“Vi veri veniversum
vivus vici”
[giustizia (ant. Iustìzia), s.f. 1. Virtù per cui si rispettano
i diritti altrui e
si attribuisce a ciascuno ciò che gli è dovuto
– CONTR. Ingiustizia 2. Situazione conforme al giusto
3. L’autorità che ha
il potere di giudicare e di dar forza
esecutiva al diritto 4. Atto di giustizia, sentenza]
***
Molte
persone si chiedono perchè un uomo dovrebbe
sacrificare la sua intera esistenza alla giustizia.
Anche se
non me lo hanno mai chiesto direttamente, glielo si può leggere in volto ogni
volta che intercettano il mio sguardo o sentono la mia voce parlare attraverso
lo schermo.
È una
domanda che spesso anche io mi sono posto durante la mia breve, ammettiamolo,
vita.
Ma è anche una di
quelle domande a cui fa male rispondere, per questo si evita accuratamente di
pormela.
Ma ora
non ho più nulla per cui nascondermi o per cui
soffrire, per cui vi risponderò.
Anche se
mi farà male.
Ricordare,
intendo.
I
ricordi fanno sempre male…
***
Era
autunno ormai inoltrato. Le foglie secche si staccavano dagli alberi e
danzavano lente nel cielo, prima di poggiarsi gentili e leggere al suolo. Il cielo spruzzato dal candore sporco delle nubi che preannunciano
l’ultimo temporale. E l’aria fresca, che ancora porta
con se il dolce sapore dell’estate. Un giorno perfetto, un giorno di risa, in cui i bambini si preparano alla magica
notte che sta giungendo, ritrovandosi per elaborare piani diabolici da mettere
in atto o, i ritardatari, per finire i loro costumi colorati.
La
notte di Halloween ormai alle porte. Il giorno prima
della festa di Ogni Santi.
Il
31 ottobre del 1979.
Nella
stanza ormai permea il silenzio. C’è odore di alcol.
Liquido amniotico. E sangue. Soprattutto sangue.
Questo è il macabro ricordo di poche ore prima.
Quando si nasce, si piange. Sembra sia una regola
scritta da Madre Natura. O in un qualche modo siamo
già coscienti di quello che ci capiterà sulla Terra dei Vivi. O forse, molto più semplicemente, abbiamo solo freddo e
siamo spaventati. Come ogni essere umano. Ma quel bambino
no. Quel bambino non piangeva.
“È
molto piccolo”
“Già…
l’abbiamo salvato per il rotto della cuffia”
L’infermiera
sorride. Quel ranocchietto sporco di sangue si agita
irrequieto nella vaschetta in cui lo stanno lavando. Anche
se l’acqua è tiepida e le mani che lo accarezzano con cura sono soffici e
lisce, c’è qualcosa che proprio non gli va a genio.
“Pesa
solo due chili?”
“Quasi
due chili. Incredibile, vero? È a causa del cordone ombelicale: nell’ultimo
mese il piccolo si è rigirato spesso su se stesso e ha finito per schiacciare
il cordone tra le gambe. In più la madre era debole di
costituzione, mangiava poco e non proprio correttamente. È un miracolo
che lui ce l’abbia fatta”
“Lui?
Vuole dire che…?”
Di
colpo, il bambino comincia a piangere.
Quella
cosa era affascinante. Era come una scatola dal vetro opaco, dentro cui c’era un calore strano, che gli ricordava tanto un posto
in cui era appena stato e in cui voleva disperatamente ritornare. Aveva capito
subito che non ce l’avrebbero rimandato, ma quel luogo
era un buon compromesso.
E dall’altra parte del vetro c’erano quegli
esseri enormi che lo osservavano.
Erano
proprio buffi, così grandi e impacciati. Chissà come facevano a spostarsi con
tutto quel peso addosso? Nel complesso erano creature piuttosto curiose:
correvano di qua e di là, portavano oggetti colorati dalla forma rettangolare
che sembravano così confortevoli, proprio come quella
sistemata sotto di lui. E poi prendevano in braccio i
suoi simili, li paciugavano, li ribaltavano. Alcuni li portavano via e poi li
riportavano dopo un po’ a fare il pisolino. Altri non tornavano più. Se ne andavano con altre persone, che non avevano il vestito
bianco e che sorridevano come ebeti. Quelli che rimanevano facevano un gran
casino E quando piangevano, gli esseri grandi correvano subito con in mano un affare lungo e trasparente con attaccata ad
un’estremità una cosa dalla forma strana, che gli ricordava tanto qualcosa, ma
non riusciva a capire cosa. Però una cosa l’aveva
capita: lì dentro c’era la pappa.
E lui aveva fame.
Aveva
notato che ogni suo simile, come lui, aveva una fascettina bianca attaccata al
braccio.
E
quando quella fascettina veniva tolta era perché gli
esseri grandi che sorridevano li portavano via.
Non
che quel posto non gli piacesse, ma voleva tanto
vedere cosa c’era di così meraviglioso dall’altra parte del vetro ampio, da cui
gli esseri grandi lo osservavano.
Chissà
quando avrebbero tolto la fascettina a lui?
Mangiavano,
cagavano, piangevano e dormivano.
Non
facevano altro, i suoi simili.
Era
esattamente quello che faceva anche lui, nulla di più, nulla di meno.
Allora
perché nessun essere grande che sorrideva veniva a togliergli la fascettina?
Una
volta aveva pianto così tanto da essere diventato
tutto rosso.
