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Autore: Smoking words    27/11/2012    1 recensioni
Siamo nel 2043, un mondo piagato da un'invasione di esseri alieni chiamati anime che hanno sterminato gran parte dell'umanità e ne perseguitano il resto. Sono pochi i rimasti, tra cui Hope, che viene internata in un misterioso ospedale psichiatrico in cui si aggirano altrettanto misteriose figure. C'è Iago, un ragazzo che nasconde un oscuro segreto dietro i suoi occhi grigi; c'è Jericho, additato come assassino e sorvegliato ventiquattr'ore su ventiquattro; c'è Phoenix, una ragazza tanto bella quanto eccentrica e c'è il dottor Linnenkamp, la chiave per scoprire il segreto che avvolge l'ospedale e la sua ragion d'essere. Tra queste mura il bene e il male si nascondono sotto forme inaspettate e Hope è l'unica speranza di redenzione per il mondo devastato.
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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hope




23 Gennaio 2043
Caro diario,
Non so se chiamarti così. Diario. Forse sarebbe azzardato, considerando che praticamente sei un rotolo di carta igienica.
O forse no. Forse per diario non si intende un quaderno o un agenda, ma semplicemente il fatto che qualcuno ci scriva la sua vita, i suoi pensieri. Non so. Mi ritrovo spesso a riflettere su queste cose, anche quando lì fuori, probabilmente, non è rimasto nemmeno un brandello del vecchio mondo.

