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Autore: OttoNoveTre    26/11/2012    5 recensioni
- Brennan, Rayson, restate qui e sorvegliate l’ingresso. Storm, Hawkeye, Cloverfield, con me.
La voce di Taylor lo riscosse: il loro capitano indicava una porta bianca, mimetizzata contro l’unica parete in muratura, da cui provenivano l’odore di cibo e uno sfrigolio.
Spalancarono la porta ad armi spianate.
Chino sui fornelli, vestito di bianco immacolato, c’era un cuoco.
Genere: Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Haymitch Abernathy, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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cuoco di capitol

Il cuoco di Capitol




Io mi chiedo che faccia faranno, a trovarmi in cucina
e se vorranno qualcosa per cena.


- Qui ci ho portato mia moglie per chiederle di sposarmi, sapete?
- E come è finita?
- Che cinque anni dopo ci ho portato anche la mia amante. Ehi, che c’è, la vista è impareggiabile!
Il capitano Taylor si era voltato e aveva zittito il tenente Cloverfield con un’occhiataccia. Nel silenzio che era calato, si era sentito solo il soldato Hawkeye che mormorava “cose da Capitol…”.
Erik saliva le scale in coda a tutti gli altri. Si rendeva conto a malapena che il fucile non si era fuso con il resto del corpo: il metallo era ormai caldo come le sue dita, e negli ultimi giorni ci aveva fatto tutto, col fucile in mano. “Te lo porti anche a pisciare, capito?” gli aveva sibilato Hawkeye mentre lo aiutava a indossare la divisa, prima della loro partenza.
Pochi gradini dopo il battibecco trovarono le scale sbarrate da un mucchio di scrivanie, sedie e altri mobili rotti. Il capitano Taylor tirò fuori dalla tasca della divisa il pod con la mappa dell’edificio e controllò se fosse più efficiente spostare lo sbarramento o far saltare la parete alla loro destra.
Erik, come aveva fatto molte volte durante l’addestramento, spianò il fucile e si girò a coprire la via da dove erano arrivati. Nel voltarsi, gli cadde l’occhio oltre la vetrata che li separava dall’aria aperta: il cuore prese a battergli furiosamente contro le costole, e gli mancò il fiato per un attimo. Davanti a lui c’era l’intera Capitol.
Lontano, sul confine che avevano conquistato, si alzavano alte le fiamme degli incendi, nel centro era scattato il coprifuoco e le uniche luci provenivano, in terra, dalle loro truppe che occupavano gli ultimi edifici.
In cielo, le stelle.
Erik appoggiò una mano sul vetro e si perse nel blu scuro tutto attorno a loro.
- Problemi di vertigini, ragazzo?
Il tenente Cloverfield si era avvicinato e gli aveva messo una mano sulla spalla.
- Il cielo l’avrò visto qualche volta da un lucernario, signore. Il sole artificiale delle serre nemmeno lo conto. Questo è… è bellissimo.
- Tu sei un bambino talpa, vero?
- Signore?
- Sei nato e cresciuto nei bunker del Tredici, giusto?
- Sissignore. Nato nel cinquattottesimo anno dalla ritirata sotterranea.
- So che è retorico, ma a Capitol non ci siamo mai resi conto di cosa fosse una vita come la vostra. Andiamo, quella sbobbina grigetta! Non so nemmeno come tu possa avere dei muscoli, cresciuto come sei con quella robaccia. – Cloverfield fece schioccare con disapprovazione la lingua sul palato.
- Se avete finito di guardare il panorama, abbiamo trovato il modo di aprirci un varco.
Taylor appoggiò una piccola carica esplosiva alla parete interna, la fece detonare una volta sopstata la pattuglia due rampe più sotto. Quando risalirono, lo squarcio nella parete li condusse in un negozio di parrucche. Lo attraversarono fino a un’altra scala, interna, e ripresero la salita.