Ma nessuno era arrivato per aiutarlo a
capire. Gli avevano cambiato quel sacchetto che aveva sotto il sedere, gli
avevano dato il latte, l’avevano coccolato fino allo sfinimento. Ma non gli avevano sorriso.
Gli
esseri grandi dovevano essere incredibilmente stupidi: lui voleva solo che quella
fascettina sparisse e al suo posto giungesse il sorriso ebete. Una cosa così
semplice… perché si ostinavano a non capirla?
Arrivò
un giorno, inaspettata e distante da ogni sua concezione. Era vestita di nero e di bianco, con la faccia
rugosa ma un sorriso dolce. E al collo una bella
collana di grani rossi e una croce che dondolava sul suo seno abbondante.
Sì,
lei sorrideva come un’ebete. E gli aveva tolto la
fascettina.
Ma non era lei che sarebbe dovuta venire. Lo
riconosceva dal tepore delle sue mani.
Tu non sei mia
madre.
***
Uscii
dall’ospedale il 26 novembre, quasi un mese dopo la mia nascita.
Non
che io me lo ricordi: è tutto scritto sui documenti che Watari
teneva con cura nel cassetto della sua scrivania. Quei
documenti sono il nostro tesoro: rappresentano un
legame più forte di quello del sangue.
Ma prima che
arrivasse la Wammy’s House, ci fu un discutibile
orfanotrofio nel centro spaccato di Londra. Non era malaccio come posto,
peccato che i mocciosi che, ormai maggiorenni, uscivano da lì, entro due giorni
finivano in galera per furto o omicidio. E sì che doveva essere un orfanotrofio cattolico…
Quando
arrivai ero il marmocchio più coccolato che si fosse mai
visto. Ed era una sensazione
strana sapermi al centro dell’attenzione.
Ero la mascotte sia delle suore che degli altri bambini.
Certo:
dovevo essere veramente speciale, se ero riuscito a finire in prigione senza
passare dal via…
***
Lighter
Alone
Wild
L
Innocent
Enchanter
Timeless
***
Il
mio nome, mi raccontarono le suore, fu
un’incognita fino in fondo. Dall’ospedale non gli avevano detto assolutamente niente (ma forse era mia madre che non aveva detto
assolutamente niente), riferendo solo l’unico cognome di cui erano a
conoscenza, ovvero quello della donna che mi aveva partorito: Lawliet.
Io non sono una
persona particolarmente superstiziosa: se un gatto nero mi attraversa la
strada, sarei capacissimo di coccolarlo e fargli io le fusa. Ma
quello che si dice “destino”.
Quella parola aveva
un suono così affascinante e melodioso.
Andavo
semplicemente matto per il mio cognome!
A tre anni, ancora
non conoscevo il concetto di “messaggio subliminale”…
***
“Guardalo…”
“Hai
visto come sta in disparte?”
“È proprio strano!”
[ahahahahahaha]
“Sì,
hai ragione…”
“Secondo
me si atteggia e basta”
[hahahahahahaha]
Smettetela…
“E dai piantatela! Siete solo invidiosi perché ha dei voti insuperabili!”
“Non
dirmi che lo difendi! Quello stronzo ieri ancora un
po’ e mi spaccava il naso!”
“Sei tu che l’hai provocato!”
“Ho
solo detto che è disgustoso il modo in cui mangia…”
[hahahahahahaha]
Smettetela…
“Ho
sentito che mangia fino ad ingozzarsi e poi si ficca due dita in gola per
vomitare”
“Veramente
disgustoso…”
“Questo
spiegherebbe perché cammina in quel modo da allucinato!”
“E finitela!”
Credete
che non vi senta?
“No,
aspetta. Ora arriva il bello! Ho sentito dire dalla Suora
Superiora ad una novizia che sua madre è morta durante il parto! Capite? È un
assassino!”
Non è
vero…
“Come
puoi considerarlo assassino!?”
“Ha
ucciso sua madre! Questo è un omicidio!”
Smettetela…
Vi
prego…
Basta…
NON È GIUSTO
I bambini sanno
essere terribilmente crudeli.
Anche se non se ne
rendono conto.
È un sadismo che fa
parte di loro.
Un meccanismo di
difesa
Non è una loro
colpa.
Ma io… io…
Li
odiai profondamente.
Come
si odia a prima vista uno scarafaggio.
***
Gli
uomini spesso si dimenticano delle loro fortune.
Io
non mi ritengo un uomo sfortunato. Anzi, credo che nella mia vita io abbia
avuto molto.
Ma non ho avuto una
madre.
Questa
è una di quelle cose che ti segnano, volente o nolente.
Perché non ho mai conosciuto l’amore primordiale. Quel genere d’amore che provi anche
se non ne sei cosciente. Ed è come se ti
mancasse un pezzo. Come se fossi vuoto per metà.
Così,
quando mi ritrovai in mezzo alla gente, ebbi enormi difficoltà.
Mi
sentivo come se avessi passato una vita a studiare una materia a me estranea,
partendo già in fallo: non avevo le basi.
E tutto mi sembrava
incredibilmente ingiusto.
***
Arrivò
con le prime piogge di primavera. Forse sospinto dal vento tiepido dei miei
sette anni. Aveva uno sguardo dolce, ma penetrante,
come se sapesse tutto di me.
La
prima sensazione che provai, guardando quell’uomo, fu nostalgica. Un qualcosa
che avevo già sentito, ma troppo tempo addietro per ricordarmela con nitidezza.
E più sentivo i suoi occhi su di me, più
comprendevo la nostra somiglianza.
