciare».
La lezione prese dunque il via, ma per una
buona parte molti degli studenti, e soprattutto le ragazze, si mostrarono più
interessate a spiare le peregrinazioni del professore su e giù per la classe
che a seguire le sue spiegazioni.
Emma e Izumi erano, ancora una volta, le sole
a non lasciarsi distrarre, ma mentre Izumi aveva gli occhi e la mente tutti
concentrati sulla lezione, Emma al contrario teneva sì un occhio su Peter, ma
solo per poter cogliere in controtempo qualsiasi sua mossa strana.
«Dunque, ricapitoliamo.» disse Peter
incamminandosi lungo la scala di sinistra, proprio quella accanto alla quale
stava Emma, seduta al lato più esterno della sua balconata «I numeri da uno a
cinque sono Ein, Zwei, Drei, Vier, Funf.
Chi sa dirmi quelli da sei a dieci?».
Nel mentre Peter era arrivato in cima alla
scalinata, proprio accanto ad Emma. La bionda russa aveva la brutta abitudine
di non abbottonare mai gli ultimi due bottoni della divisa scolastica, perché
la soffocava diceva lei; effettivamente aveva un petto piuttosto generoso, ma
il vero problema era la sua corporatura abbastanza massiccia, abbastanza da
riuscire ad entrare a fatica nell’uniforme femminile di una scuola giapponese.
Peter fece finta di sostare lì per caso, e di
stare ascoltando la titubante traduzione dal tedesco di uno degli studenti, ma
in realtà era molto più interessato ad osservare che ad ascoltare. Per la
precisione, osservava quello che c’era nella scollatura di Emma.
Ma la russa non stava facendosi i fatti suoi,
come Peter pensava, né stava dormendo. E da un istante all’altro, un tallone
d’acciaio si abbatté sul suo povero piede, tanto forte da fargli temere che si
potesse spaccare in due.
«Azzardati a rifarlo e la prossima volta
mirerò al cavallo dei tuoi pantaloni.»
Tremò come una foglia, trattenendo a stento le
grida, ma dovette appoggiarsi al banco.
«Molto… molto bene…» mugugnò a denti stretti «Ora… direi di passare all’alfabeto…» e tornò zoppicando sui suoi passi.
Eric
non era riuscito a dormire quella mattina, e piuttosto che rigirarsi nel letto
sperando di riuscirci aveva preferito alzarsi, vestirsi e andarsene a fare un
giro per la scuola.
C’era un albero, proprio accanto ad una delle
finestre della classe di Izumi, un ginkgo robusto e sano con molti rami e
foglie, e come aveva già fatto altre volte il giovane Flyer vi si arrampicò,
scelse il ramo più robusto e comodo e si coricò, le braccia dietro la testa e
le gambe incrociate.
Da quella posizione poteva scorgere,
attraverso il fogliame, tutto quello che succedeva nella classe, senza però che
i ragazzi potessero scorgere lui.
All’inizio lo faceva tutti i giorni, troppo
preoccupato che Izumi potesse non essere al sicuro neppure alla luce del sole,
ma poi, anche dopo l’arrivo di Emma e Zero, si era tranquillizzato, finendo
addirittura per smettere di pensarci.
Vedendo che tutto andava bene, e cullato sia
dal tepore del primo sole estivo che da un tiepido vento meridionale, Eric fu
quasi sul punto di addormentarsi, quando il suo fine udito di vampiro gli
permise di notare quasi subito una grossa macchina scura che varcava il
cancello della scuola.
Incuriosito la osservò mentre si fermava
davanti all’ingresso, e la sua curiosità divenne stupore quando vide scendere
dal sedile posteriore nientemeno che la presidentessa dell’Associazione Hunter.
«E lei che ci fa qui?» si domandò.
Doveva essere successo qualcosa di molto
grosso per spingere la presidentessa ad agire in prima persona, e quasi subito
Eric fu colto dall’impulso di saperne quanto più possibile. Arrampicatosi di
qualche metro, arrivò proprio di fronte alla presidenza, proprio mentre la
presidentessa entrava.