Dopo altre rampe, arrivarono a una porta d’emergenza. Taylor fece segno a Hawkeye, che la aprì con una spallata: la porta cedette subito ed entrarono in un atrio.
Alla loro destra c’era la fila degli ascensori, mentre a sinistra una scalinata portava all’ingresso di un’altra sala, nascosta alla loro vista.
Una musica rilassante li accolse nel nuovo ambiente, assieme alla luce soffusa dei lampadari di cristallo, che funzionavano nonostante la corrente dell’edificio fosse stata interrotta nella maggior parte dei piani.
Ma la cosa che Erik notò più di tutte le altre era l’odore di cibo che gli riempiva le narici. Il suo stomaco mandò un brontolio sonoro. Si strinse di più il fucile al petto per farlo smettere, quando sentì lo stesso identico suono provenire dalla pancia del capitano e degli altri soldati.
Taylor fece finta di nulla e diede ordine di tenere il massimo silenzio, mise via il pod e fece strada ai suoi uomini su per la scalinata. Erik voltò di nuovo le spalle ai suoi compagni e tenne d’occhio la retrovia. L’odore di cibo aumentava a ogni gradino, assieme alla voragine nel suo stomaco. Frugò nella tasca sinistra del giubbotto e ne estrasse una barretta energetica, strappò l’involucro di carta con i denti e la divorò in tre bocconi quasi senza masticare. Il sapore artificiale delle vitamine e delle proteine, raffrontato al profumo nell’aria, gli provocò un conato; a stento riuscì a deglutire la palla di cemento che si sentiva in gola.
- Per la miseria…
L’esclamazione di Hawkeye lo mise in allarme: smise di puntare la canna del fucile contro gli ascensori immobili e si voltò di scatto in direzione della sala.
Per la miseria.
Le pareti della sala erano enormi vetrate, che proseguivano in una struttura di vetro e acciaio fino al culmine del soffito, da cui pendeva un unico, immenso lampadario di cristallo.
Sotto il lampadario, nel mezzo della sala sgombra, c’era un tavolo apparecchiato per sei. Ma non apparecchiato come alla mensa del Tredici, dove gli oggetti servivano solo per porzionare il cibo e non prenderlo con le mani: forchetta, coltello, vassoio a comparti, bicchiere di plastica. Delle cose così belle come quelle sulla tavola si potevano davvero sporcare di cibo? Quei bicchieri slanciati, finissimi, non si rompevano appena una mano li sfiorava?
- Brennan, Rayson, restate qui e sorvegliate l’ingresso. Storm, Hawkeye, Cloverfield, con me.
La voce di Taylor lo riscosse: il loro capitano indicava una porta bianca, mimetizzata contro l’unica parete in muratura, da cui provenivano l’odore di cibo e uno sfrigolio.
Spalancarono la porta ad armi spianate.
Chino sui fornelli, vestito di bianco immacolato, c’era un cuoco. Non alzò neppure la testa dalla padella che aveva in mano, in cui stava bollendo un sugo marroncino. In una ciotola era stata appena montata una mousse sofficissima. Su un altro fornello qualcosa sfrigolava nell’olio bollente, accanto a un pentolino più piccolo, semicoperto, da cui sbuffava del vapore bianco.
Erik era sicuro che gli fosse uscito un ruggito dallo stomaco.
Cloverfield, accanto a lui, era sbiancato di colpo. Lo sentì mormorare: - Non può essere… - e vide che gli tremava in mano il fucile.
- Che cosa ci fa lei qui? Il grattacielo è stato evacuato. – Taylor puntò il fucile verso la testa bionda del cuoco.
- Cucino.
- Questo di sicuro! Qui dentro c’è roba che ci sfamiamo il Tredici per una settimana. – Hawkeye prese da un tagliere un pezzo di carne e lo addentò così com’era, con una foga da animale.
