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Autore: Primrose Everdeen    02/12/2012    1 recensioni
Arthur/Alfred
"Gli era stato assegnato il compito di apprendere attraverso un tirocinio di sei mesi sul set di un film con uscita prevista per l’anno successivo. Un vero set. Ad Hollywood. Ad ottomilasettecentosessantotto chilometri da Londra."
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NO WAY OUT


 

La valigia resta vuota, immobile, ammonitrice sul pavimento del salotto. Arthur sa che avrebbe dovuto iniziare a riempirla già da tempo, ma non ha mai trovato il momento adatto. Si è instaurata una tacita disputa, fra lui e il bagaglio. Per quanto Arthur possa essere definito paranoico, è certo che l’oggetto resti così in vista, non perché inanimato e abbandonato lì da fonte esterna, ma per potergli ricordare, più frequentemente del dovuto, la sua imminente, sgradita, partenza. E quando, dalla sala da pranzo, gli cade l’occhio sui tessuti grigi della grande borsa, è assolutamente convinto che ella guardi indietro con aria saccente. E subito rimonta in lui rabbia per gli sgradevoli avvenimenti grazie ai quali la sua tranquilla vita da studente universitario di letteratura moderna è stata stravolta.

È riuscito a eccellere, in ogni momento della sua esistenza, nel campo dello studio. Poi, a un esame dalla laurea, è inciampato in quella che preannuncia di essere la disavventura più grande della sua vita.

Gli è stato assegnato il compito di apprendere attraverso un tirocinio di sei mesi sul set di un film con uscita prevista per l’anno successivo. Un vero set. Ad Hollywood. Ad ottomilasettecentosessantotto chilometri da Londra.

Non è certo sia celato un vero senso educativo, dietro questa proposta di formazione. È più che altro sicuro sia un’opportunità ricavata da motivazioni strettamente legate a quei pensanti finanziamenti che gli studi di Hollywood procurano ogni anno alla sua università.

Arthur è pronto al peggio da mesi, oramai. Così tanto tempo, in mezzo ad americani, in territorio americano, e se anche non fosse questo il vero problema, magari è che di cinema lui non se ne intende più di un qualunque venticinquenne che trova comodo portare la sua ragazza a vedere un film romantico di serie B, perché dopo risulta più propensa a dimostrargli amore con una notte di passionale sesso. Ha come la sgradevole sensazione che, nonostante il suo ruolo si dovrebbe attenere a “semplici” mansioni da aiuto-regista, finirà col doversi occupare di competenze non sue, sulle quali non può dire di avere neanche un minimo di esperienza. E che un Kirkland sia impreparato in qualcosa, è l’apoteosi dell’assurdo e del disonore. Forse anche per questo, da giorni, certamente da più tempo della valigia, uno dei suoi tavolinetti da tea preferiti è stato completamente occultato da dvd noleggiati e libri sulla storia del cinema americano, che Arthur si è deciso a studiare, ma con tanta malavoglia che spesso si trova a dover interrompere e ricominciare d’accapo la lettura, perché troppo preso nel progettare irrealizzabili vendette contro il fato, lascia al sua mente vagare e la concentrazione raggiunge il minimo sindacale mai ottenuto in dieci anni di studio.

Sa che non ricaverà nulla da quel progetto, a differenza di ciò che dicono i suoi professori.

Mentre si appunta mentalmente di acquistare una valigia nuova solo per non darla vinta al fastidioso bagaglio sul pavimento del salotto, il cellulare riposto sul ripiano della cucina vibra con una tale violenza da rischiare un volo sul pavimento.

Arthur è tentato di non rispondere, quando trova il nome del suo professore di letteratura lampeggiare sullo schermo. Poi cede, perché infondo, per la prima volta, Francis Bonnefoy potrebbe essere sinonimo di salvezza, anziché disgrazia.

«Com’è andata? Ottenuto qualcosa?» Arthur lo aggredisce trepidante, non in vena di convenevoli.

«Sì. Sì, c’è stata una svolta. Migliore di quanto tu potessi mai sperare», Francis sembra serio. E Arthur se lo concede, un piccolo sorriso di aspettativa.

«Hanno annullato il progetto?», chiede, la speranza che riaffiora in lui. Quasi è felice di aver calpestato malamente il suo orgoglio per abbassarsi a chiedere aiuto a quel donnaiolo inaffidabile di Francis Bonnefoy.

«Meglio. Parto con te»

Le dita di Arthur stringono tanto attorno al piccolo cellulare, che le nocche gli diventano bianche. Con le labbra contratte in una linea sottile, non riesce a pensare a un insulto che descriva con precisione ciò che prova. Non crede ne esistano di tanto tremendi, in effetti. Per questo riattacca, senza emettere alcun suono, e fissa il vuoto per altri dieci minuti, il tempo di terminare il suo tea. Poi posa la tazza sul ripiano della cucina, e il primo impulso che prova è di andare sin nel salotto e prendere a calci la valigia finché non sente la rabbia scemare. Ma sarebbe poco dignitoso, così si passa una mano fra i capelli in un gesto frustrato, non sapendo più bene cosa fare della sua vita. Sente distintamente l’ultima goccia di ottimismo disperdersi nel mare della sfortuna.