Sfortunatamente, il direttore già da tempo
aveva avuto la brillante idea di premunirsi contro gli ascoltatori
indesiderati, installando barriere sonore che impedivano anche al più piccolo
sussurro di lasciare il suo ufficio, e dovendo stare nascosto per non farsi
vedere, Eric non poteva neanche leggere decentemente il labiale, tanto più che
dandogli Kaien le spalle le sue labbra non riusciva
proprio a vederle.
A quel punto, e sempre più curioso di capire
che stesse accadendo, il giovane si risolse ad andare a chiedere di persona.
Sceso dall’albero, raggiunse in pochi minuti
la porta dell’ufficio, ma qui trovò Shezka a
sbarrargli la strada.
«Non puoi entrare, mi spiace.»
«Che sta succedendo?»
«Non lo so, ma niente di buono temo».
E infatti, quasi subito, il direttore si era
accigliato, e più la presidentessa andava avanti nel raccontargli il motivo
della sua venuta più lui si faceva cupo, i gomiti appoggiati alla scrivania e
la testa sorretta dalle mani incrociate a rete.
«Capisci ora?» domandò infine la presidentessa
«La situazione è molto seria.»
«Seria è un eufemismo, se tutto quello che mi
avete detto è vero.»
«Gli animi sono estremamente tesi, sia
all’interno dell’Associazione che nel Consiglio degli Anziani. Mi sono già
consultata con i capi del consiglio, e abbiamo convenuto di organizzare quanto
prima una riunione di emergenza per discutere il da farsi.
Visto che molti dei tuoi studenti provengono
dall’alta aristocrazia vampirica, ho ritenuto
doveroso informare anche te.
Guardati le spalle.»
«Capisco. La ringrazio di avermi avvisato.»
«Ci sono alcuni, sia nell’associazione che nel
consiglio, che criticano fortemente sia la tua scuola che il tuo progetto, e
dopo quello che è successo la loro influenza è in continua ascesa. Ma se questa
riunione chiarificatrice dovesse andare a buon fine, le cose potrebbero
nuovamente cambiare in meglio.»
«Me ne rendo conto. Conti pure su di me. Farei
di tutto pur di proteggere i miei ragazzi.»
«Senza dubbio. Allora, buon proseguimento».
La direttrice, seguita da una delle sue
guardie, aprì dunque la porta per uscire, trovandosi a tu per tu col giovane
Eric; non si erano mai visti prima d’ora, ma ciò nonostante ognuno dei due
sapeva bene chi fosse l’altro.
«Ah, Hunter Flyer.»
«Presidentessa.»
«Spero non vorrà tradire la fiducia che
l’Associazione ha deciso di concederle. Contiamo tutti molto sulla sua
competenza e professionalità, e ci auguriamo che possa tornare in servizio
attivo quanto prima. L’Associazione ha bisogno ora più che mai di Hunter del
suo calibro.»
«Senz’altro.» rispose rispettosamente Eric
«Spero di rincontrarla presto. E dica pure a
sua madre che, quando vorrà, sarà sempre la benvenuta nella mia residenza di Klagenfurt. I vampiri nobili che sanno usare il cervello
sono un bene raro di questi tempi.»
«Riferirò sicuramente.»
«Allora, arrivederci.»
«Anche a Lei».
I due si scambiarono un rapido sguardo, poi la
presidentessa se ne andò.
«Quella donna sembra tanto gentile e
disponibile.» commentò il direttore mentre Eric chiudeva la porta «Ancora oggi
non riesco a capire come mai abbia accettato così di buon grado che tu venissi
a studiare qui.»
«Che cosa è successo?» tagliò corto Flyer.
Anche il direttore non volle girarci attorno,
ed Eric non ricordava di averlo mai visto così nero.