Anche lui era un essere distante da questo
mondo. Anche lui portava addosso il peso di una
diversità troppo grande da cancellare. Mi sentii vicino a lui come mai mi ero
sentito vicino a qualcuno. Ma provavo paura.
Lui
sapeva tutto di me. Io non sapevo nulla di lui.
“Papà…?”
***
L’uomo
è un essere strano.
È
formato da cellule, che formano tessuti, che a loro
volta formano organi, muscoli, ossa.
Dove
si annidano i sentimenti?
Questa
è un’altra domanda che è difficile porsi.
I più
romantici vi risponderebbero di sicuro nel cuore, anche se esso non è altro che
una massa di carne che pulsa. I più tecnici vi diranno invece che non hanno un
luogo preciso: non sono altro che impulsi elettrici e reazioni chimiche. Ma questo sarebbe troppo sminuente.
Per
quel che mi riguarda, non avevo sentimenti.
Dal
giorno in cui mi parlarono della morte di mia madre, decisi che non avrei mai
provato sentimenti per nessuno, che non fosse un sincero disgusto per questa umanità.
Decisi
di mettere quegli impulsi elettrici sotto chiave, in un cassetto della mia
testa.
Finché,
un giorno, alla mia porta
si presentò un uomo, avvolto in un pesante impermeabile nero, che
sfoggiava l’educata compostezza tipica degli inglesi.
Gli
bastò uno sguardo. Uno solo.
Il
cassetto si aprì.
E non si richiuse
mai più.
***
Cadevano
le foglie.
La primavera se n’era andata. E in un lampo l’aveva seguita anche l’estate. L’uomo con
l’impermeabile tornò più e più volte all’orfanotrofio. Senza una ragione ben
precisa.
Per
gli altri bambini non era altro che un’ombra vacua che si spostava tra i
corridoi dell’edificio. Nessuno notava che tra le pieghe del suo cappotto si
nascondeva quel bambino che avevano sempre deriso. Quello che mangiava in modo
strano, camminava in modo strano e parlava in modo
strano. Quello che aveva preso il massimo dei voti,
non solo nelle verifiche da seconda elementare, ma anche nei test di prima
media. Quello con cui non parlavano mai, perché
incuteva timore il solo scorgerlo passeggiare tra gli alberi del giardino.
Per
gli altri bambini quell’ombra non significava nulla.
Ma per quel bambino, l’uomo con
l’impermeabile rappresentava tutto.
E quando camminavano lenti, l’uno vicino
all’altro, anche senza scambiare una parola, si raccontavano ogni singola
sfumatura delle loro vite.
A
quel bambino sembrava di aver ritrovato un qualcosa che aveva perso tanto tempo
fa, tra le pareti asettiche di un ospedale.
***
Cadeva
la neve.
Ricopriva
ogni cosa. Tetti, alberi, persone.
Il lontananza
suonavano le campane. I loro rintocchi riecheggiavano nel mio cuore con un’eco
potente.
Era
una visione così bella che mi faceva male.
La
mia nuova casa era una villa immensa, con le ampie vetrate colorate di mille
sfumature.
Sembrava
un posto confortevole e familiare.
Ma
come ogni nuova scoperta, ti provoca sia curiosità che
timore.
Per
fortuna lui mi stringeva la mano. E mi sorrideva
gentile.
***
Cadeva
la neve.
Il
giorno del mio ottavo compleanno mi fu fatto un regalo.
Era
solo un foglio di carta, ma non lo baratterei con
nessuna cosa più preziosa dello stesso inchiostro che lo incide.
C’erano
scritte poche righe, ma in particolare mi colpirono due parole: Lawliet L.
Così
L era il mio nome… a sceglierlo era stato l’uomo con
l’impermeabile.
***
Watari non
mi disse mai con chiarezza perché avesse scelto proprio me, tra tutti i bambini
dell’orfanotrofio.
Capii
solo quando mi chiese se il mio nome mi piaceva.
L.
Suona
strano ricordarlo adesso.
Non
so perché scelse proprio quella lettera. Ma sapere di
avere un nome così singolare mi riempì d’orgoglio. Ero diverso, in tutto e per
tutto.
Ero
unico.
Sì,
quel nome mi piaceva molto. E così compresi che lui non stava
cercando un figlio.
Cercava
un suo simile.
***
“Watari non è il tuo vero nome, vero?”
“Sei
un bambino sveglio…”
“È per questo che mi hai scelto, no?”
“Già…”
Sorrideva.
Gli sorrideva sempre, qualsiasi cosa dicesse o
facesse.
Questo
a L andava bene.
“Qual
è il tuo vero nome?”
“L”
“Eh?”
“Non
capisci?”
“Voi
grandi siete strani…”
E
anche L sorrideva.
Era
un gioco. Complesso e diverso da qualsiasi gioco potrebbe ricercare un bambino.
Questo
a L andava bene.
E
si sorridevano l’un l’altro, con un sorriso complice.
***
C’è
una piccola chiesetta in mezzo al giardino della Wammy’s
House.
Se
vuoi pregare puoi andarci quando vuoi. Oppure puoi sdraiarti sul prato a guardare il cielo. Credo
che per Dio sia la stessa cosa.
Io
preferivo sempre andare a nascondermi sul retro della chiesetta, dove c’era la
statua di Maria.
Una
bella statua gotica, in marmo bianco, che ricordava tanto la Maria della Pietà
di Michelangelo.
