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Autore: MorgueHanami    20/11/2012    3 recensioni
La vita del frontman dei Thirty Seconds To Mars ha sempre affascinato con la possibilità di avere una cresta pomegranate spiaccicata sulla testa, gli occhi azzurri come fari che annebbiano la vista, un volto dai lineamenti fini e dolci. Ma la vita di Jared Leto non era così bella come i suoi adorati echelon la vedevano: dietro quel volto sempre allegro e spericolato si nascondeva un quarant’enne stanco, che aveva bisogno di evadere dalla prigione d’oro che la musica era stata in grado di costruire, aveva il bisogno di avere qualcuna al suo fianco, qualcuna che non lo facesse soffrire, qualcuna che le telecamere non potevano vedere.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premetto che magari non sarò poi così brava a scriverla, ma spero di sì.
Non so, sarà che Rayon mi ispira, sarà che dopo il VyRT e aver visto Jared così fragile, dolce, quasi da difendere, ho avuto la strana sensazione di scriverla seriamente. Cominciando a dire che non capisco un emerita “Acca” di tumori, cancri e AIDS, questa storia non sono proprio proprio tanto sicura andrà a finire bene…
Anzi. Quindi, ai malati di cuore, ai malati di Jaredite Letite Acuta, a tutte le persone empatiche, a tutte le persone che piangono anche per i Teletubbies (?) Questa storia non so quanto faccia per voi.
Io spero vi piaccia. A me non piacerà sicuramente. Morgue.
 



Into vacuum. – Prologo.

Una sensazione così fragile, leggera come l’aria e pesante, come la calce, nera come il catrame che si confondeva tra le onde di sentimenti traducibili in ansia e timore: dove fosse? I suoi occhi azzurri non lo sapevano, eppure quel luogo senza forma e luce lo faceva sentire bene; un ammasso di sensazioni gradevoli, leggerezza e purezza d’animo, una tranquillità che tra i comuni giorni non riusciva a sentire più. Lo stress del concerto, la voglia di evacuare, una vita privata da voler portare avanti ma senza ottimi risultati, un cane bianco che si appoggiava con il muso bavoso sulla sua gamba. La vita del frontman dei Thirty Seconds To Mars ha sempre affascinato con la possibilità di avere una cresta pomegranate spiaccicata sulla testa, gli occhi azzurri come fari che annebbiano la vista, un volto dai lineamenti fini e dolci. Ma la vita di Jared Leto non era così bella come i suoi adorati echelon la vedevano: dietro quel volto sempre allegro e spericolato si nascondeva un quarant’enne stanco, che aveva bisogno di evadere dalla prigione d’oro che la musica era stata in grado di costruire, aveva il bisogno di avere qualcuna al suo fianco, qualcuna che non lo facesse soffrire, qualcuna che le telecamere non potevano vedere. Jared voleva la vita normale, si era quasi annoiato di sembrare un divo del cinema, nonostante dinnanzi alle telecamere si ostinasse a dimostrare l’esatto contrario. Con quei suoi modi bizzarri di fare, il suo sorriso attraente, la voce rauca e sensuale sapeva catturare gli spettatori e farli cadere nella sua trappola: che tutto andasse bene, Jared voleva che i suoi adorati echelon pensassero questo. C’erano i concerti, per lui questo era importante: che fosse allestito uno stage perfetto in cui poter cantare. Quando facevano i concerti, durante gli acustici, Jared fissava ogni singolo echelon alla transenna per più di qualche minuto: voleva capire cosa quegli occhi chiedessero, voleva esaudire ogni loro desiderio, perché l’amore più spassionato, per lui, erano i suoi soldati, la sua famiglia, le loro mani che si alzavano all’unisono al ‘No!No!No!No!’ di Closer to the Edge, i cori sotto ogni canzone; ma adesso, a Jared Leto, cosa rimaneva? Una sensazione di vacuum, una sensazione interrotta dai pensieri che non smettono mai di tacere. E una strana sensazione di innata libertà. Sospeso nel buio, per la prima volta non sentiva il peso del proprio corpo: il suo animo, libero, viaggiava in un “vacui” senza tempo né spazio, senza un perché.




 

1 –  Stranger in a strange land.