«Nelle ultime settimane, due importanti
famiglie aristocratiche, i Kamsievic di Budapest e i Nogiev di Minsk, sono state assaltate e sterminate nei loro
palazzi.»
«Cosa!?» esclamò il ragazzo attonito
«Ancora non si sa di preciso cosa sia
successo. Ma a giudicare dai rapporti, in entrambi i casi deve essersi trattato
di un assalto in piena regola. Non ci sono superstiti, e i luoghi delle stragi
erano ridotti in uno stato agghiacciante.»
«Non ci sono indizi che possano aiutare a
capire chi possa essere stato?»
«Niente di niente. Ed è proprio qui che sta il
problema. Qualcuno pensa che possa trattarsi di faide personali tra membri
dell’aristocrazia, come se ne vedono di tanto in tanto, ma altri invece
arrivano a sostenere che potrebbe trattarsi dell’inizio di una nuova guerra di
potere tra i Livello A, o peggio ancora che vi sia di mezzo l’Associazione.»
«Ma questo è ridicolo. Noi non facciamo certe
cose!»
«È quello che la presidentessa vorrebbe far
capire. Quanto prima sarà organizzato un incontro ufficioso tra le parti per
cercare di raffreddare le acque, nella speranza che possa bastare.»
«Quindi era a questo che Peter stava lavorando
prima di venire qui.»
«Il primo assalto risale a quasi un mese fa.
Peter era stato inviato ad investigare, ma poi il caso è passato nelle mani
della commissione d’inchiesta. Si sperava che fosse un caso isolato. Invece,
cinque giorni fa è stata sterminata anche la famiglia Nogiev».
Un brivido attraversò il corpo di Eric,
accompagnato da un orribile pensiero. Il direttore lo intercettò.
«Non preoccuparti. Tutte le famiglie più in
vista dell’aristocrazia sono già state segretamente informate. Ho parlato con
tua madre l’altro giorno, dopo aver saputo dello sterminio dei Nogiev. In questo momento sono al sicuro in un rifugio
segreto sugli Appennini.»
«Quindi adesso, cosa succederà?»
«Come puoi immaginare, molte famiglie
aristocratiche cominciano ad essere preoccupate nel sapere i propri figli ed
eredi in un posto all’apparenza tanto vulnerabile. La presidentessa ha
rassicurato ognuno di loro, così come il consiglio, e anche se la presenza di
un così elevato numero di Hunter all’interno della scuola costituisce un ottimo
deterrente, mi ha richiesto di attivare quanto prima i nostri sistemi
difensivi.»
«Sistemi difensivi!?»
«Tranquillo. A tempo debito saprai ogni cosa.
Aspetterò ancora qualche giorno per azionarli. Il tempo necessario perché
arrivino alla Cross gli unici due studenti stranieri che ancora mancavano
all’appello. Per ora, speriamo solo che non accadano altri fatti simili».
Da
quando si era sparsa la voce degli attacchi contro i membri dell’Aristocrazia,
la famiglia Kurenai aveva trasformato la propria
residenza sulle montagne di Shikoku in una specie di
fortezza, sorvegliata a vista da decine di guardie, anche mercenarie.
Nessuno doveva avvicinarsi.
Il consiglio aveva minimizzato, sostenendo che
chiunque fosse il responsabile non sarebbe mai stato tanto folle da attaccare
una famiglia di Sangue Puro.
Finché si trattava di massacrare aristocratici
era un conto, ma un’intera stirpe di Livello A era tutta un’altra cosa, e gli
assalitori dovevano per forza saperlo.
Ogni notte, sia l’interno che l’esterno della
villa erano severamente presidiati, ed anche quella notte la sorveglianza era
strettissima.
Nel cortile, le guardie scrutavano l’oscurità,
mentre quelle posizionate a guardia dell’alto muro di cinta e dell’unico varco
di accesso fendevano la foresta tutto attorno alla ricerca del minimo segnale
di pericolo.