Aveva
gli occhi socchiusi, un po’ tristi, come se avesse appena perso quella cosa
così importante. A me piaceva proprio per quel suo sguardo ambiguo. Gli occhi
tristi, ma un sorriso appena accennato sulle labbra. Come se fosse a conoscenza
dell’amarezza della vita, ma l’affrontasse con
fierezza e forza.
Amavo
quella statua. Mi dava forza.
E odiavo le messe,
perché mi ricordavano quelle delle suore.
Troppo
lunghe. A volte troppo indecenti nel proclamare le loro verità.
Quella
statua invece mi parlava di segreti che nessuno osava rivelare.
Quella
statua e Watari erano la mia
splendida famiglia.
***
“Madre
è l’altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli”
***
Anche la Wammy’s House
era un orfanotrofio, ma non come gli altri. Era stato Watari
stesso a fondare quell’istituto e all’epoca in cui vi entrò L
contava ancora e, per un certo verso, per fortuna pochi bambini. Era più una
famiglia allargata che non un vero orfanotrofio. Questa era una delle cose che
lo rendeva affascinante.
Al
suo interno venivano ospitati bambini che aveva perso
i genitori, per un motivo e per un altro. Ma tutti,
dal primo all’ultimo, vantavano capacità intellettive incredibili. Erano tutti
“fuori dalla norma”. Erano tutti “diversi”.
Questo
a L dispiacque all’inizio: sperava di essere un
qualcosa di veramente speciale per l’uomo con l’impermeabile. Ma se l’aveva portato in un posto come quello, con tanti
“diversi”, forse lui non era così particolare come voleva.
Ma
poi, parlando con gli altri bambini, interagendo con loro come non aveva mai
fatto prima, capì che di per se quello era un posto
speciale e che solo pochi vi avevano accesso. E poi nessun’altro
bambino oltre a lui aveva il foglio di carta con la parola adozione.
Senza
contare che nessuno, nessuno, aveva
un nome come il suo.
E su questo non ci piove!
***
Il
soggiorno in questa nuova casa mi cambiò profondamente.
Il
contatto con gli altri mi giovava e il mio carattere si faceva a poco a poco
più sopportabile e più aperto.
Nel
tempo libero giocavo volentieri con i miei coetanei (cosa che era successa, sì
e no, due volte in passato e su esortazione di una suora).
Ma spesso studiavo,
per lo più.
E più
studiavo, più aumentava la mia passione per la caramelle
e tutte quelle cose cioccolatose che si possono
trovare nei chioschi all’angolo dei viali.
Watari non
mi diceva niente al riguardo, anzi. Mi aveva fatto notare che più zuccheri ingerivo, più i miei compiti erano impeccabili.
Scoperta
curiosa, a dir la verità. E anche un po’ sofferta: non mi dispiacevano affatto le lasagne che ci davano il
primo mercoledì del mese. Ma quella torta viennese
della pasticceria all’angolo… era un sacrificio che valeva la pena fare.
E poi scoprii anche
che, se mi sedevo rannicchiato, la mia intelligenza aumentava del 40%.
Questa
cosa, sinceramente, non l’ho capita. Però di sicuro mi era chiaro un fatto: io dovevo aver avuto
qualche problema a livello fetale, su questo non c’era dubbio.
***
Passò
il tempo. Il bambino diventò ragazzo senza quasi che se ne accorgesse.
All’età
di quindici anni L aveva già dato l’esame di maturità,
superandolo a pieni voti. I professori dei suo liceo
scientifico erano oltremodo orgogliosi di aver avuto uno studente come
lui, ma si dispiacquero non poco quando lasciò la scuola per cominciare a
cercare una facoltà che gli piacesse.
Era
molto indeciso su cosa puntare. La sua brillante intelligenza gli avrebbe
permesso di aprire innumerevoli porte, ma ragionando con attenzione, quale
poteva essere un lavoro che gli desse soddisfazione?
Insomma,
chi lo avrebbe visto nei panni di un avvocato? O di un
architetto? Era decisamente poco credibile. Non che
qualcuno volesse costringerlo in una determinata occupazione, ma, anche se il
suo ultimo sogno nel cassetto era aprire una pasticceria (sogno assolutamente
disinteressato), quella era una decisione da prendere
con un minimo di criterio.
Voleva
un lavoro che principalmente non lo annoiasse.
E c’erano ben poche cose che non lo
annoiavano, purtroppo.
L’estate
stessa arrivò all’orfanotrofio una ragazzina della sua stessa età.
A
lui non faceva né caldo né freddo, ma sembrava invece portare ilarità tra gli
altri ragazzi: era molto alta, non proprio magrissima e piena di lentiggini,
con i capelli castani lunghi fino alle spalle che lei usava legare in due
trecce ordinate, che le davano un’aria fin troppo infantile. La presero di mira
fin da subito e già il secondo giorno dopo il suo arrivo, avevano
cominciato a farle scherzi di cattivo gusto, come infilarle una rana
nello zaino. Agli occhi di L quella si presentò come la più perfida invidia.
In
quel periodo stava studiando per curiosità il comportamento dei rettili. Non
sapeva esattamente perché, ma trovò una certa somiglianza tra quei ragazzi e il
serpente a sonagli.
Ad
un certo punto gli fu tutto chiaro, come se qualcuno avesse acceso quella
lampadina di cui lui non trovava l’interruttore.
Comprese
con una chiarezza che provocava dolore: si poteva essere diversi anche in mezzo
ai diversi.
Ovunque,
anche nel posto più amorevole del mondo, prevaleva la legge del più forte.
L’invidia, l’odio, il rancore, nei casi più disperati
il semplice divertimento. Tutto questo portava l’uomo ad attaccare il prossimo.