Fragilità genetica; un tumore può nascere da qualcosa di inspigabile. 'Ho un tumore' dici, un bel giorno, e il mondo sembra caderti un po' addosso. ' Hey, oggi venite a casa mia? Sapete devo dirvi una cosa importante' - ' Cosa?' - ' Ho un tumore al cervello che mi consente di vivere solo per tre mesi'. Dirlo con schiettezza, come se fosse un episodio che al mondo capita spesso: purtroppo è così. Una mattina ti senti male e capisci che  hai un tumore, un cancro, l'AIDS, che adesso devi realizzare tutti i tuoi progetti perché quella lancetta della vita scocca, ogni secondo è oro, hai troppo poco tempo per vivere. Mery a diciassette anni aveva davvero poche cose da realizzare: i soliti sogni da diciassettenne. Voleva un ragazzo, tanto tempo da passare con le amiche e incontrare i suoi idoli. Eppure, lei, invece di andare a concerti, invece di fumare fuori un balcone ridacchiando, invece di occupare una scuola, invece di vivere come una ragazza spensierata avrebbe il diritto di fare, passava le sue giornate in uno sterile ospedale bianco, a Los Angeles, tra chemioterapie e parrucche, tra sedie a rotelle e attese. Ma non sembrava scoraggiarsi, quando sfiorando la triade, si sentiva viva. Viveva la maggior parte della sua breve vita in una gabbia, tra medici e malati, ma sembrava stare bene tra quelle sbarre soffici. Tra le sbarre della musica 'a palla', quando si sentiva giù, quando sapeva di poter contare su quattro glifici e una voce acuta e soave, che ti rassicurava. Era la tipica echelon che un concerto dei Thirty Seconds to Mars non aveva mai avuto occasione di vederlo, un echelon costretta a guardarli sempre da uno schermo; o meglio, era quello che credeva fin quando non si ritrovò con un golden ticket tra le mani - si sa, quando hai solo qualche mese di vita, tutti vorrebbero vedere realizzarsi i tuoi sogni - e successivamente Jared Leto a pochi metri di distanza, che cantava. Dopo  quella sera, dopo quella foto, quando lesse negli occhi di quell'uomo un  ispiegabile senso di morte, decise che nulla, nulla, l'avrebbe più rattristata. Nulla avrebbe fatto in modo da dimenticare il giorno più bello della sua vita.
 
- Come ti senti? - chiese Sharon, bionda e con qualche ciocca di capelli rosso fuoco, due occhioni nocciola e un po' a mandorla, guance rotonde come il volto, rossetto sulle labbra e vestita con i primi stracci trasandati trovati nell'armadio.
- Bene. - rispose, fredda, Mery dagli occhi bui, neri come i capelli corti da poco cresciuti, un paio di mani lunghe e affusolate, dalle dita laccate di nero e due lievi occhiaie sotto gli occhi, il solito camice per pazienti e la pelle troppo bianca e stranamente morbida.
- Non sei riuscita a dormire?- Sharon continuava a camminare lungo il corridoio, osservando tra le porte spalancate, alcune socchiuse, i volti tristi dei malati di tumore. Mery non rispose, guardando a terra, con il braccio stirato e una flebo in vena, mentre trascinava al suo  fianco l'apposito 'marchingegno' per poter portare la sacca dietro. - E' per Jared? - Mery sussultò. Poi annuì. - Ho saputo che ieri durante un concerto si è sentito male e lo hanno portato in  ospedale. - bisbigliò, diventando ancora più pallida. - vorrei sapere dov'è, ora. Vorrei tanto stringergli la mano. - sorrise,malinconica. -come tempo fa. -
- Sono sicur.. - Sharon si bloccò, inarcando un sopracciglio. Mery osservò la massa di fotografi in fondo al corridoio, accumulati uno dietro l'altro, che urlando contro i medici continuavano a fare domande, scattare foto, agitarsi. L'echelon chiuse per qualche istante gli occhi, abbagliati dal flash. - death by flash - sussurrò Sharon, ridacchiando. E Mery per pochi istanti sorrise. - Chi credi sia?- mugugnò qualcosa. - La solita star che viene a far visita ai bambini. - tono ironico. - .. pur di farsi pubblicità. - concluse. Si avvicinarono lentamente alla folla, e solo allora si accorsero della massa di fan che veniva mantenuta all'entrata della porta, assieme ai fotografi.
- Vogliamo vederlo! Vogliamo sapere come sta! - Mery si accigliò.
- Forse è meglio andare via. - suggerì Sharon, lievemente sconvolta.
- Shà, che hai?- ma Mery insistette,non concedendogli il braccio. - che hai visto? - gli occhi di Sharon contornati di orrore presero per il braccio Mery. Tremavano le mani, gli occhi cominciavano ad essere lucidi e all'udito umano era percettibile il  battito del cuore. Affannata, non parò la trasandata Sharon, mentre con violenza trascinò via Mery.  - Mery.. meglio se non vedi cosa sta succedendo lì dentro. Non entrarci in quella stanza. Non entrarci. - sussurrò, piangendo.