Il rumore di un coltello impiantato nel legno, e il pezzo di carne tornò sul tagliere, infilzato. Hawkeye era rimasto con le mani sollevate e un’espressione sconcertata, mentre il cuoco gli forzava la bocca per fargli sputare il boccone.
- È cruda, cazzo! Ed è carne di maiale, vuoi avvelenarti?
Il boccone masticato finì in terra. Hawkeye si riprese, afferrò le spalle del cuoco e gli sbattè la testa contro il tavolo, accanto alla carne infilzata. Erik sentì che Cloverfield si era lasciato sfuggire un gridolino isterico.
- Te lo pianto in mezzo agli occhi il tuo cazzo di coltello, e poi mi mangio quel cazzo che vuoglio nella tua cazzo di cucina!
- Soldato!
Taylor strattonò via Hawkeye e lo spinse indietro nei ranghi. Il cuoco si era rialzato come se nulla fosse successo, aveva preso un pezzo di carta e buttato via la carne sul pavimento.
- Signore, dobbiamo chiederle di seguirci. – Taylor aveva spostato di nuovo il fucile verso di lui.
- Non prima di aver cenato.
- Certo, in modo che ci avveleni tutti! – sghignazzò Hawkeye, ma la risata gli si strozzò in gola quando vide, come tutti gli altri, un lampo di furia negli occhi del cuoco. Quello si portò con tre passi di fronte al soldato, incrociò le braccia e gli puntò contro un dito più minaccioso della canna dei loro fucili.
- Non oserei mai, MAI avvelenare il cibo che servo ai miei ospiti, chiunque essi siano. Qui si mangia, e si mangia bene.
- Capitano, se posso permettermi, - Cloverfield si avvicinò a Taylor di qualche passo. Il cuoco lo squadrò (Erik poteva giurare che avesse riconosciuto un altro di Capitol) – la torre è in mano alle nostre forze, non subiremo attacchi improvvisi. E se il problema sono i sospetti sul cibo avvelenato, lasci qualcuno di guardia in cucina. – e il “magari me” che non aggiunse traspariva tutto dai suoi occhi.
Il capitano Taylor guardò la padella col sugo, si passò una mano sullo stomaco e poi sulla barba.
- Soldato Storm! – chiamò, ed Erik si mise sull’attenti – resterai in cucina a sorvegliare il prigioniero, assicurandoti che assaggi ogni cosa che vuole portarci in tavola.
Erik si portò la mano alla fronte in segno di obbedienza. Gli altri usirono dalla porta, per ultimo Cloverfield che gli lanciò un’occhiata invidiosa.
Il ragazzo rimase solo in cucina con il cuoco. Oltre gli oblò della porta che li separava dalla sala da pranzo, vide gli altri che scostavano le sedie e si accomodavano a tavola.
- Bene rosso, posa quel fucile e renditi utile, che abbiamo da fare.
- C-cosa… signore? – la parola gli sfuggì d’istinto, a sentire il tono di comando con cui il cuoco gli si era rivolto.
- Qui non ci sono signori, capitani e soldati. C’è solo lo chef, io. Avanti, posa quel fucile e datti una lavata. – il cuoco, anzi, lo chef, gli aveva lanciato un’uniforme bianca, che Erik afferrò al volo. Con un certo imbarazzo, andò in un angolo della cucina e si tolse fucile, zaino e mimetica per mettersi addosso i pantaloni a scacchi e la giacca immacolata. Lo chef gli aggiustò i bottoni e gli diede una scrollata ai capelli, schiacciati dall’elmetto della divisa.
- Può andare. E ora cominciamo.
Si diresse verso un armadio con una porta di vetro, in cui stavano impilate delle bottiglie. Ne prese una di vetro verde scuro. Quando la stappò, il liquido all’interno produsse un sibilo e un filo di fumo. Il cuoco gliela mise in mano, mostrandogli come tenerla dal fondo.
- Nei bicchieri alti e sottili, fermati prima che la schiuma strabordi.
- Sì, chef.