Visto che nessuno sapeva chi o cosa avesse
attaccato le altre famiglie, nessuno di conseguenza sapeva neppure cosa si
dovesse cercare o scorgere di preciso, e quindi l’attenzione doveva essere
costante.
Certo, nessuno poteva neanche solo immaginare
la reale portata della piaga che era in procinto di abbattersi su di loro.
Erano da poco passate le due.
Il silenzio era quasi spettrale, e all’interno
della villa la famiglia Kurenai stava consumando il
proprio desinare, sotto l’occhio perennemente vigile dei guardiani.
D’un tratto, uno strano rumore catturò l’attenzione
di quelli che stavano all’esterno.
«Lo senti?» domandò uno ad un suo compagno,
volgendo gli occhi al cielo
«Un aereo?» ipotizzò quello.
Era troppo buio, e comunque stava troppo in
alto perché potessero vederlo, ma si trattava effettivamente di un grosso aereo
da trasporto di fabbricazione russa, con sopra inciso lo stemma della
Repubblica dell’Est, che decollato dalla base militare americana più vicina
stava ora transitando sui cieli di Shikoku.
«Siamo in posizione.» disse l’addetto al radar
«Torre di controllo, sorvoliamo l’obiettivo.»
disse uno dei due piloti «Pronti a sganciare il carico.»
«Siete autorizzati allo sgancio. Procedete.»
«Ricevuto, torre. Sgancio in dieci secondi».
D’un tratto, sulla pancia del velivolo si aprì
un’enorme portello a due ante, dal quale, dopo qualche istante, sporse la parte
inferiore di un altrettanto gigantesco oggetto di forma ovale: sembrava una
specie di missile, o una bomba, ma non aveva né inneschi né sistemi propulsivi,
almeno a prima vista; solo degli alettoni per stabilizzare la caduta, ed una
punta estremamente acuminata all’estremità opposta, forse per permettergli di
potersi conficcare meglio nel terreno.
«Stiva di carico aperta. Contenitore all’esterno.»
disse il secondo pilota
«Bersaglio agganciato.» disse l’addetto al
puntamento inquadrando con il suo mirino il cortile della villa «Tre… due… uno…
sganciare!».
I supporti furono allentati, e l’enorme
ordigno a forma di uovo, almeno dieci metri di lunghezza per tre o quattro di
diametro, fu lasciato cadere sul suo bersaglio.
La bomba precipitò alla velocità di una
meteora, e le guardie non si accorsero della sua presenza fino all’ultimo
momento, quando era ormai ad un tiro di schioppo dal suolo.
«Attenti, via!» urlò il primo che la
riconobbe.
Tutti fecero il vuoto attorno al probabile
punto d’impatto, buttandosi a terra nel disperato tentativo di salvarsi la
vita, ma grande fu il loro stupore quando l’ordigno, infrangendosi al solo come
un gigantesco maglio da guerra, produsse nulla più che un frastuono assordante,
un polverone inestricabile e un leggero terremoto.
Tutto ciò venne udito anche all’interno, in
sala da pranzo.
«Che succede?» domandò il patriarca vedendosi
saltare il piatto davanti agli occhi.
Passata la tempesta, le guardie, timidamente,
si rialzarono, e facendosi strada tra la polvere qualcuna di loro si avvicinò
all’ordigno, che come una freccia si era conficcato per una buona metà nel
terreno producendo un piccolo cratere nel terreno morbido.
«In nome del cielo…»
disse una.
Forse non era esplosa, o forse non era fatta
per esplodere. Ma chi e perché l’aveva scagliata?
Tutti si stavano ancora facendo queste
domande, quando d’un tratto, senza un motivo apparente, la parte superiore del
missile si aprì come i petali di un fiore, espellendo da proprio interno, e
rivelandosi quindi cavo, una strana poltiglia gelatinosa di colore giallo
sporco, e dalla consistenza simile alla gomma.
«Ma cosa…» domandò
una guardia.