Sono chiusa qui dentro da un anno. James non mi fa mai uscire, non vuole che rischi la vita, se questa si può veramente chiamare vita. Non so perché si ostini a fare così, a tenermi lontana dal mondo esterno a tutti i costi, a tenermi chiusa nello scantinato di una farmacia. Non mi ricordo nemmeno come sia la luce, oppure la sensazione del vento che sferza sul viso e che ti fa andare i capelli da tutte le parti. Non ricordo cosa voglia dire vivere sul serio.
James non ha mai chiesto la mia opinione, vuole solo tenermi in vita. Per cosa, poi, è ancora un mistero. Mi sorprenderei se là fuori ci fosse ancora qualcuno, qualcuno che non siano loro, le anime. Non ne ho mai vista una, ma ne ho sentito parlare: racconti mostruosi, cose che il vecchio mondo civilizzato non era riuscito a immaginare nemmeno nei suoi racconti più fantasiosi. E' di questo che ha paura James, che io diventi un'anima. Lo capisco: sono l'unica persona che gli rimane, sono sua sorella..ma non può decidere per me. Se solo riuscissi a trovare un senso, un motivo per continuare a vivere, allora potrei capirlo. Ma non c'è niente: niente lì fuori, niente in questa farmacia, niente dentro di me.
Che senso ha vivere per sopravvivere?
Hope
hope
Ripiegai velocemente il pezzo di carta igienica e lo nascosi all'interno del reggiseno, a contatto con la pelle nuda. Le mani mi tremavano e così anche le ginocchia; in parte era colpa del freddo, in parte era perché, a giudicare dal rumore di passi al piano di sopra, James doveva essere tornato dalla caccia.
La sua non era una vera e propria caccia, piuttosto si trattava di girare Seattle in lungo e in largo alla ricerca di un po' di cibo, anche di un cane o di un gatto, se ancora ce ne erano rimasti. Si portava sempre dietro una sacca di juta tutta sporca e rattoppata, ma il suo bottino non era mai troppo sostanzioso: nel caso avesse incontrato delle anime avrebbe dovuto essere veloce e di certo un carico pesante non avrebbe giovato. Così di solito riportava a casa - se di ciò si può parlare - un po' di carne in scatola e un paio di pacchetti di crackers.
La porta dello scantinato si aprì con un cigolio. Strinsi la pistola al mio fianco.
"Hope, devi smetterla di impugnare l'arma ad ogni cazzo di rumore"
Lasciai la presa e mormorai delle scuse dirette a James, che quel giorno non sembrava essere tornato di buonumore dalla caccia. Probabilmente aveva incontrato delle anime e se l'era dovuta svignare in fretta, perché il sacco lercio era più vuoto del solito e il fango sulla maglietta indicava che certamente non aveva fatto una passeggiata.
Esaminai attentamente il suo viso. Era sporco di terra e un piccolo taglio gli solcava la guancia sinistra avvicinandosi pericolosamente all'occhio. Feci una smorfia: odiavo la vista del sangue e odiavo vederlo addosso a James. Proprio la settimana prima era tornato con una brutta ferita al ginocchio e per un paio di giorni avevamo dovuto tirare avanti con un pacco di crackers all'oliva.
"Ci sono stati problemi?" chiesi a mezza voce.
Trasalii alla violenza con cui James lasciò cadere il sacco per terra e diede un calcio alla porta di alluminio. Non era mai stato così nervoso, o almeno aveva sempre cercato di non farmi pesare la cosa. Lui mi vedeva come un piccolo fiore innocente: non dovevo entrare a contatto con un mondo del genere, non dovevo essere sconvolta dalla crudezza della realtà. Ciò limitava anche i suoi comportamenti, le sue reazioni e ogni suo gesto.
"C'è stato un altro attacco. Hanno preso un gruppo di sopravvissuti che si nascondevano nel supermercato a due isolati da qui. Sono scampato per miracolo."
Deglutii a forza, alzandomi in piedi vacillante. Non diedi nemmeno il tempo a James di aggiungere altro, che mi fiondai tra le sue braccia, stringendolo più forte che potessi. Il contrasto era agghiacciante: lui era ben piazzato, abbastanza muscoloso, come si addice ad un soldato, mentre io ero gracile e magra come un chiodo. La mia pelle candida andava a scontrarsi con la sua più olivastra, mentre i suoi capelli biondi trovavano la loro opposizione nei miei castani scuri. L'unica cosa che ci accomunava era il colore degli occhi: verde.
"Dovresti smetterla di farlo." mormorai.
Mi allontanò dolcemente, guardandomi negli occhi con l'intensità del suo sguardo interrogativo.
"Fare cosa?"
Abbassai il mio fino a contemplare le assi di legno scricchiolanti dello scantinato. Lì era tutto legno: pareti, pavimenti, mobili, tutto. Bastava una scintilla e non avremmo più dovuto pensarci, pensare a sopravvivere solo per respirarte qualche secondo in più, solo per dire di aver visto questo mondo scivolarci tra le dita come sabbia. Una piccola scintilla e avrei protetto James dalla fine crudele che sicuramente avrebbe fatto.
"Andartene così in giro per Seatlle. Lo sai." E io sapevo di averlo fatto innervosire ancora di più.
Mi voltai per non partecipare al suo teatro, alla scenata che avrebbe fatto. Erano sempre le solite cose: dobbiamo vivere blablabla non è giusto blablabla io ho il dovere di proteggerti blablabla. Ormai aveva imparato a memoria il monologo, così bene che sembrava quasi crederci, ma lo vedevo nei suoi occhi che non era così: non ci credeva nemmeno un po', solo cercava di tardare il più possibile il momento in cui ci sarebbero venuti a prendere, momento che presto o tardi sarebbe arrivato.
Mi stesi per terra, avvolgendomi il cuscino intorno alla testa, nella speraranza di isolarmi dal discorso di James e dalle scosse che mi dava per attirare la mia attenzione. Non volevo ascoltarlo, sapevo già cosa aveva da dire e sapevo già di non essere d'accordo. Entrambi facevamo una fatica in più: lui ad arrabbiarsi e io a fare finta di aver capito che ciò che andava dicendo fosse giusto e incontestabile. In realtà avevo più volte provato il desiderio di scappare, oppure di puntarmi la pistola alla testa e farla finita, ma alla fine il pensiero del dolore che avrei provocato a James era passato sopra ogni forma di egoismo. Poteva pensare quello che gli pareva, ma fondamentalmente ero io ad occuparmi di lui, non il contrario.
"Hope, Hope!!Ascoltami: devi alzarti, alzati subito!"
Feci finta di non sentire e strinsi ancora di più il cuscino attorno alle orecchie, sebbene anche quello non riuscisse del tutto ad isolarmi dal mondo esterno.
Un tonfo sordo, poi il rumore di spari. Mi alzai di scatto, con gli occhi sgranati, appena in tempo per vedere il corpo di mio fratello cadermi davanti come un sacco di patate. Non feci in tempo ad urlare il suo nome, che qualcosa mi colpii alla testa. L'ultima cosa che vidi fu la vita scorrere lentamente via dagli occhi di mio fratello.