Quando Oreste Ray era stato promosso Capo Cantiere, dieci anni prima, aveva offerto alla squadra sotto di lui una cena, ma non una cena qualsiasi. Marzio ricordava ancora gli arredi della sala, i camerieri in livrea, i piatti che parevano composizioni d’arte e i sapori sinfonie. Ricordava soprattutto il giovane chef biondo che era venuto a ricevere i loro complimenti a fine pasto, a cui lui era quasi scoppiato a piangere in faccia per la commozione.
Se la sognava ancora di notte quella cena, così la voce gracchiante di Hawkeye che diceva: - Solo voi di Capitol potete fare tutte queste manfrine attorno al cibo. Mio nonno buonanima diceva sempre “ciò che non strozza ingrassa”. – gli arrivò come una bestemmia nelle orecchie. Taylor impose di nuovo il silenzio, e la musica soffusa rimase l’unico suono nella sala.
Dalla porta della cucina spuntò il ragazzino, Erik, con una bottiglia in mano e un piatto bianco nell’altra, seguito dallo chef che reggeva un enorme vassoio di pane appena sfornato: erano i dodici tipi di pane dei distretti. Ransey (santo cielo, Ransey) lo appoggiò al centro della tavola. Erik ci mise accanto il suo piatto, diviso in tanti scomparti: ognuno conteneva ciuffi di creme al burro, alcune puntellate di erbe aromatiche, altre di semini neri o di dadolini croccanti.
Era il famoso fiore di pane dei distretti con cui anche loro avevano aperto la cena, ricordava ancora Ransey che elencava i vari tipi di mousse. La voce dello chef nel suo ricordo si fuse con quella del presente:
- Ogni pane si accompagna alla sua spuma, in senso orario. Buon appetito.
Ransey scomparve di nuovo in cucina, mentre Erik passava a riempire i flute di champagne rosato.
I soldati si guardarono tra di loro smarriti, poi guardarono tutti verso Marzio.
- No, beh, non è difficile. Allora. Tu prendi il panino, giusto? Lo apri così – perché gli pareva di fare troppe briciole? - e lo spalmi con la crema abbinata. Almeno credo…
- Non guardare me! – Taylor fece una smorfia – Sei tu quello abituato a certe cose. C’è davvero gente che mangia così tutti i giorni, a Capitol?
- Non certo io… Ci vorrebbe il caro Plutarch Heavensbee, lui è da Torre di Vetro, non un ingeniere civile come me.
Hawkeye aveva addentato a casaccio tre panini, e stava pucciando un quarto direttamente nel vassoio delle mousse.
- E se io volessi mangiare il Distretto 4 con la Crema 10?
Marzio recuperò le forze sufficienti per indignarsi.
- Sarebbe un abominio, perché mescoleresti un pane alle alghe, già molto salato e saporito, con una crema pancettata dal gusto altrettanto caratteristico, ma dalle caratteristiche del tutto diverse. Mai carne e pesce assieme, è una delle basi della cucina…
Hawkeye aveva la stessa faccia che faceva lui quando Alexandra tentava di spiegargli la differenza tra beige e greige (differenza che ancora non aveva capito).
- Aspetta, tenente – Taylor bloccò i suoi tentativi e si mise a pensare. Il loro capitano era del 2, forse qualcosa di più di sbobbe lo aveva mangiato. – Diciamo che è come avere davanti una bella donna e dirle che potete rimanere abbracciati tutta la notte, sarà bellissimo lo stesso.
Gli altri risero, e cominciarono a spalmare le mousse sui panini abbinati.
Intanto, Erik era tornato con un grosso vassoio pieno di piattini rettangolari, sotto lo sguardo vigile di Ransey sulla soglia della cucina.
- Allora, qui abbiamo una pernice – scoccò un’occhiata allo chef, che gli fece cenno di proseguire – sì, una pernice in tre consistenze: mousse allo Stravecchio con grissino in extravergine e tartufo bianco, alette croccanti con purea di.. di? – Erik guardò allarmato Ransey, che sillabò qualcosa – di carote violette, sì. E infine petto in riduzione di Rosso Capitolino su panbrioscè tostato.
Ognuno di loro ricevette uno dei piatti rettangolari.
- Adesso però mi spieghi perché le nostre sbobbette fanno schifo, Cloverfield, ma se ti frullano la carne e te la servono in un bicchierino trasparente va tutto bene.
Marzio lasciò rispondere al posto suo il primo cucchiaino di mousse, che riuscì a lasciare persino Hawkeye senza parole.
Erik era scomparso e riapparso dalla cucina con una bottiglia di Rosso Capitolino. Quando tutti i calici furono riempiti, Marzio fece tintinnare la forchetta sul suo bicchiere.
- Propongo un brindisi. Alla libertà che meritavamo e a una cena che meritiamo molto meno. Alle pernici che tra poco saranno nella nostra pancia. E alle nostre mogli e alle nostre amanti.
- Che non si incontrino mai. – finì Taylor, levando il calice.