Poi, dall’interno del foro parve giungere
qualcos’altro; sembrava un lamento, o comunque un gemito, ma sicuramente non
era un suono naturale.
Una delle guardie, incuriosita, si avvicinò
ancora di più, nonostante gli avvertimenti dei suoi compagni. Per questo, fu la
prima a notare la comparsa, sempre dall’interno dell’ordigno, di uno strano e
terrificante essere mostruoso, che gracchiando e trascinandosi come schiacciato
da una gravità eccessiva si eresse faticosamente oltre il bordo mostrandosi per
interno.
Era abominevole.
La pelle era rossa, tirata allo spasimo, come
fosse stata sul punto di lacerarsi, la bocca sproporzionata e armata di ben
quattro file di artigli acuminati, due per ogni arcata; non sembrava avere
occhi, e nonostante l’apparenza umana camminava su quattro zampe come una
belva, strisciando i suoi sedici artigli ricurvi e taglienti contro la
superficie metallica dell’ordigno.
Dalla bocca semiaperta colava una bava oleosa
ed appiccicosa, ed emetteva un gemito simile ad un roco ronzio. Le zampe
posteriori erano leggermente più corte di quelle anteriori, e piegate ad
angolo, e le sue dimensioni erano molto superiori a quelle di un comune essere
umano.
«Mio dio…» disse la
guardia più vicina.
Essersi voluto avvicinare fu la sua condanna.
Nonostante, teoricamente, non potesse vedere,
la creatura si accorse di lui, e con un salto sproporzionato, che tradiva l’iniziale
parvenza goffa e malaticcia, piombò giù dall’ordigno, si avventò su quel povero
disgraziato e con un solo fendente gli portò via di netto la testa,
uccidendolo.
Le altre guardie, sconvolte, a quel punto
reagirono, chi cercando il corpo a corpo chi mettendo mano alle armi, ma quell’essere,
oltre che agile, era anche di una velocità disarmante, e piombò su ognuno di
loro facendone strage.
Dopo meno di trenta secondi, il cortile del
palazzo era un mare di sangue, interiora e cenere.
Il mostro, compiuto il suo massacro, saggiò l’aria,
accertandosi di non averne lasciato nessuno, quindi con passo veloce corse verso
il palazzo.
Quasi contemporaneamente, il rimbombo di un
elicottero a bassa quota riecheggiò nel silenzio venutosi nuovamente a creare,
e da dietro una collina, agitando le cime degli alberi, sbucò un grosso
velivolo militare, anch’esso con lo stemma della Repubblica impresso sulla
fiancata; il mezzo volò basso fino al centro del cortile, illuminando col suo
faro il mare di morte sotto di sé, ed una volta qui si posò dolcemente a terra.
Poi, prima ancora che le pale di spegnessero,
il portellone si aprì, e dall’oscurità all’interno emerse un ignoto e
gigantesco figuro, così grosso, e all’apparenza così possente, che l’elicottero
sobbalzò sotto il suo peso mentre scendeva.
Doveva essere alto più di due metri,
ridondante di muscoli, con gli occhi ambrati che scintillavano di follia, e
denti affilati come quelli di un animale; portato a spalla, poi, aveva
qualcosa, qualcosa di enorme come lui, con varie dentellature disposte ad
intervalli regolari lungo tutto il perimetro.
Questi, appena sceso, piegò le sue orrende
fauci in un malvagio sorriso, e contemporaneamente guardò verso il palazzo.
All’interno dell’edificio, intanto, il mostro
aveva nuovamente dato il via alla propria mattanza, senza che nessuno riuscisse
a fermarlo, uccidendo chiunque gli capitasse a tiro, compresi gli inermi ed
inoffensivi inservienti, quindi come una marea inarrestabile dilagò fino in
sala da pranzo, dove trovò ad attenderlo, spade alla mano, il patriarca della
famiglia e la sua giovane moglie.
Maria non c’era; era stata portata al sicuro
dalla sua balia.
