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Autore: Himitsu87    23/11/2012    0 recensioni
Raccolta delle storie a tema Horror scritte per l'Horrofest (Halloween in SFI-Style) dello Sherlock Fest Italia
Ogni storia dovrebbe avere un tema horror classico XD A seconda del prompt
Se non dovessi rientrare nei tempi di scadenza credo che finirò i prompt ugualmente u.u
Genere: Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Nel deserto, le notti di vedetta sono lunghe. 
Il freddo ti entra nelle ossa, ti sferza la pelle seccata dal sole e ti dà brividi che pensavi di aver dimenticato durante il giorno caldo.  
Le luci sono lontane e ti sembra di essere piombato in un’epoca antica, fatta di misteri e magie. Il fuoco scoppietta e ti ritrovi affascinato da quelle luci così poco comuni nei paesi moderni. La gente del deserto, con i suoi racconti e i suoi rituali, ti insegna a vedere il deserto in maniera diversa, soprattutto quando tramonta il sole. 
I primi racconti che sentii riguardavano gli spiriti del deserto, entità malvagie che rapivano coloro che si avventuravano da soli di notte. Mostri feroci dalle zanne lunghe e il pelo fulvo, assetati di sangue e implacabili assassini. 
Tutti gli indigeni credevano in queste dicerie, o almeno tutti evitavano di uscire la notte, soprattutto quando la luna era al suo culmine, proprio le notti migliori per noi soldati invece, con la luce naturale ad aiutare la visibilità. Anzi, quasi tutti gli indigeni. In effetti, c'era un ragazzino, un giovane dalla pelle un po' meno olivastra degli altri, dai capelli nerissimi e gli occhi di ghiaccio, che sembrava così fuori posto in quella distesa di sabbia. Una volta lo lasciai giocare con il mio computer e fu straordinario quello che riuscì a fare, se solo fosse nato in un altro luogo avrebbe potuto essere considerato un genio. Tuttavia, anche se nessuno riconosceva la sua intelligenza in quel posto, lui ne era pienamente cosciente e continuava a spiegarmi quanto fossero assurde certe leggende e quanto ci fosse, invece, di terribilmente interessante nelle crudeltà umane. 
Da  medico militare inglese, la mia opinione era senza dubbio oscillante. Mi trovavo sul punto di incontro di quattro strade differenti. Come medico disapprovavo il male che facevo come soldato, da soldato disapprovavo l'eccessiva empatia del medico nel vedere le conseguenze inevitabili della guerra. Da inglese pensavo che fosse mio dovere essere lì, da uomo vedere quel popolo che subiva la nostra presenza mi imbarazzava.
Devo dire che quel ragazzino mi mise in difficoltà più e più volte, ma sembrava amare il mio modo di pensare. Forse era solo riconoscente perché gli avevo curato un brutto taglio che, scoprii solo dopo, si era autoinflitto per sbaglio durante un suo strano esperimento, ma da quel giorno veniva spesso a tenermi compagnia nelle mie notti di vedetta, e io gli regalavo cioccolata o la mia razione di sigarette da rivendere. 
Era un giovane eccezionale, diciassette anni di vita per una mente più brillante di molti dei miei professori. 
Fu divertente mostrargli le costellazioni e insegnargli cosa era un'eclissi e perché si formava e furono molte le risate che mi feci mentre lo vedevo battere a terra il piede cercando di cancellare le mie informazioni, completamente futili a parer suo. 
Lo guardavo mentre pensava guardando il cielo, rispondendo agli esercizi di logica che cercavo solo per lui. Era di una bellezza unica, delicata e prepotente allo stesso tempo, con quella bocca invitante e quegli zigomi taglienti. Adoravo osservarlo, semplicemente osservarlo. I riccioli, la pelle delicata dell'adolescenza che si affaccia all'età matura, gli arti lunghi e il fisico asciutto. Mi ritrovavo a pensarlo quando non c'era, quando era nella mia branda e mi consolavo di essere così lontano da casa con il pensiero di averlo conosciuto. Mi sorrideva, raramente ma mi sorrideva ed era fantastico.  
Onestamente era terribile, lo guardavo, lo fissavo e mi allontanavo pian piano da tutto ciò che caratterizzava la mia morale. Lo desideravo, cercavo ogni scusa per sfiorarlo, per arruffargli i capelli, per sentire il calore della sua pelle. Volevo le sue labbra, volevo morderle e succhiarle, strappargli i vestiti e farlo mio, volevo sentirlo urlare e gemere... ma non potevo, dovevo restare un soldato, freddo e distaccato, dovevo restare un medico diligente e un adulto responsabile, un punto di riferimento per un giovane come lui. 
Eppure come era possibile che non lo percepisse? Non sentiva il pericolo? 
