Storie originali > Thriller
Segui la storia  |      
Autore: ramoso97    21/11/2012    1 recensioni
La curiosità uccide il gatto.
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Tre.
Un numero perfetto.
Il numero perfetto.
Ma come mai? È dispari.
Eppure, lo è.
Ricordo che il mio vicino, un vecchio anziano di circa ottant’anni dai capelli brizzolati e radi, aveva tre rose piantate nel vialetto di casa sua. Lui si chiamava Jack Russell Jonathan Smith. Era un tipo rozzo, dalle mani grandi e turgide. Un anziano sempre ricurvo sul davanti con una gobba pronunciata sul lato destro della schiena. Il suo sguardo profondo e vecchio metteva suggestione a chiunque lo guardava. Mai un ghigno stampato sul viso, non un solco di una lacrima lungo lo zigomo. Non era un uomo che provava sofferenza, tutt’altro. Sembrava sopprimerci con la sola forza delle sue iridi ghiaccio. Indossava sempre la solita camicia rattoppata di mille colori e i pantaloni di fustagno nocciola sporchi di terra. Sulla manica destra, all’altezza del gomito alloggiava ricucita una pezza rossastra con delle figure di animali, simili a quelle utilizzate per le lenzuola dei bambini. O almeno così mi sembrava. Per uscire, cosa assai rara, sistemava un maglioncino sulle spalle e infilava un cappello scuro simile a una bombetta. Ai piedi calzava i soliti vecchi calzini bucati e un paio di ciabatte dalla fasciatura larga che ad ogni passo sembrava gli scappassero. Noi della via lo chiamavamo Nonno Ru per la familiarità che aveva nelle nostre case. Il nostro non è un quartiere che brilla di ricchezza e lui era l’uomo che trovava lavoro alle nostre giovani madri ma non per questo gli volevamo bene.
Le sue rose erano rosse e sempre rigogliose. Forse è questa la formula della perfezione? In tutto il vicinato, non trovavi rose migliori. Il suo profumo, in primavera, riscaldava l'aria in tutto il quartiere con un aroma forte ma allo stesso tempo delicato, come quello che trovi ad Hyde Park.
Mi chiedevo come potesse essere tutto così... così... perfetto?
Questa parola mi rimbomba in testa. Dalla finestra della mia camera, osservavo ogni giorno il mio vicino, Nonno Ru, dare da bere ai fiori due volte al dì. Una all'alba e una al crepuscolo.
Dieci anni che lo guardo compiere puntualmente alla stessa ora quel dannato rito. Cosa aveva di speciale, poi? Poteva annaffiarle tre volte o troppa perfezione gli dava il voltastomaco?
Nessuno parlava mai con il vecchio Jack.
Forse perché era brutto, puzzava ed era anziano. Di certo non un tipo di uomo dolce, dall’animo gentile come molti anziani nella casa di riposo di Flowerstown, che poi di fiori non ne ho mai visti li.
Un giorno, quel fatidico 17 Novembre 1997, io ho perso la testa.
Sono sempre stato un ragazzo curioso ed ero sicuro che sarei morto per curiosità.
Non ce la facevo più a sopportare quella routine. Mi dava sui nervi. Precisamente alle cinque del mattino la serratura scoccava e la porta si apriva lentamente cigolando lasciandolo così uscire. Versava l’acqua con lentezza e poi ritornava nella sua dimora. Le stesse gesta le compiva alle quindici, senza tralasciare nulla.
Era una gelida mattina all'incirca tra le quattro e le cinque del dì e mi sono avvicinato alla porta d’ingresso in mogano con il mio adorabile pigiama azzurro a pois bianchi. Ridicolo per un ragazzo di quasi diciassette anni, ma quello era un dono di mia nonna e non bisogna MAI mettere nel cassetto una oggetto regalata da lei. Ha una sottospecie di maledizione e non ricevevo spesso doni. Quello era lo stesso da più di dieci anni.
Il sole ancora basso all’orizzonte non dava nessun segno di voler sorgere. Il cielo era buio e le chiara luce della luna nascosta da nubi cupe che ricoprivano tutto il circondario e coloravano il cielo di un blu intenso.
Lui non c'era ancora, ma la porta era socchiusa: stava per uscire e lo avrebbe fatto da un momento all'altro.
Nonno Ru, quando annaffiava, sapeva che io lo stavo osservando e prima di rientrare dava un'occhiata alla mia finestra fermo sullo zerbino, un tappeto terrificante con la scritta “benvenuto” e un gatto che giocava con un gomitolo di lana. Anch’esso vecchio e malconcio, sporco, mai lavato.
