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Autore: Beatriz Aguilar    02/12/2012    0 recensioni
Quanto veramente i sogni sono lontani dalla realtà? Forse, solo pochi anni.
Genere: Dark, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GIORNO 1
L’indomani mattina mi dissi che era stato solo un incubo, e che non dovevo preoccuparmi. Non raccontai nulla a nessuno, anche perché mi avrebbero semplicemente presa per pazza. A scuola come al solito rimasi da sola, era uno di quei periodi in cui il “gruppo” mi aveva esclusa e io avevo un misto di rabbia e risentimento tanto confusi da non avere nemmeno voglia di avvicinarmi agli altri bambini. Preferivo starmene seduta da sola a meditare, tanto di cose cui pensare ne avevo per così, compreso il bizzarro incontro della notte precedente. 
Ogni tanto qualcuno arrivava per chiedermi come stavo, ed io liquidavo tutti gentilmente con un sorriso e dicevo di avere “un po’ di mal di testa”. Quando di tanto intanto alzavo lo sguardo, vedevo il gruppetto delle mie tre “migliori amiche” ridere e divertirsi tra di loro, poi guardarmi e sussurrarsi qualcosa all’orecchio. Le avevo provate tutte in quegli anni, per far sì che quattro fossimo e quattro rimanessimo, ma più ci provavo più sembrava che mi allontanassero. Giorgia, Francesca e Chiara erano lo specchio della società. La cattiva, la scagnozza, la debole. Poi c’ero io, che per semplificare le cose potrei definirmi la buona, anche se di certo contavo i miei difetti. Di solito succedeva che Giorgia fosse contro di me, Francesca era dalla parte di Giorgia ma, ogni tanto, si faceva prendere dai sensi di colpa e veniva da me per qualche giorno, poi c’era Chiara che stava di solito sempre con me, ma quando le cose si facevano dure, batteva in ritirata tra i più forti. Infine c’ero io, molte volte rimanevo fuori dal gruppo, e mi sembrava di ritrovarmi circondata da stupidi e dementi che non capivano che avere tre amici fosse meglio che avere due amici e un nemico. Tolto ciò ripensai alla frase del mio nuovo “amico” incontrato in un altro universo, l’universo della Mia Cameretta. “So che tu vuoi morte delle persone”. In effetti, non era del tutto una cavolata. Se avessi potuto afferrare per il collo quella vipera di nome Giorgia e soffocarla, l’avrei fatto. Ma le altre due, a dire la verità mi facevano pena, e l’ultima delle tre che avrei voluto vedere sepolta era Chiara, tanto più che era l’unica delle tre con cui litigavo meno.  In una cosa però la disprezzavo: che fossi così debole da non riuscire mai a capire da che parte stare, anche quando era palese che l’unica che tenesse per davvero a lei fossi io, e che Stefania se la lecchinasse solo per aver il gruppetto più numeroso. Se avessi avuto qualche anno di più, avrei sputato per terra a quel pensiero, ma a 11 anni ero una bambina troppo depressa e autolesionista per provare così tanto disprezzo e spesso provavo sensi di colpa anche per qualcosa che non centrava nulla con me. Una cosa però non ero di certo. Non ero scema. E capire certe cose, mi faceva stare anche peggio. Per esempio sapere che ci fossero bambine così cariche di veleno come Stefania, quando all’età di undici anni, il veleno dovrebbe rimanere ancora distante dai nostri cuori. 
Quando tornai a casa, ero triste, sì, ma ancora con la testa tra le nuvole.  Quel colloquio notturno era riuscito a occupare buona parte dei miei pensieri, e mi aveva impedito di piangere durante il giorno. Versai solo due lacrime quando mi coricai, sputando tre parole cariche di astio prima di sprofondare nel sonno “io vi odio”. Mi sorpresi di quanto velenose fossero quelle tre parole uscite dalla mia bocca, e pregai Dio che il veleno delle vene di Stefania, non avesse contagiato anche il mio sangue. 


NOTTE UNO
Non so come mi trovai lì, non so come diavolo facessi a sapere che ero più grande, che avrò avuto 14, 15 anni ma lo sapevo e basta. Attorno a me tutto aveva colori spenti e marci. I rami degli alberi erano cadaveri imponenti, che tiravano verso il basso come spinti da una forza gravitazionale molto maggiore da quella normale. Gli aghi dei pini sembravano appesi come per miracolo, ma molti si erano arresi a terra nei paraggi del tronco marcio e umido. Il cancello d’ingresso della nostra scuola elementare, sempre stato colorato di un bel verde vivace, sembrava aver perso tutto il suo colore, era rivestito di ruggine e le uniche macchie di verde rimasto erano un vago ricordo di ciò che rappresentavano un tempo. Il lucchetto era chiuso, sì, ma solo da una parte del cancello, quindi questo era aperto, e il vento faceva cigolare in modo spettrale la parte destra.