Nelle mani dello chef, le dunette di gelato della “Passeggiata autunnale a Capitol” sembravano la cosa più semplice del mondo da riprodurre; ora che i cucchiai erano in mano sua, il gelato aveva lo stesso aspetto delle incrostazioni di crema di rapa in fondo alle pentole del Tredici.
- Polso, Erik! – lo chef passò di nuovo un colpo di spugna sulla superficie dello specchio che fungeva da piatto e glielo rimise davanti. – Controlla la curvatura del cucchiaio quando formi la tua quenelle. – in tre secondi una duna perfetta si adagiò sulla superficie riflettente. – Riprova.
Erik strinse i denti e tentò di riprodurre i movimenti aggraziati che aveva visto un attimo prima: il risultato era simile a una polpetta spigolosa, ma che almeno possedeva una qualche forma.
- Passami le spugne di castagna e poi vai a prendere il Passito di Euridice.
Erik corse all’armadio delle bottiglie: quella che stava cercando era più piccola delle altre, contenente un liquido color dell’oro. La portò verso il banco da lavoro e rimase senza fiato, per l’ennesima volta quella sera, alla vista del dolce sullo specchio.
Lo chef gli porse il grande specchio su cui si snodava la “passeggiata”. Erik vide con gioia che non aveva tolto e rifatto le sue dunette spigolose, erano solo camuffate dalle spugne di castagna.
Al tavolo dei suoi commilitoni la tensione si era allentata. Il capitano Taylor stava raccontando qualche aneddoto, col cucchiaino che faceva le veci di un hovercraft. Tacquero di nuovo alla vista dello specchio, così come era successo per tutti gli altri piatti della cena (c’era stato solo un attimo di tensione all’apparire del secondo, i “Geai en sarcofage”, spezzato da Taylor che aveva addentato con gusto la testa della sua ghiandaia imitatice flambè, appollaiata in un nido di pasta).
I cucchiaini affondarono nel gelato all’uva con la gestualità composta degna di un rito religioso. Erik riempì i bicchierini (“quelli piccoli”) con il Passito di Euridice, poi tornò in cucina, accompagnato dal suono dei cucchiai che battevano sulla superficie dello specchio.
Lo chef stava ornando di praline dei vassoi bellissimi, a spirale ascendente. Nell’aria aleggiava un aroma dolce e corposo, ma anche fresco, qualcosa che Erik non aveva mai sentito. Proveniva da una grossa teiera accanto ai fornelli, da cui lo chef versò del liquido di un bel marrone caldo in tanti bicchierini di cristallo; dentro ogni bicchiere fece cadere delle foglioline verdi dall’odore pungente. Finita la guarnizione, si sedette su una sedia e asciugò il sudore che gli colava dalla fronte.
- Ultimo giro, poi ci godiamo assieme gli avanzi.
Erik portò con attenzione i bicchieri e i vassoi a spirale sul tavolo, dove vennero accolti tra applausi di trionfo e grida incredule (“Va’ le moussine e i bicchierini e le spugnette come ti riempiono!” “Qui quando torniamo così grassi non li convinciamo che siamo stati in guerra.”).
Tornò in cucina per l’ultima volta, e trovò il bancone sgombrato e con gli avanzi della cena impiattati a regola d’arte. Lo chef gli diede una pacca sulla spalla, nel porgergli la forchetta.
- Ottimo lavoro, rosso, hai delle mani molto abili. Vedi di tenerle intere fino alla fine.
Mentre Erik addentava una coscia della pernice assieme a un pezzo di pane, ed era la cosa più succosa, saporita, morbida, perfetta che avesse mai assaggiato, non riuscì più a fermare le lacrime.