Era una battaglia di sguardi anche se quando si voltava per scrutarmi mi nascondevo dietro le tende azzurrognole. Penso mi odiasse. Ne ero più che certo. Ci odiava tutti. Non faceva altro che lamentarsi della nostra presenza e del nostro baccano. Giustificava così le sue uscite per innaffiare le rose. Ci dava la colpa di un reato mai commesso visto che nessuno a quell’ora era sveglio. Nessuno che non doveva guardare cosa stesse facendo.
Ma perché così tanto?
A otto anni mi è caduta la palla nel suo giardino. L’aveva presa come ostaggio e per ripicca gli ho sradicato una rosa. Forse quell’avvenimento aveva alimentato il rancore che provava nei miei confronti. Vivo con mia madre e le sue due sorelle, eppure, era normale per noi ragazzi della via fare scherzi a vicini e passanti. Forse mi ha mandato un malocchio.
Appena esce, una leggera arietta si alza  facendo così muovere i miei capelli corvini tenuti sul corto, poco più lunghi delle orecchie. Un brivido si fa strada lungo la spina dorsale facendo alzare i peli presenti su gambe e braccia. Sento la pelle d'oca sotto il pigiama. Con un leggero sorriso, per non farmi vedere debole di fronte al nemico, lo osservo cominciare a innaffiare la prima piantina, quella più distante da me. Lo scruto, silenzioso, non ho intenzione di dire la prima parola. Non l'ho fatto ieri, non lo faccio oggi, non lo farò domani. Avevo tremendamente paura di quell’uomo, ma volevo sapere cos’avessero di tanto speciale quelle rose. Sono la mia unica ossessione. Di notte non dormo e di giorno non mangio se non lo vedevo uscire per un mio mancato appuntamento con il binocolo di rotoli di carta igienica finiti.
Congiungo le mani, intrecciando le dita tra loro. I miei occhi sono attirati verso il basso dove la terra si alza non appena assorbe l’acqua, come in eccesso. L’appezzamento di terra non era vasto ma poteva contenere perfettamente più di un innaffiatoio straripante.
In tutte e tre le rose è presente quel leggero rialzo rotondeggiante. Non ci avevo fatto caso. Non era colpa dell’acqua. Sembra quasi che sotto ci sia qualcosa.
Ora che ricordo meglio effettivamente c'era qualcosa.

 

«Charles, rientra!»
Aveva gridato mia madre dalla finestra della cucina mentre io osservavo la porta di casa Smith. Ero arrabbiato, volevo in dietro il mio pallone da basket, l'unico regalo che aveva ricevuto dopo otto Natali passati in miseria. Non costava molto, non per gli altri, ma per me si. Era un regalo importante. Non avevo mai visto Babbo Natale in vita mia tranne quella volta. E' stato lui a consegnarmelo, di persona.
Si stava avvicinando il mio nono compleanno e quello era uno dei giorni più freddi di tutti.
C'erano circa 5-6°C e pioveva da nove giorni. Tutta la strada asfaltata era bagnata, umida. La pioggia risaliva dai pori del cemento lungo le mie gambe. La mia determinazione era più forte del freddo. Tremavo e singhiozzavo dalla rabbia. I miei occhi fissi sul pomello di quella porta come per velocizzare la sua uscita. Erano ormai le cinque di pomeriggio e, dopo una giornata a giocare nel fango, era l’ora di ritornare in casa. Ma non potevo, non senza il pallone. Dall’estate dell’accaduto mi fermavo fuori davanti a casa sua in attesa di vederlo senza doverlo spiare dalla finestra.
Stringevo le mani in due pugni sempre più irritato da quell'essere spregevole e insignificante.
Tutti dicevano di stargli alla larga. Il perché bene non si sapeva, ma nei suoi occhi si scorgeva un velo di cattiveria repressa. Aveva uno sguardo penetrante. Con i suoi occhi riusciva a gelarti fino al midollo osseo.
Ma quel giorno ero più determinato che mai.
Avevo aspettato che uscisse per innaffiare le sue stupidissime rose.
Era lì. Sulla porta. Ad osservarmi.
Quello era stato il nostro primo incontro diretto. Nessuno dei due voleva aprire la bocca e io non lo avrei fatto per primo. Aspettai un paio di secondi e mi avventai sulle sue rose prendendo lo stelo di una. Lo tirai con forza, anche se molta non me ne serviva grazie alla terra friabile a causa della pioggia. Lui si fiondò su di me e io tirai ancora.