Oltrepassai quel terribile varco, per rendermi conto di non essere sola, ma di avere dietro di me le mie tre amichette, più grandi anche loro. Nessuna di noi aveva il coraggio di parlare. Nessuna di noi pensava fosse utile farlo. Camminammo per la discesa, lunga circa 150 metri e arrivammo allo spiazzo davanti all’entrata. Era sempre stata una scuola piuttosto invidiata per gli spazzi che aveva: davanti all’entrata c’era una bella zona per giocare, in asfalto con i giochi disegnati per terra, dove bisognava saltare con una o due gambe. Verso destra c’era un’aiuola con alcuni alberi e dei fiori (ora tutti appassiti) dalla parte sinistra invece si trovava un corridoio piuttosto ampio tra un muro e la parete della scuola, spesso usato per le gare di corsa a ricreazione. Sia da destra sia da sinistra si arrivava, camminando intorno alla scuola, alla pineta. Il posto sicuramente più bello di tutti, dove sembrava ci fossero importanti luoghi segreti da esplorare durante la ricreazione oppure, dopo la scuola. La pineta limitava a sinistra con un muro e una rete metallica, che la separava da un prato con un campo da calcio antistante, usato però per veri allenamenti. Frontalmente c’era un campo da calcio in asfalto, e dei giardinetti ampi con uno scivolo e alcuni giochi per arrampicarsi, che le maestre ci proibivano di utilizzare, per paura che potessimo farci del male. 
Mentre mi guardavo intorno per ricordare come fosse la scuola un tempo, notai che ora ne era rimasta solo una carcassa nera e in putrefazione. Alcuni dei vetri erano rotti, la tettoia dell’entrata era semidistrutta, e il vetro della porta aveva una grossa venatura. 
Comunque non c’era anima viva. Non c’era nessuno. Solo noi quattro, con una malsana curiosità di entrare in quel luogo dismesso. Non mi accorsi di stare spingendo la prima porta per entrare e poco dopo di aver mosso anche l’altra e ora di trovarmi all’interno. Non vi era segno della scuola che frequentavo, con i cartelloni appesi e i colori vivaci, Tutto lì dentro trasudava morte, era tutto cadaverico e putrefatto. Mi guardai intorno. Davanti a me la vetrata che dava sulla pineta era coperta dalle tende, una volta bianche, ora giallastre, squarciate e cadenti qua e là, che lasciavano entrare squarci di luce fioca e spenta affilati come le lame dell’ascia della Morte. A destra, dove si trovava la porta per accedere alla stanzetta nella quale si trovavano uno o due bidelli e la fotocopiatrice, era chiusa, e dalla feritoia di vetro opaco della porta si vedeva solo una striscia rossa e viscosa, dalla quale distolsi immediatamente lo sguardo prima che il mio cervello associasse quell’immagine a qualcosa. Non so nemmeno io a cosa pensai, ma decisi di muovere i miei primi passi verso sinistra, la mia ala di scuola. All’ala destra, dove stavano le prime e i refettori non ci pensai nemmeno per un istante. La sala professori era aperta, con le sedie rovesciate e il tavolo pieno di polvere. Il banchetto dove sedeva la bidella di turno, era mezzo carbonizzato e della sedia non c’era traccia. Andai più avanti e arrivai alle scale, quando le salii, mi ritrovai al mio piano, ma il soffitto era stranamente basso e c’erano più colone di quante me ne ricordassi in realtà. Prima che potessi girarmi, mi ritrovai invece in pineta, come se mi fossi teletrasportata, o se come se l’avesse fatto qualcun altro per me. Gli alberi erano giganteschi e sembrava che potessero abbattersi su di me in un istante. Il cuore mi batteva all’impazzata, carico d’ansia e di paura e pensai che sarei svenuta da un momento all’altro. Mi misi a correre senza pensare, non ricordo se fossi sola o meno, corsi, corsi e basta. Mi ritrovai nel corridoio che veniva usato per le gare di corsa, mi girai verso le finestre che davano nell’aula di musica. C’erano anche lì delle tende giallastre, il che era strano dato che in quell’aula non vi erano mai state tende.  Mi avvicinai con circospezione, piano. Provai a guardare dentro a distanza ma non vidi nulla, all’interno era tutto buio. Individuai un punto in cui la tenda era sufficientemente strappata da permettermi di controllare, così attaccai le mani al vetro  per respingere i riflessi e poggiai la fronte alla finestra fredda e umida. Ci misi un po’ a mettere a fuoco, dovetti rimanere così per qualche secondo.  Vidi qualcosa penzolare davanti ai miei occhi, ma non capivo cosa. Piano piano la figura girò e capì cosa fosse: Era un corpo esanime, il corpo esanime di un bambino. Aveva gli occhi sbarrati che mi fissavano e la faccia era già mezza putrefatta. Mentre rimanevo a fissare quella visione, tremavo come una foglia fino a quando una mano insanguinata si stampò sulla finestra, esattamente davanti alla mia faccia e lasciò una strisciata di sangue. A quel punto indietreggiai, ma sapevo che ero intrappolata lì dentro, che non potevo uscire da quella casa degli orrori. Mi ero allontanata dalla finestra e mi veniva da vomitare da quanta paura provassi. Purtroppo sentivo l’ansia crescere continuamente, avevo paura che succedesse qualcosa, che qualcuno mi afferrasse le spalle. Invece le tende vennero tirate giù una dopo l’altra e le mani insanguinate si moltiplicarono tracciando linee di sangue sulla lunga vetrata. I tonfi che provocavano erano talmente violenti che per un momento pensai che avessero tirato giù il vetro. Poi piano scomparvero così come erano apparse e mi resi di conto della scritta: “SVEGLIATI”.
Mi ripresi di colpo, tremavo e mi veniva ancora da vomitare. Rimasi immobile per un po’ nel mio letto, poi corsi dai miei. 
  
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