 

~ 


 
 
Gambe incrociate, occhialoni da topo di biblioteca, capelli legati, un plaid come drappo e una tazzona bianca di caffè tra le mani affusolate. Il vetro degli occhiali s’appannava quando la tazza fumante si avvicinava al viso, le guance sfioravano l’umidità ai bordi interni della tazza semivuota. Sorseggia caffè americano, poi il dito della mano scivola sulla freccetta in basso della tastiera e la pagina web dello store scivola alla fine. Sorseggia ancora. Mugugna qualcosa. Strizza gli occhi. Posa la tazza. Chiude l’apple. – Jared, se non te la senti, possiamo rimandare il concerto. – Ma la figura ossuta non rispose. – E’ da troppo tempo che sei così… stanco, fragile. Davvero, se non ti dai una calmata se ne accorgeranno. – Shannon con un occhiataccia osservò Rippley che prese il cappello per metterselo in testa. Jared sorrise. – Rippley? – e la scimmietta rispose, saltando sul suo braccio, allungandosi sulla sua spalla e poi sulla sua testa, scompigliandogli i capelli castani. – Jared, rispondimi. – Shannon s’alzò dallo sgabello del pianoforte e s’allungò verso la porta che portava al giardino. – Sei ancora in tempo, sei sempre in tempo per annullare qualche data e metterti su… farti le dovute visite. – sospirò, osservando l’esterno. – Shannon, sto bene. Non è detto che sia tumore, tantomeno maligno. Hanno detto che non c’è pericolo, li hai sentiti anche tu. –
- Jared, il pericolo non sussiste se ti lasci curare, il discorso è differente, capisci? –
- Non ho bisogno di cure, sto benissimo Shan, capisci? – Jared s’alzò e Rippley si strinse al suo collo per timore di cadere. Poi, quando comprese il lento incidere del Leto, ritornò in equilibrio sulla sua spalla, osservandolo e ogni tanto toccandogli i capelli, come se volesse spulciarlo. – Hmm, Rippley, annullo la data? – ma la scimmia non rispose. – Perfetto. Tomo? – Shannon non rispose. – Sto parlando con te. – disse, cercando di dargli uno spintone: ma il risultato fu una lieve carezza, tant’è che fu lui ad indietreggiare di qualche passo. – Jared. – Shannon sbuffò. – Non lo so, credo con Vicky. Altrimenti non mi spiego il ritardo. – e Shannon uscì, lasciando solo Jared nella stanza. Le mani tirarono a sé la coperta, stringendo il busto minuto in una morsa di calore. Sospirò, riprese la tazza e il vetro delle lenti si appannò di nuovo, rendendo agli occhi azzurri una visuale non definita. - … - aprì bocca. Non parlò. La tazza riscaldò l’orlo del labbro inferiore, mentre Jared chiuse gli occhi. “ non posso annullare la data” pensò. E poi, ricordò di quella ragazza dagli occhi bui, quella ragazza che.. Mery, si chiamava così. Pensò che  i suoi occhi erano pieni di vita, pensò che nascondessero il VERO significato della vita. Jared pensò di volerla rivedere. Jared pensò che quella “straniera” un motivo per il quale si chiamava ‘ Mery’ ci fosse. Jared pensò a tante, troppe cose, e in quel momento la sua testa cominciò a gonfiarsi troppo. “ Troppi pensieri” pensò, guardando i suoi occhi azzurri dal riflesso del vetro. “ Questi occhi piacciono a tutti” pensò “ eppure, sono proprio loro la causa del mio malessere.” E ancora, pensò agli occhi di Mery, chiedendosi perché quell’echelon gli sia rimasta così impressa. Poi sentì i suoi occhi andare all’indietro, le palpebre chiudersi e la bocca far uscire la lingua. E pensò che stava per sentirsi male di nuovo. “ chissà se anche Mery soffre così” pensò alla fine, prima che Tomo lo afferrasse. E pensò se Mery era ancora viva quando, sul palco, il giorno dopo, crollò.
 
 

  
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