A volte anche per i motivi più assurdi.
Capirlo
gli fece male, come un pugno ben piantato nello stomaco. Provò fastidio e
l’irrefrenabile desiderio di picchiare quei ragazzi. Non tanto per difendere
lei, quanto per la semplice voglia di punirli
I
bambini sanno essere terribilmente crudeli.
Anche se non se ne rendono conto.
È
un sadismo che fa parte di loro.
Un
meccanismo di difesa.
Non
è una loro colpa.
Ma ci sono lezioni che devono essere
comprese. E lui aveva intenzione di fargliele
comprendere.
“E così hai trovato giusto picchiarli?”
“Sì…”
“Per
punirli?”
“Sì…”
“Ti
sei divertito a farlo?”
“Non
credo…”
“L,
sei convinto di quello che stavi facendo?”
“Non lo so L. Tu cosa avresti fatto?”
Watari rimase sconcertato davanti alla sua vuota
determinazione.
Quel
semino aveva messo radici, ora bisognava coltivarlo.
***
Crescendo
compresi diverse cose.
Più il
tempo passava, più prendevo consapevolezza della mia
persona e del mio spazio. Poi concepii le altre persone e i loro spazi. Era
tutto un orbitare gli uni vicino agli altri, a volte toccandosi, a volte urtandosi.
Ma c’era un posto in
cui nessuno era autorizzato ad entrare.
Ce l’avevano
tutti. Chi più vasto, chi più piccolo.
E nessuno aveva il
diritto di violarlo, nemmeno con il tuo permesso.
Avevo
notato che la gente si comportava in modo tale da poter venire
ammessi in quel posticino.
Ma,
con mio grande dispiacere, vidi che non tutti
rispettavano il divieto di entrarci.
Ci
provavano in tutti i modi. Con violenze anche inaudite.
E allora nasceva il
dolore.
Io
sono cresciuto in mezzo al dolore. Quando non hai nient’altro che te stesso
impari a volerti molto bene, perché ci tieni a migliorare la tua situazione più
che puoi. E prima di
incontrare Watari, forse quel “me stesso” non c’era
nemmeno. Per questo cominciai ad odiare il dolore.
Prima
il mio, poi quello degli altri.
Dal momento che
sapevo quanto poteva essere fastidioso, avevo la mia piccola utopia: il dolore
doveva sparire e nessuno aveva il diritto di procurarne ad altri.
Watari mi
spiegò che questa era quella che gli adulti chiamavano giustizia.
Per
me fu come innamorarmi per la prima volta.
Quel
concetto, quella possibilità, quella prospettiva.
Fu la
mia prima amante. E la amai così intensamente che mi
prosciugò il cuore.
***
La luce artificiale gli feriva gli
occhi.
Il sapore dello zucchero gli impastava
la bocca.
Ma la sua testa era
proiettata altrove.
Tra quei fogli.
Tra quei dati.
Verso la soluzione di quell’insolito
puzzle.
Che gli inebriava il
cervello.
Tappava quel buco nello stomaco che
gli si era formato.
Colpevolezza.
Innocenza.
Sotto un certo punto di vista erano
parole senza significato.
Ciò che contava era riuscire.
Ciò che contava era risolvere
l’enigma.
E il semino aveva
cominciato a fiorire.
***
Non
bastava.
Non
sarebbe mai bastata.
La
mia intelligenza, da sola, non significava nulla.
Avevo
bisogno di un gradino in più, che mi permettesse di
raggiungere il mio scopo.
E non solo di
quello. Avevo bisogno di qualcuno che mi sostenesse, che credesse in me.
Altrimenti tutto questo mi sarebbe apparso vuoto e
inutile.
Ero
solo un ragazzo. Un ragazzo strano, tra le altre cose. Un ragazzo distante.
Ci fu
una notte in cui mi sentii talmente scoraggiato che volli scappare. Ma per
quanto la mia determinazione ad andarmene fosse forte,
non ci riuscii. Ricordo che pioveva.
Mi
nascosi sotto la statua di Maria.
E piansi in
silenzio.
La
Giustizia era un’amante crudele.
***
Io
sono diverso.
Io
posso riuscirci.
Sennò
perché mi hai portato qui?
Perché questo nome così inusuale?
Ma è tutto collegato.
La
morte della mamma.
La mia sofferenza.
La
mia intelligenza.
Le
tue premure.
Collegate da un
filo rosso.
La mia vita e la sua morte.
Il
sorriso di quella bambina.
Ci posso riuscire.
Io sono distante.
Io sono speciale.
Io
sono…
***
“Cosa significa questo?”
“Che ho scelto la mia strada”
“Non
sono convinto L. Perdonami ma hai solo sedici anni!”
“E allora? Devi per forza essere alto un
metro e ottanta per avere un sogno?”
“No,
quello che intendo è che ti conviene prima studiare per bene e poi possiamo
cominciare a progettare una cosa del genere”
“Vuoi che ti esponga a memoria il nostro codice? Lo so tutto,
appendici comprese”
“Ma,
insomma… tu vuoi sempre tutto e subito… ci sono scelte
che vanno ragionate con calma. Tu non puoi…”
“Io non posso?! Adesso basta! È tutta la vita che mi
sento dire “tu non puoi”! Già fino a due anni fa avevo l’autostima di un verme,
ora che ho trovato cosa farne della mia esistenza non venirmi a dire che “non posso”! Dammi almeno una possibilità, Watari! … per favore…”
“:..”
“Cosa c’è?”