Aveva messo su radici in qualcosa di solito. Non era un sasso e nemmeno una piastrella, ma qualcosa di biancastro e crepato. Oltre al fatto che la terra emanava un fetore assurdo, la rosa non aveva spine. Lui si stava avvicinando innervosito e io sono caduto di sedere con la rosa in mano.

 

Ricordo d'averla lasciata per terra ed essermi rifugiato in casa a gran velocità. Non sono uscito per qualche settimana spaventato.
Mentre mi perdo nei miei pensieri, lui si avvicina all'ultima rosa, versando solo sulla terra l'acqua contenente nell'annaffiatoio verde dalla bocchetta di metallo. Fa attenzione a non bagnare stelo e foglie. Arranca nell'avanzata parlando con le rose. Le trattava come figlie. La cosa mi aveva colpito maggiormente.
Sul suo conto, non c'è granché, ma so che aveva una famiglia e che da un giorno all’altro lo avevano abbandonato. Forse per un altro uomo o semplicemente alla ricerca di una vita diversa. Sembrava voler bene alle rose come se sua moglie e le sue due figlie non se ne fossero mai andate. Me lo raccontò mia nonna quando ero più piccolo e mi aveva fatto promettere di non infastidirlo. Pover’uomo. Abbandonato dalle persone che più amava.
Per questo si era trasferito e forse ecco il motivo per la quale era legato così tanto a dei fiori.

Quella voce così famigliare e gentile. Non me lo aspettavo da un uomo del genere. Il cuore mi si riempiva di tristezza. Nel suo timbro un velo di malinconia e desolazione. Mi faceva male per lui l’accaduto. Mi sentivo improvvisamente sottomesso alle sue parole come se dovessi donargli di più e lasciarlo davvero in pace. Non ci riuscivo. Qualcosa sotto quel velo mi diceva di stare allerta e le sue parole mi imploravano tutt’altro.
Socchiudo un attimo gli occhi, quando con voce lesionata dalla vecchiaia mi chiede di prendere un tea in casa sua. Non lo aveva mai fatto. Cosa bramava? Non feci molto caso alla sua cortesia ancora preso da quell’attimo di angoscia varcando la soglia al suo seguito.
L'interno della sua casa era accogliente, ben trattata e profumata. Sulle pareti parecchi quadri dal gusto classico ma raffinato. Tutta l’entrata era affrescata con piccoli fiorellini rosati e celesti. Un mobiletto laccato sulla sinistra e un cucù sopra la mia testa che segnava preciso il tempo. Nulla da ridire, anzi mi stupiva tutto quell’ordine. Come un gentiluomo non fa con i suoi ospiti, vengo lasciato da solo in quel corridoio tanto ospitale. In pochi singoli istanti, sparisce. Sospiro.
Gli occhi si fanno sempre più pesanti e le gambe mi reggono a stento. Non sono abituato ad alzarmi così presto, specialmente dopo una lunga nottata all'insegna del divertimento. Si, io e altri ragazzi lanciamo sassolini a bottiglie di vetro sistemate in fila sul vecchio colle abbandonato. Gli occhi incorniciati da fonde occhiaie bigie si lasciano coprire dalle palpebre che riapro di scatto. Il corpo vacilla a ogni singolo spiffero d’aria come inerme dal sonno. Sta’ di fatto che se non facevo qualcosa, mi addormentavo lì, all'istante.
Qualche passo per la stanza e la voglia di ritrovare il pallone mischiato alla curiosità cresce, come un impeto travolgente che mi scrolla dalla stanchezza. Ho l’opportunità di ritrovare ciò che mi è stato sottratto molto tempo fa.
Comincio a farmi strada nell’abitazione, salendo piano le scale di fronte all’entrata. La dimora sembrava invitarmi alla scoperta del piano superiore. Il piccolo corridoio color pesca dai battiscopa bianchi conteneva due stanze soltanto: il bagno adiacente a una camera da letto.
Le due porte rigorosamente socchiuse. Guardo nella prima e trovo la toilette. Non decisamente pulita, con i sanitari pieni di calcare sulla base e il rubinetto scrostato. Il soffitto e il pavimento trasudavano di umidità. La muffa si è depositata su ogni angolo della stanza, compreso quello dello specchio sporco. Sul lavello uno spazzolino logoro dalle setole consumate, un flacone di collirio e alcune pillole sistemate alla bene meglio in una scatolina straripante. Sulla vasca, anch’essa in pessime condizioni, alloggiava un’ampolla forse di bagnoschiuma, sporca all’esterno dello stesso liquido che conteneva e il tappo riposato sul bordo. Disgustato dal vedere insolito delle condizioni del bagno metto il naso nella stanza vicina. Quella non era come tutto il resto dell’edificio. Le pareti carbone erano imbrattate di articoli di giornale di cronaca nera da quelle poche righe che avevo potuto leggere. Neanche il tempo di saperne di più che mi sento chiamare. Sapeva il mio nome?