Mi era sempre accanto, così incosciente, come se lasciasse a me il compito di proteggerlo dal mondo circostante.  Sempre a gironzolarmi intorno, anche dopo che fui ferito alla gamba dopo l’aggressione.
Non ricordavo nemmeno cosa fosse successo, dissero che io e i miei due compagni eravamo stati attaccati, ma da chi non lo avevano ancora stabilito. La macchina era sbandata e si era capovolta, io ero stato sbalzato via e questo mi aveva salvato probabilmente, solo la mia gamba era ridotta male, mentre gli altri erano stati fatti letteralmente a pezzi. Dissero che erano arrivati appena in tempo perché avevo perso molto sangue e, a giudicare dai morsi vicino la ferita, avevo già attirato qualche animale.
Venne tutti i giorni a trovarmi, ogni giorno entrando in un modo diverso per non farsi scoprire, ogni giorno portandomi un sorriso e un qualcosa che mi tirasse su. Vederlo mi dava la forza di sopportare quel dolore che mi scorreva in tutto il corpo, mi diede la forza di rifiutare il rientro a casa. E fu un bene, anche perché la mia gamba guarì completamente e anzi ero molto più in forma di prima. 
Stargli vicino diventava ogni giorno più difficile, sentivo il suo odore, percepivo la sua freschezza e desideravo solo rubare la purezza giovanile che era così prepotente in lui. 
Cercai di evitarlo per qualche giorno, ma fu peggio, tornavo a pensare a lui, iniziavo a toccarmi pensando a lui, preso da un desiderio senza nemmeno più vergogne, iniziai a immaginarlo nudo e legato nelle docce, completamente in mio potere, sanguinante, corrotto, bellissimo. 
Il sesso con lui nei miei sogni si fece sempre più intenso, più passionale, più violento, più pericoloso. Sudavo, vedendolo, ardendo, mentre il suo odore diventava sempre più intenso. 
Frenarmi era quasi doloroso, ma necessario. Quel ragazzino rappresentava qualcosa per me, qualcosa che andava oltre il sesso e che mi spingeva a lottare continuamente contro questi istinti selvaggi. 
La febbre mi prese una sera, portandomi in uno stato di delirio tale da non farmi nemmeno rendere conto di essere uscito e di essermi diretto lontano dal campo, seguendo un odore forte e inebriante. 
In un punto isolato, illuminato dalla luna piena, vidi un ragazzino cercare e raccogliere qualcosa, forse erbe, da terra. Mi avvicinai piano, sentendo l'odore più forte e riconoscendolo. Lui non mi sentì, continuando il suo lavoro. Solo quando ero subito dietro di lui si voltò per guardarmi e gridò. 
Usò una parola nella sua lingua, una parola che avevo già sentito, ma in che occasione? 
Non mi importava saperlo, volevo solo sentire di più quell'odore. Lo bloccai a terra con forza e annusai il suo collo, inebriandomi. Lo leccai a lungo, strappandogli i vestiti, leccandogli il petto, sentendogli il cuore pulsare. 
Gli morsi la spalla, strappandogli un urlo acutissimo, lo schizzo di sangue mi arrivò direttamente in bocca con una forza che mi soffocò quasi. Gli staccai il braccio con un altro morso, drogato dal gusto del suo sangue e della sua carne. Masticai la carne e ruppi l'osso coi denti. 
Nulla poteva paragonarsi a quella sensazione di piacere, dilagante, soffocante, feroce. Mi sembrava di fare sesso, no, più del sesso, come una serie di orgasmi, un piacere che dava quasi pace, che placava un bisogno troppo profondo.
Lo sguardo terrorizzato del giovane si stava appannando e spegnendo sempre più.  
Lo morsi al petto, lacerando la carne e spezzando anche le fragili ossa della cassa toracica, esponendo il cuore. Mi tuffai nel suo petto, bevendo il sangue, mangiando quanta più carne potessi, penetrandolo più a fondo riuscissi, facendolo diventare parte di me.
Poi presi il cuore e lo fissai smettere di pulsare.
Fu quando fu fermo che notai la mia mano, o quella che doveva essere la mia mano. Avevo una zampa, dagli artigli affilati e il pelo fulvo.
Mi toccai il volto e trovai un muso peloso al posto della mia carne morbida.
Guardai il cielo e la luna piena mi sorrise, incredibilmente grande e vicina, percepibile in ogni anfratto e ombra.
Risi ma quello che uscì non era un suono umano.
Guardai in basso, il corpo straziato di quello che era stato un mio amore.
Mostro.
Ecco quale era stata la sua ultima parola, sentita così spesso nei racconti indigeni.
Ero un mostro, un mostro assassino e la cosa più orribile forse era che mi piaceva.
   
 
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