“Sei
incredibile…”
“Eh?”
“Sarai
anche il più intelligente presente qua dentro, ma sei il più infantile”
L tirò fuori la lingua.
“Appunto…“
La
sua stanza era un segreto per chiunque. La porta era perennemente chiusa e lui si premurava
sempre di ribadirlo con tre giri di chiave. Nemmeno la domestica ci metteva mai
piede: l’unica volta che l’aveva fatto le era arrivata una secchiata d’acqua
gelida addosso. Watari non aveva mai detto nulla in
contrario: ogni ragazzo aveva una sua stanza, o su
richiesta potevano dormire in due o tre nella stessa, e quello era il loro piccolo mondo, sacro e
inviolabile. Li riteneva tutti abbastanza responsabili e svegli
dal non nasconderci dentro chissà che cosa. Ma quando
sentì la chiave girare nella toppa, provò un reverenziale timore, come se
stesse varcando la soglia di un tempio sacro. L aveva
un mondo tutto suo. Un mondo che non condivideva con nessuno.
E poter farne parte per Watari
era un onore, e lui lo sapeva bene.
All’interno
tutti era buio: la luce staccata, le finestre chiuse e
solo una piccola lampada che illuminava il letto, su cui troneggiava un
portatile bianco, con all’interno dello schermo una piccola L gotica che
rimbalzava sulle pareti. Tutto era silenzioso, ovattato e protetto. Tutto era
inafferrabile. Come L.
“Attento
ai cd sulla destra”
Watari non fece in tempo a fermarsi che una pila
di cd gli franò ai piedi.
“Lascia
stare, faccio dopo io” aggiunse il ragazzo senza
voltarsi, prima ancora che l’uomo potesse abbassarsi per raccoglierli. L’ombra
di un sorriso apparve sul volto di Watari. Si diresse
con passo incerto fino alla finestra, cercando di non calpestare nulla di ciò
che poteva trovarsi sparso sul pavimento.
“Non
aprirle, per favore” il ticchettio dei tasti si confuse con il timbro basso
della sua voce.
“Ma
è pieno pomeriggio, c’è un bel sole…”
“Mi da fastidio quando lavoro”
Le
mani dell’uomo scivolarono sulla stoffa delle tende, tradendo un leggero
tremito “L, cos’è questo posto?”
“È
il mio regno”
Watari comprese da dove venivano le occhiaie
appena accennate che spuntavano sotto gli occhi del ragazzo.
Sullo
schermo del computer cominciarono a scorrere file, parole, numeri, dati, dati, dati. Una marea di dati.
“Indizi…
passi… uno dopo l’altro…” L parlò come se stesse
parlando più a se stesso che a qualcun altro.
Quando
si avvicinò, Watari vide sparse sul copriletto una
marea di fogli,, ritagli di giornale, ma soprattutto
foto. Foto che un ragazzo forse non dovrebbe vedere. Foto
di cadaveri. E prove. E
indiziati.
Watari guardò incerto il computer. “Ma questi sono…”
“File della polizia di Londra”
“Come hai fatto ad averli?” ora l’uomo era incuriosito e in un certo senso
anche orgoglioso.
“Sono
riuscito ad entrare nel loro server online e, spacciandomi per un loro agente,
ho chiesto di passarmi le informazioni che mi interessavano”
L allungò una mano per prendere un cioccolatino dalla scatola sul mobile vicino
a lui. Watari lo osservò attentamente. Quel bambino
era cresciuto troppo in fretta, senza che lui se ne accorgesse.
E per un attimo vide passare l’ombra dell’uomo che
quel ragazzo sarebbe potuto diventare.
“Questo
è il caso del killer che rapisce le ragazze, giusto?
Hanno già trovato il colpevole. Perché ti…?”
“Perché stanno per punire una persona innocente”
L’uomo
rimase in silenzio, visibilmente incuriosito dalla serietà con cui L stava parlando.
“Avevo
seguito il caso attraverso i media, ma quando hanno
sentenziato di aver trovato il colpevole c’era qualcosa che non mi quadrava,
così ho voluto fare un po’ di ricerche. Ed è
esattamente quello che stavi facendo anche tu”
Watari spalancò gli occhi “Che prove hai di questo? Mi hai mai visto ficcanasare in giro come
stai facendo tu?”
“Hai
lasciato questo in biblioteca, l’altro giorno” L
mostrò un foglietto di carta spiegazzato, tenendolo delicatamente tra le dita.
Sopra vi era scritto il nome di agente di polizia. “È
a lui che hai fatto il terzo grado?”
“Sei
veramente abile. È con questo nome che sei entrato nel server
della polizia?”
“No.
Dava troppo nell’occhio” e prese una caramella a forma di orsetto
dalla ciotola poco distante.
L’uomo
sorrise, divertito. Poi L parlò di nuovo, ma questa
volta lo guardò negli occhi.
“Queste
sono le mie capacità. Ho risolto questo caso e non intendo che un innocente
vada sulla forca al posto di un colpevole”
“Pensi
che ti crederanno? Sei solo un ragazzo…”
“È per questo che mi serve il tuo aiuto”
“Giusto…”
“Allora…
sei con me, ex agente dell’FBI?”
Watari spalancò gli occhi e per un attimo ebbe
paura.
Avevi un segreto
che non volevi svelarmi.
Ma come sempre io sono arrivato prima che tu potessi
concepire la mia curiosità.
“Anche tu Watari sei un mistero.