Tre mesi dopo

Goran si passò un asciugamano sulla fronte e spense i fornelli. Anche quella sera avevano finito il grosso del lavoro.
Entrò in cucina il suo nuovo capocameriere, Fausto, con una pila di piatti sporchi.
- Chef, il tavolo dei soldati – lo disse con lo stesso tono con cui avrebbe nominato un insetto sgradevole – chiede di farle i complimenti prima di andarsene.
- Rosso, li hai mandati qui tu?
Erik fece segno di no con la testa e tornò a concentrarsi sulle meringhe.
Goran si pulì anche le mani e diede una sistemata alla divisa. Uscì nella sala del suo ristorante, di nuovo piena di gente, tavoli e chiacchiericci. Il tavolo dei soldati, come l’aveva chiamato Fausto, lo accolse con un applauso. Si alzò a parlare un uomo scuro, con una barba folta e curata. Goran riconobbe, anche sotto l’alta uniforme, il soldato malconcio a capo della pattuglia.
- Chef Ransey, noi abbiamo un debito nei vostri confronti, stasera siamo qui per ripagarlo. – gli porse il taccuino del conto, con il doppio dei soldi che aveva segnato nella ricevuta. – Non sia mai detto che i ribelli non pagano i loro debiti. – e scoccò un’occhiata a Fausto, che non nascondeva il suo disprezzo per i “parvenue dei distretti”.
Goran restituì il taccuino al soldato, senza toccare un soldo.
- Anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare.



20 anni dopo

- Quando fai così sei tale e quale a tua madre. Non capisco perché se le allevo io sono bestiacce starnazzanti, se le fa questo tale chef Storm diventa “fegato d’oca in tre maniere” e costa un occhio della testa.
- Ti ho aiutato a cercare la cosa per la mamma, no? E tu adesso mi porti a cena “in qualsiasi posto desidero”. I patti sono patti.
- Speravo che ti andasse ancora bene la gelateria di Freedom Avenue, principessa, dove facevano quella bella coppa con i confettini argentati e i coniglietti di zucchero.
Camelia sbuffò. Si era anche voluta mettere tutta in ghingeri per andare in quel posto da ricconi, ghingeri nuovi ovviamente, perché quelli di cui la riempiva sua madre non erano abbastanza per mangiare oche in una sala fatta apposta per metterti a disagio.
Però Haymitch dovette ammettere che la sua bambina era proprio bella. Aveva la dolcezza dei tratti e l’eleganza di sua madre, più il sorriso sfacciato e la scintilla strafottente che aveva lui prima dei Giochi, e che temeva di non vedere più.
Camelia non aveva ancora abbandonato il broncio di rimprovero.
- E poi non è un “tale chef”, è Erik Storm, il pupillo di Goran Ransey.
Haymitch guardò il menu del “A riveder le stelle”, pensando che l’unica cosa che vedeva erano troppi zeri vicino ai nomi dei piatti. Nomi ridicolmente lunghi, tra l’altro.
- Anche io comincerò a chiamare con nomi strambi le cose che faccio a casa. Domani uova adagiate nel padellino con erbette del bosco e sale di miniera. Non suona molto meglio?
- Sei impossibile, papà.
- Per questo mi adori.






La tana di Otto

Alla sera vedo donne bellissime, da Capitol arrivare fin qua...
La intro per dire che questa storia è figlia di due ispirazioni fuse assieme: una è la canzone Il cuoco di Salò, di De Gregori, da cui derivano titolo, citazione iniziale, la frase che dice Goran quando congeda i ribelli senza farli pagare e in generale l'idea dei soldati che arrivano ad armi spianate e invece vengono messi a tavola.
La seconda ispirazione è il film Il pranzo di Babette, uno dei miei preferiti. Se vi capita guardatelo (ha molto da insegnare anche riguardo la famosa tecnica dello Show don't Tell). Dal film derivano, nello specifico, il nome e i capelli di Erik, il piatto "caille en sarcofage" e in generale il tema dello chef e del suo aiutante.
"Alle nostre mogli e alle nostre amanti..." è un brindisi che viene fatto nel film "Master and Commanders" (vedevatelo anche lui!), diventata un tormentone tra i miei amici ogni volta che c'è la scusa per levare i calici.
I piatti che metto in tavola sono pesantemente spirati al menu di un ristorante dove ho avuto la fortuna di cenare un mese fa, quelli che esci e ti sogni la cena per tutto l'anno successivo.
Infine, Camelia è nata qua, poco aspettata ma molto amata da papà e mammà.
Il primo grazie, com'è usuale e doveroso, alle mie insostituibili beta Dragana e Vannagio.
Tutti gli altri a chi si è fermato a dare un'occhiata.

































   
 
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