«Orrenda creatura!» urlò il patriarca
scagliandosi all’attacco «Fuori da casa mia!».
Ma, ancora una volta, il mostro si rivelò
troppo agile, persino per un Sangue Puro; oltre ad essere agile, poi, quella
creatura era dotata di zampe simili a quelle degli insetti, che lo rendevano in
grado di attaccarsi ai muri ed al soffitto come una mosca, il che rendeva molto
difficile riuscire a colpirlo.
Il patriarca e la moglie lo ingaggiarono come
meglio poterono, ma anche in due non riuscirono ad avere la meglio, e più
passava il tempo più il patriarca, vinto dal senso di impotenza, si lasciava
guidare dalla collera. Questo, purtroppo, lo rese prevedibile, e ad un certo
punto il mostro, schivato l’ennesimo assalto, gli piombò addosso dal fianco cogliendolo
alla sprovvista.
«Caro, attento!» gridò sua moglie.
Senza pensarci lei si mise in mezzo, un gesto
d’amore che le costò la vita, poiché l’artigliata che avrebbe dovuto concludere
l’esistenza del marito invece pose fine alla sua.
Fu un colpo letale, senza scampo, ed il
patriarca vide la sua adorata moglie tramutarsi in vetro davanti ai suoi occhi
per poi ridursi in cenere.
A quel punto, la frustrazione divenne rabbia
incontrollabile.
«Maledetto mostro! Muori!».
Infuriato oltre ogni limite, il patriarca
diede fondo a tutto il suo potere, e a quel punto persino quel mostro si
ritrovò in difficoltà; il patriarca prima gli mozzò un braccio, senza che ciò
sortisse apparentemente effetto, poi, approfittando di un momento favorevole,
gli troncò di netto la testa, riuscendo finalmente ad ucciderlo.
«Muori! Muori!» urlò l’uomo in preda all’ira
infilzando più e più volte il corpo ripugnante di quel mostro.
Solo dopo molti secondi il raziocinio tornò a
guidarlo, e tirando dei lunghi sospiri per riprendere fiato estrasse per l’ultima
volta la lama dal mostro, certo di aver finalmente avuto la meglio.
Il pensiero di aver appena perduto la propria
moglie, oltretutto per una propria, imperdonabile leggerezza, lo tormentava, e
forse fu proprio per questo che non riuscì ad accorgersi fino all’ultimo di
essere osservato.
Se ne avvide solo quando, dall’alto, si sentì
colare addosso una strana bava appiccicosa, ed alzati gli occhi si ritrovò a tu
per tu, stavolta impreparato, con un nuovo abominio.
Il suo ultimo pensiero fu per la sua adorata
figlia.
Probabilmente, pensò chiudendo gli occhi, si
sarebbero comunque rivisti presto.
Maria
era chiusa in camera sua, terrorizzata, con la sua balia come ultima linea
difensiva.
«Non temete, signorina.» disse la giovane
governante sentendo avvicinarsi la minaccia «Io vi proteggerò ad ogni costo».
Come le porte furono sfondate, ed il mostro
entrò nella camera, la governante gli si scagliò contro mulinando la sua falce,
ma il suo stupore raggiunse il culmine quando vide quella creatura che, come
per magia, le scompariva davanti agli occhi, quasi fosse stato un fantasma.
«È…. È scomparso!».
Si guardò intorno, cercando di capire se
potesse essersi spostato senza che riuscisse a vederlo, ma nella stanza non c’era
nessuno a parte lei e la signorina.
«Attenta, dietro di te!» urlò all’improvviso
Maria.
Non vi fu il tempo di fare nulla.
Da un istante all’altro, la governante avvertì
un colpo secco, accompagnato da una strana sensazione, e solo in un secondo
momento si accorse di avere quattro artigli che spuntavano dal suo corpo
grondanti sangue.
Il mostro, comparso come era sparito alle
spalle della donna, lanciò un ruggito, e subito dopo sollevò in aria la sua
preda sotto gli occhi atterriti e sconvolti di Maria.