Come me. Sei un ombra. Sei diverso. Siamo uguali. Ma è giusto così…”
Te l’ho detto: è
tutto collegato…
La tua scelta su di
me. Mia madre. Il mio odio. La statua di Maria. La ragazza con le lentiggini.
“Allora
ci stai?” il ragazzo allunga una mano verso l’uomo.
Il tuo sorriso
dolce. La mia determinazione. Le campane. La neve. La nostra strada.
L’uomo
sorride e allunga la mano verso il ragazzo “Affare fatto…”
Il nostro scopo…
“Allora
ne sei veramente convinto?”
“Sì”
“Sarà
difficile”
“Lo so”
“Forse farà male”
“Non importa”
“Sicuro di non voler tornare indietro?”
“Sono troppo avanti per poter tornare indietro”
“Come
vuoi…”
“ASPETTA!”
“Ripensamento?”
“No… è che devi esserne sicuro anche tu, sennò non vale”
“Certo che ne sono sicuro! Dopo tutto siamo complici.
Non è vero, L?”
“Hai
ragione,L”
“Allora
si va” l’uomo preme il tasto del vivavoce e apre il computer portatile.
Davanti
a tutti si staglia una grande L nera contro uno sfondo
bianco.
Al di là del vetro ampio, dove ci sono gli esseri grandi…
“Gentili
colleghi di Scotland Yard. È un piacere conoscervi…” Watari sorride sotto l’impermeabile nero
“Io sono L…”
Ora toccava a lui,
sorridere come un ebete…
***
L non
è nato il 31 ottobre 1979.
L non
è nato scoprendo il suo nome.
L non
è nato in quella notte di pioggia sotto la statua di Maria.
Forse
è nato molto prima, in un tempo in cui non c’era ancora.
L
forse è nato in una stanza buia, illuminata dalla luce di un computer, in mezzo
a foto di cadaveri e volti contorti dal dolore, senza pianti, senza risa,
quando la mano dell’uomo sfiorò e poi strinse quella
del ragazzo.
L non
ha vissuto per una vita normale, per un lavoro normale
o per delle relazioni normali.
L non
è fatto per queste cose.
Ma va bene così.
È la
strada che ha scelto.
Molti
dicono che per ognuno di noi fin dalla nascita ci sia
qualcosa di prescritto. Un qualcosa di grande e meraviglioso che solo noi
possiamo fare.
C’è chi lo chiama
Destino, chi lo chiama Karma.
Io
preferisco chiamarlo “Unicuique suum”.
“A
ciascuno il suo”
Il
concetto su cui si basa la nostra concezione di giustizia.
Ma L
non è stato solo il più grande detective che il mondo
abbia mai conosciuto.
È
stato anche un maestro. Che con pazienza e testardaggine ha
insegnato concetti difficili a chi forse non li voleva sapere. È stato
un uomo con un sogno ambizioso.
In
questo non è molto diverso da Kira. Volendo creare il
suo mondo nel giusto. Punendo chi se lo meritava.
Cercando di evitare dolore inutile.
Passando
un testimone grande e difficile.
Cercando
di non morire anche se morto fisicamente.
E qualcuno ha
afferrato le sue parole e ne ha fatto tesoro.
Perché un
uomo dovrebbe sacrificare la sua intera esistenza alla giustizia?
Per
una prospettiva superiore.
Perché un
bambino, senza padre né madre, possa ritrovare quella felicità diversa, che
troppo a lungo gli era sfuggita.
Perché qualcuno dopo di lui continui la sua strada,
senza mai arrivare alla fine. E quel qualcuno forse non è così lontano dall’essere noi
stessi.
Ma ora è giunto il
momento di dirsi addio.
Nell’animo
umano che silenzioso muta, spero rimanga un minimo ricordo dell’uomo e non
solo dell’idea.
Perché io
so che voi potrete dimenticare il mio volto.
Forse,
guardando quella torta alle fragole, non vi verrà in mente il mio strano modo
di sedermi.
Quando
spegnerete il computer e non sentirete più la mia voce ronzare dalle vostre
casse audio, forse dimenticherete anche quella.
Ma sono sicuro che di
L non vi dimenticherete mai.
E mi rivedrete
ovunque: in un libro, per strada, in un film.
Non
vi staccherete mai da me, volenti o nolenti.
Anche se
ora vi saluto e vi lascio tornare alle vostre vite.
Tanto
ci rivedremo.
E lo sapete perché?
Perché io…
Sono
la Giustizia…
L
Parole dall’Autrice
Grazie
per aver letto e per essere arrivati fin qui ^_____^ ARIGATOU GOZAIMASU!!
In primis: grazie
ad Elaisa e Solarial per il
concorso su DN ^_____^
Questa
fic credo che più di ogni
altra cosa abbia bisogno di spiegazioni.
È
la mia one shot più lunga in
assoluto e ci sono stata dietro per più di due settimane e mezza. È stato un
lavoro difficile, perché non volevo una semplice analisi di L, volevo un qualcosa di particolare, forse anche
incomprensibile. Per questo credo che una spiegazione sia doverosa.
Andando
per punti:
-
L:
su di lui non dico più niente, che credo di aver già detto fin troppo ^^” solo
che ho cercato di tenermi ben stampato in mente il modello di L di cui ho parlato in Freedom, la mia
prima fic su Death Note.
-
“Vi
veri veniversum vivus vici”: “con la forza della verità,
in vita, ho conquistato l’universo”, direi che è una citazione che su L va a
pennello.