 


 


 

Arthur è convinto che il suo mal d’aereo non consista in una tensione psicologica che si manifesta tramite un disagio fisico. Lui sa che la spossatezza che prova durante il volo è una semplice constatazione della realtà: lui non può allontanarsi dall’Inghilterra. Nel suo codice genetico non è presente un’informazione che gli permetta di lasciare quell’isola, appartiene a quel luogo nello stesso modo in cui vi appartiene il Big Ben. E l’idea del Big Ben che prenda un aereo e voli fino ad Hollywood è semplicemente sbagliata. Contro natura.

Appena mette piede in aeroporto, tutto ciò che vorrebbe fare è andare nel bagno a vomitare tutti i pasti della settimana passata. Ha avuto il buon senso di non mangiare sull’aereo, ben sapendo che anche con le migliori intenzioni la pressione non gli avrebbe mai permesso di far arrivare il cibo fino allo stomaco.

Francis lo spinge verso il nastro bagagli. Alla fine Arthur ha davvero comprato una nuova valigia, lasciando quella vecchia sulla moquette del salotto. Sfidare un Kirkland non è mai una buona idea.

Fuori dal gate c’è talmente tanta gente che Arthur non ha neanche il tempo di sentirsi disorientato. Un colpetto sulla schiena richiama la sua attenzione, e Francis gli indica un cartello bianco che continua a comparire e scomparire sopra la folla. C’è scritto Kirkland, in una grafia appena leggibile, curvata bizzarramente verso sinistra. Vi si avvicinano il più possibile, aggirando il mare di folla e arrivando alle spalle di un piccolo ragazzo, che spera di compensare la sua poca visibilità in quel tumulto di gente per mezzo di saltelli regolari che gli fanno acquisire circa dieci centimetri di vantaggio.

Francis si schiarisce la voce, perché in base a una regola di ego, lui non ha bisogno d’impegnarsi nel farsi notare, devono essere gli altri ad accorgersi della sua poco ignorabile presenza. Ma il ragazzo non pare sentire, e Arthur manda uno sguardo irritato a Francis perché non perde la sua vanità neanche nel primo attimo di respiro dopo undici ore di viaggio in aereo. Picchietta due dita sulla spalla dell’affannato saltatore. Il ragazzo si gira, ma è ancora a mezz’aria e prende un forte colpo al collo che si manifesta con uno schiocco secco.

«Aruuu», geme frastornato. Inspira dolorosamente, e la fitta alla nuca gli blocca ogni movimento del collo per i successivi attimi, quindi ha tutto il tempo di strizzare gli occhietti a mandorla e guardare crucciato verso Arthur.

Anche l’inglese geme, per riflesso, perché ha sentito lo schiocco così distintamente che gli sono venuti i brividi.

«Dimmi che non sei tu, la persona che sto aspettando», parla infine il ragazzo. Ha un tono di voce buffo, e forse è furioso, ma l’accento è così strano che Arthur non ci fa molto caso. Il ragazzo non è veramente troppo basso. Arriva giusto pochi centimetri sotto il naso di Arthur.

«Non…uhm…ma-»

«Lo so già! È ovvio che sia tu. Il tuo aspetto grida “Inghilterra” da chilometri di distanza». Arthur lo trova buffo, detto da un cinese che, col suo abito tradizionale di raso rosso e i sottili capelli neri legati in una coda bassa adagiata su una spalla, non sembra avere molta voglia di arrivare a un compromesso con la nazione straniera in cui si trova.

«E tu devi essere quell’idiota che ha pensato bene di aggregarsi all’ultimo minuto, come fosse un villaggio vacanza. Mettendoci nei guai con le sistemazioni», e Francis ottiene un’attenzione sgradita, come poche volte è accaduto nel corso della sua esistenza. «Francis Bonnefoy», risponde a tono ringhiando ogni sillaba, intimando l’orientale di rammentarlo bene.

«Wang Yao, e mi auguro tu non senta mai la necessità di ricordarlo». Yao pronuncia queste parole già avviato verso le porte d’uscita. Ha afferrato un trolley a caso fra quelli che Arthur e Francis avevano faticosamente raccolto attorno a loro, e lo trascina con foga verso l’uscita.

Arthur ha provato a convincersi che in realtà l'aereo non si era mai spostato da Londra. Che questo è solo lo stesso aeroporto dal quale è partito, perché si sa che se desideri qualcosa con tutto te stesso, essa si realizza.

Ma le porte scorrevoli si aprono, il sole si riflette sui parabrezza di una lunga coda di taxi, il chiasso della metropoli tuona, e tutto passa in secondo piano di fronte a quell'unica, importante, realizzazione: Nessuna Via D'uscita.


 


 


 


 


 

Okaaay, questa è la mia prima fanfiction, o addirittura un primo tentativo di scrittura che richiede tanta saggezza e attenzione çwç quindi, uhm...le recensioni e le critiche sono gradite, ma più che altro necessarie, quindi sì, uhm *non sa che aggiungere* E' che mi piacerebbe discuterne con qualcuno çAç Anche perché sono molto brava a demotivarmi, quindi ho bisogno di supporto psicologico uAu

  
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