«Signorina! Scappate!» urlò la donna un
istante prima che un secondo colpo d’artigli si abbattesse sulla sua testa con
la potenza di un cannone.
Ciò che Maria vide fu capace di spegnere la
luce del suo animo, lasciandola con due occhi privi di vita piantati sul
mostro, che dopo aver lasciato andare quanto restava della sua giovane balia
rivolse la sua attenzione direttamente contro di lei.
Eppure, nonostante ciò, esitò ad attaccare,
seguitando a rimanere a debita distanza, tenendo quella povera ragazza sotto la
minaccia dei suoi artigli.
Poi Maria, raggomitolata a terra, con il poco
raziocinio che le restava sentì un rumore sordo di passi che percorrevano il
corridoio, e l’essere che da un momento all’altro vide comparire davanti ai
suoi occhi era quasi peggio di quello che aveva visto uccidere la sua balia.
Era un gigante.
Un gigante nero ridondante di muscoli, capelli
rossi raccolti in lunghe trecce rasta e chiusi dietro la nuca da una cordicella
colorata, occhi piccoli e gialli e labbra sottili da cui sbucavano due file di
denti affilatissimi. Indossava solo un paio di pantaloni lunghi ed un gilè
viola senza maniche, il che rendeva ancor più evidente la vastità della sua
muscolatura, e brandiva una motosega dalle misure sproporzionate, che nessuno
essere umano sarebbe stato capace neanche di sollevare.
Per un istante, Maria cercò di pensare che
potesse essere un amico.
«Ti prego…» mormorò
terrorizzata «Aiutami…».
Ma lui, invece, rise, e quando Maria vide l’altro
mostro camminare al suo fianco come un fedele cagnolino, quanto restava della
sua mente realizzò che era davvero la fine.
«Tanta fatica per una mocciosa simile.» disse
il gigante, che subito dopo si avvicinò alla ragazzina, con passo lento e
sicuro.
Maria lo vide sovrastarla, incapace di
muoversi fino al punto di non riuscire a respirare.
Il gigante la guardò, sorridendo malefico,
quindi mise una mano nella tasca del gilè, prendendone fuori una boccetta di
vetro che schiacciò come un uovo sopra Maria, inzuppandola del suo contenuto,
uno strano liquido violaceo dall’odore pungente.
Era come una specie di battesimo. O forse, un’estrema
unzione.
Infatti, un istante dopo, il silenzio venutosi
a creare fu riempito dal fragore assordante della motosega che il gigante aveva
messo in funzione.
«Rilassati. Non sentirai nulla».
Solo allora, di fronte alla fine, Maria
riacquistò la ragione, ma ormai era troppo tardi, e tutto quello che poté fare
fu osservare con occhi pietrificati e bocca spalancata quella lama oscillante
che si avvicinava a lei.
Passò un istante, ed nei corridoi di quella
villa inondata del sangue di chi vi aveva vissuto fino a pochi minuti prima
riecheggiò un urlo spaventoso, che sembrava venire dalle profondità dell’inferno;
poi, più niente.
Nota
dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Sono vivo!
Ci sono riuscito!
Sono passato
indenne per uno dei momenti più angoscianti e sconfortanti della mia carriera
da studente!^_^
Non so
ancora come sia andata, ma sono piuttosto fiducioso circa il buon esito di questa
prova, e appena saprò qualcosa di più preciso non esiterò a condividerlo con
voi.
Allora? Che
vi è parso di questo nuovo capitolo?
Molto splatter
direte voi.
A parte
questa piccola parentesi, non credo vi saranno altre scene simili, ma non prendetemi
in parola.
Nel prossimo
capitolo arrivano gli ultimi due ritardatari, Derek e Gabriele, ma prima che lo
possiate leggere sto preparando per tutti voi una piccola sorpresa.
Ne saprete
di più a breve, ve lo prometto.
A
presto!^_^
Carlos Olivera