-
La
madre di L: per la scena dell’ospedale mi sono basata su una frase in
particolare: alla fine del secondo film (the Last Name)
L dice di non aver mai conosciuto i suoi genitori. Mi
sono venute in mente due opzioni: o l’hanno
abbandonato, oppure sono morti. Sull’abbandono non mi pronuncio, perché mi
sembrava troppo… strano. Per cui ho optato per la
scena che avete letto e che mi è servita per mostrare un primo approccio forte
con la realtà di questo bambino. Il primo nodo del rosario che l’ha portato ad
essere quello che è, “partendo già in fallo” come dice L
stesso.
-
Il
nome di L: mi sembrava più logico che di lui si sapesse solo il cognome. Un
nome così particolare come una singola lettera non lo si
dà a gente comune, ma non lo pensa nemmeno gente comune. Mi sembrava bello e
naturale che glielo avesse dato Watari quando l’ha preso con sé. Riguardo al suo cognome,
traducendolo in italiano viene fuori una cosa come “colui che
giace con la legge/giustizia”. Più messaggio subliminale di così…
-
I
bambini e il primo orfanotrofio: i “diversi” vengono
sempre trattati in modo diverso. Per cui mi serviva un posto “normale” in cui
collocare il “diverso” dei diversi, prima che arrivasse il periodo più o meno felice della Wammy’s
House. I bambini sono i suoi antagonisti, per cui li
ho scelti grotteschi nella loro naturale perfidia.
-
Watari: l’uomo con l’impermeabile. Su di
lui potrei tranquillamente spenderci altre dieci pagine. Ma lo
si può condensare in un'unica parola: lui è il “papà” di L. Anche nel fumetto/anime è palese che hanno un rapporto di
questo tipo (non ne parliamo poi della puntata 25!). Non è suo padre
fisicamente, ma è lui che l’ha preso con sé, che gli ha mostrato una realtà
diversa da quella in cui viveva e che ha aiutato quel semino a mettere radici e
fiorire. Mi piaceva l’idea che Watari non avesse solo
preso in custodia L, ma l’avesse proprio adottato: L è
diverso, anche in mezzo ai diversi. In più tra lui ed
L c’è un gioco particolare: il gioco dei ruoli. Chi è il vero L? il ragazzo che conosciamo noi, oppure l’uomo che l’ha
aiutato a diventare ciò che è? Questa secondo me è una
domanda importante, troppo spesso sottovalutata. E poi c’è la complicità: L ha un sogno che da solo non può realizzare; Watari vede per L un futuro che può assomigliare a quel
sogno. Allora scatta un meccanismo di particolare intesa,
in cui si sviluppa anche il rapporto maestro/allievo. Perché l’ho voluto ex
agente dell’FBI? Ma avete
visto come spara? Queste cose un vecchietto settantenne non le impara mica in
due giorni!!
-
La
scena della neve: l’ho presa di pari passo dalla puntata 25 e mi fa una
tenerezza incontenibile… l’ho inserita perché ho notato che il personaggio di L ruota molto intorno a fenomeni quali la pioggia e la neve.
Beh, sul fatto che lui fosse come l’acqua mi sembra
siamo tutti d’accordo ^___^
-
La
statua di Maria: L non ha la mamma. Ma ogni bambino ha bisogno di seguire sia
una figura maschile che una figura femminile.
L’immagine di questa statua l’ho presa da una delle
immagini dell’art book, la mia preferita, in cui si vede L (tra l’altro
bellissimo) e sullo sfondo delle rose bianche, un cuore con una sola ala e in
cima il fuoco e in basso a sinistra l’immagine della Madonna che prega. Credo
sia di una bellezza disarmante e quindi, diciamo pure per puro capriccio
personale, ho voluto inserirla anche qui. La citazione
che segue, scritta in grassetto, è tratta da Il Corvo e credo che non abbia bisogno di spiegazioni.
-
Il
cambiamento di L: L cresce e comincia a capire molte
più cose di quante un bambino dovrebbe. Per lui le cose che agli altri appaiono
normali a lui sembrano o banali o, al contrario, speciali. Poi arriva la
bambina con le trecce, “diversa” in modo dissimile al suo. E
qui capisce che non esiste solo il dolore che ha provato lui, ma esiste un tipo
di dolore che abbraccia tutti. Questo non gli piace e vuole cambiare questa
cosa. Ma non si accontenta di punire i suoi coetanei
per piccoli scherzi: vuole farlo su vasta scala, sfruttando le sue capacità.
Cerca di costruire un mondo a sua misura. Proprio come vuole Kira.
-
La
Giustizia: quale migliore figura di quella dell’amante? Amante di un amore
semplice e incontaminato e per questo crudele come solo l’amore può esserlo.
-
Il
monologo finale: L non è solo l’uomo che sta dietro lo schermo del computer. L è diventato qualcos’altro: ha superato la semplice forma
umana, pur rimanendo umano. Non è più solo il simbolo: passando il suo nome e
passando il suo compito a qualcuno che sa lo porterà avanti, lui non è più solo
“colui che giace con la giustizia”, lui diventa la
giustizia. Per questo non si può dire che morendo se
ne sia andato. Lui è rimasto. Sotto forme diverse, ma c’è. è
li, da qualche parte, anche se noi non lo sappiamo.
-
La
L: volevo riprendere lo schermo del suo computer, volevo dare l’idea che L fosse veramente dall’altra parte di questo schermo, a
raccontare la sua storia.
Disclaimer: i personaggi di Death Note
appartengono a Tsugumi Ohba
e Takeshi Obata. Tutti i
diritti sono loro riservati. Pubblico questa storia
senza nessuno scopo di lucro.