friederich"La numero 463 si sta svegliando."
La voce che mi giunse all'orecchio era maschile, vellutata. Era accompagnata del rumore di un apparecchio in sottofondo; ne avevo già sentito uno simile quando ero piccola: ero andata a trovare mia zia in ospedale dopo un incidente e già all'epoca, quei ritmici bip mi innervosivano, martellansomi nel cervello quasi alla ricerca di una via d'uscita.
Aprii di scatto gli occhi e venni accecata dalla luce intensa di una lampada proprio sopra la mia testa. Istintivamente cercai di pararmi una mano davanti al viso, ma trovai entrambi i polsi legati con delle cinghie di cuoio a quello che sembrava essere un lettino di ospedale. Lo stesso era per i piedi, anche quelli stretti in corrispondenza delle caviglie. Non forzai oltre: avevo paura che se lo avessi fatto sarebbe successo qualcosa..forse era la prima volta che l'istinto di sopravvivenza di faceva sentire dentro di me.
Pian piano gli occhi si abituarono alla luce e, ingordi di nuovi spazi, ingurgitarono tutto ciò che riuscirono a cogliere della stanza: le pareti bianche, il lettino sul quale ero stesa, il camice azzurro che mi era stato messo addosso, i macchinari, le lampade e l'uomo in camice bianco seduto su una sedia alla mia sinistra con in mano una cartellina verde. Era sulla quarantina, gli occhi azzurri ghiaccio e i capelli di un biondo molto chiaro. Sul viso aveva dipinto un sorriso gentile, ma qualcosa in lui mi diceva che non dovevo fidarmi.
"Come ti senti, Hope?"
Nella testa rimbombavano domande, ricordi, l'immagine della morte di mio fratello. A quel pensiero strinsi i pugni e il ritmo riprodotto dalle macchine aumentò esponenzialmente, finché qualcosa non mi si piantò nel braccio e tutto tornò ad essere nero.


"Ora sei più tranquilla?"
La luce mi colpii violentemente ancora una volta, ma abituarsi fu più facile di prima, tanto che iniziai a cogliere i particolari della stanza e a concentrarmi anche sulle sensazioni che coinvolgevano gli altri sensi oltre alla vista. Ad esempio l'odore pungente di disinfettante che mi riempiva le narici fino a farmi girare la testa.
Annuii stordita, cercando un'altra volta, invano, di portarmi le mani alla fronte. Guardai il dottore con fare interrogativo e lui sorrise gentilmente come prima.
"Allora, adesso mi vuoi dire come stai?"
Anche la sua voce era gentile, ma dietro quell'azzurro ghiaccio degli occhi riuscivo a intravedere l'oscurità. Era sempre stata una mia abilità quella di vedere negli occhi della gente: gli occhi sono lo specchio dell'anima dopo tutto, no?
"Mi gira la testa" dissi fredda.
L'uomo annuì e, facendo scattare un'elegante penna grigia, scrisse qualcosa sulla sua cartellina verde, per poi richiuderla con l'elastico e poggiarla sul mobile al suo fianco. Lì vi erano posati vari attrezzi metallici di cui ignoravo la provenienza: pinze, tenaglie e altre cose di cui preferivo non conoscere l'utilizzo. Qualcosa mi diceva che, di certo, non erano lì per bellezza, ne' tanto meno per farmi il solletico.
"Ti ricordi qualcosa, Hope?"
Aggrottai la fronte. Per quale motivo sapeva il mio nome?
Stavo per aprire bocca e chiederglielo quando, quasi mi avesse letto nel pensiero, estrasse dalla tasca il piccolo pezzo di carta igienica sul quale erano scritte le mie confessioni. La cosa strana fu che, alla vista immediata, non lo riconobbi, ma pian piano i ricordi che affioravano si mostravano sfocati o quasi inesistenti. Ricordavo di aver scritto qualcosa, non ricordavo cosa.
"Poco e tutto sfocato."
jerichoGli avevo dato la risposta che voleva. Si rimise il foglio in tasca, mi sorrise un'ultima volta ed uscì compiaciuto dalla stanza, chiudendo la maniglia della porta con uno scatto.
Questa volta non tentai di dimenarmi, ma con gli occhi esplorai ancora un po' la stanza, fino a notare una vetrata alla mia destra. Oltre quella scorgevo un altro lettino. Sopra vi era steso un ragazzo: i capelli erano mossi, biondicci, il viso contratto in una smorfia di dolore. Intorno a lui una manica di dottori operavano attorno a un apparecchio.
Con una lentezza felina, una delle dottoresse gli pose una barra circolare di metallo attorno alla fronte, mentre un altro attivò il macchinario. La cosa terribile fu lo sguardo implorante che mi rivolse il ragazzo poco prima che venisse percorso da scariche elettriche. 
Urlai e mi dimenai, chiamai aiuto, ma le persone che entrarono in stanza non erano certo lì per portarmi via. Non feci nemmeno in tempo a guardarli negli occhi, a memorizzare i loro visi, che la morfina iniettata fece subito effetto e caddi in un altro vortice nero.

  
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