Però quella voce non era rauca come quella di prima ma più angelica e cordiale quasi mi sollecita. Scendo con molta lentezza, attratto da quella parola intensa e calda. Un passo alla volta, sfregando per bene la suola della scarpa leggera sugli scalini castani tappezzati. Non riesco a fare a meno di seguirla. Arrivato sul pianerottolo mi guardo in torno. Quella voce non smetteva di chiamarmi e chiamarmi sempre più insistentemente. Mi volto verso una porticina. Quella voce diventa un lamento. Un richiamo. Ora chiede aiuto, sussurrando flebili gemiti. La voce sembra singhiozzare e tutto intorno diventa muto. Solo quell’angelo che insiste nella sua sofferenza. Lascio scivolare la mano sulla maniglia d’orata, abbassandola con la stessa lentezza della sua pena. Il mio cuore soffre ai suoi richiami disperati. La voce mi porta fino alla cantina, dove ritrovo il mio pallone arancio dalle strisce brune con la classica scritta “basket” anch’essa color fuliggine dalle rifiniture bianche e un giocatore color panna; avvolta in un fascio di luce proveniente da un’unica lampadina accesa per chissà quale motivo. La tenue illuminazione non mi permetteva di vedere nient’altro che ciò che avevo a pochi passi di distanza. Eccolo, finalmente!
Non desto sospetto a ciò che mi circondava troppo euforico. Mi avvicino di fretta, quasi per non essere visto dal proprietario che non sapevo dov’era finito. Sono al settimo cielo. Sprizzavo gioia da tutti i pori. Non stavo più nella pelle. Non vedevo l’ora di portarlo a casa e farlo vedere nuovamente a mia madre. Di nuovo nella mia stanza. Il mio unico pensiero è la sfera poggiata al centro della stanza in cemento.
Quello era il mio intento.
A soli dieci passi un 'click' ferma la mia marcia. Non mi mancava molto per arrivare a sfiorare il pallone, ma il mio sesto senso mi dice di alzare la guardia che ingenuamente ho abbassato senza accorgermene. Le mani aperte pronte ad impugnare l’oggetto, con le dita rigide semi piegate cominciano a tremare ingovernabili. Il cuore manca di qualche palpito ed esito nell’ergere il capo troppo impaurito. Mi pare di non avere più padronanza delle mie gesta così impacciate e impettite. Il fiato si fa corto, sempre di più, fino a smorzarsi in una lenta quiete. Alzo gli occhi e noto quel gelido sguardo fisso su di me, sulle mie iridi. E' la seconda volta nella mia vita che incontro quello sguardo ed ora, eccolo. Mi gela il sangue, arteria per arteria, e il respiro si fa affannato. Non riesco più a resistere. Voglio scappare ma non sono capace. Il suo sguardo mi tiene in tiro. Il cuore batte all’impazzata salendo veloce verso la gola soffocando il mio più gracile sussurro, impedendomi di gridare e chiedere aiuto. I suoi occhi si assottigliando in leggere fessure, ancora più maligne del solito. Il busto prende possesso di se e leggeri spasmi mi pervadono il corpo. Le labbra sigillate in due piccole linee sottili e rosate si piegano in una leggera smorfia. So che soffrirò, ne sono a conoscenza ma non è questo a farmi paura. I lamenti riprendono frequenti, incessanti, corti e accavallati. La mia testa si riempie di bisbigli. Troppi per sapere cosa dicono e capire nitidamente cosa cercano di avvertirmi, cosa mi inducono a fare. Brusii, tramesti e sussurri. Pieni di odio, dolore, collera. Chiedono perdono, un perdono che il più lanciante degli uditi non riesce a recepire. Alla vista di un leggero bagliore le mie iridi chiare spalancate si velano. Deglutisco sonoramente stringendomi su me stesso.



In pochi istanti mi ritrovo steso per terra. Una macchia cremisi si espande intorno al mio capo e dagli occhi ancora aperti quelle lacrime non uscirono mai.
Quell'uomo era riuscito a farmi gelare anche il cuore. Lo aveva ghiacciato e fermato definitivamente, terrorizzato dall'urlo disperato di una donna. Così, le rose, non erano più perfette come quando le avevo viste l'ultima volta.
Non ho mai pensato di riuscire a scorgere un verme da così vicino.
Ora le rose sono quattro e il mio cranio fa da vaso.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Thriller / Vai alla pagina dell'autore: ramoso97