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Autore: Ginny85    20/06/2007    13 recensioni
Tokyo, 6 Gennaio. L’assassino di Matsuda è stato catturato e Miwako può finalmente dire addio al passato, ai rimorsi e al suo amore perduto. Ma è davvero finita? Se ci fosse ancora qualcuno pronto a riaprire una vecchia ferita non del tutto rimarginata, e a portarle via per la seconda volta la persona che ama?
“Tu non hai paura del passato, Miwa?”
Di nuovo quella voce dall’oltretomba. Un brivido gelido e doloroso, un brivido che non era certa fosse dovuto al vento tagliente di gennaio, attraversò il suo corpo. [...] Un secondo dopo, qualcosa di caldo le coprì le spalle, scacciando quei fremiti. Una giacca da uomo. Una fragranza familiare la investì. Sato si voltò sorpresa, ritrovandosi davanti il suo sorriso. Un po’ infantile, un po’ impacciato. Ma tanto dolce. [...]
Genere: Romantico, Drammatico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Miwako Sato, Wataru Takagi
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Per quanto desideri chiamarmi Gosho Aoyama e possedere Takagi e compagnia bella, purtroppo sono solo Ginny85, e non detengo alcun diritto su questi personaggi, nè sulla storia. Quello che pubblico lo pubblico senza scopo di lucro, ma solo per divertimento.

Salve!
Eccomi qua con la mia prima one-shot su Detective Conan. Poichè si rifà ad alcuni episodi tramessi in televisione di recente, prima è meglio che fornisca un pò di informazioni preliminari:

Titolo: In my soul.
Personaggi: Miwako Sato, Wataru Takagi.
Genere: Azione, Romantico, Drammatico.
Rating: PG13.
Ambientazione: La one-shot prende in considerazione gli ultimi episodi che la Mediaset ha trasmesso e che hanno avuto come protagonisti Sato e Takagi. Per chi non li avesse visti (in effetti sarebbe stato un peccato perderli perchè erano molto belli ^^) in questi episodi si parla dell'amore perduto di Sato, un certo Matsuda, morto in servizio a causa di un pazzo terrorista deciso a vendicarsi della polizia di Tokyo. La one-shot è ambientata alla fine della quarta parte dell'episodio: "Dipartimento di polizia in sospeso: 12.000.000 di ostaggi", in cui Sato (con la collaborazione di Conan e Takagi) cattura il malvivente, decidendo alla fine di lasciarlo in vita nonostante il forte desiderio di vendetta, e di assicurarlo alla giustizia. Nota importante: Nonostante sia consigliabile, non è necessario aver visto gli episodi di cui accennato, perchè la storia si regge benissimo da sola ed è perfettamente comprensibile senza conoscere cosa c'era prima.

Beh, credo di aver detto tutto. A proposito, il testo che ho usato come 'colonna sonora' è la bellissima "Sei nell'anima" di Gianna Nannini. Vi consiglio di ascoltarvela mentre leggete, perchè è davvero significativa.

Buona lettura!

Ginny85.

In my soul
Di Ginny85



Vado punto e a capo così
Spegnerò le luci e da qui sparirai
Pochi attimi
Oltre questa nebbia
Oltre il temporale
C’è una notte lunga e limpida,
Finirà

Ma è la tenerezza
Che ci fa paura

Sei nell’anima
E lì ti lascio per sempre
Sospeso
Immobile
Fermo immagine
Un segno che non passa mai

Vado punto e a capo vedrai
Quel che resta indietro non è
Tutto falso e inutile
Capirai
Lascio andare i giorni
Tra certezze e sbagli
E’ una strada stretta stretta
Fino a te

***

Il detective Wataru Takagi chiuse gli occhi, godendosi tutto il calore che la vicinanza col corpo di lei gli procurava: un paradiso per i sensi. Nonostante la situazione non glielo avrebbe normalmente concesso, per la prima volta da che la conosceva, per la prima volta da quando l’amava, si sentì felice. Un senso di soddisfazione, di appagante sollievo, lo pervase, colmandolo di sentimenti positivi, di nuova speranza.
Così, per la prima volta senza sentirsi stupido, o di troppo, o eccessivamente ottimista, seppe che poteva farlo: strinse ulteriormente la presa intorno alle sue spalle magre, libero di abbracciarla senza remore, incurante del fatto che entrambi erano seduti sul terreno umido di un vicolo sudicio, con un pazzo squilibrato semi svenuto dallo spavento a pochi metri da loro.
Ti amo... ti amo tanto...
Con la calma nel cuore, ascoltò i suoi lievi singhiozzi, il suo ripetere tra le lacrime il nome di Matsuda, ma senza per questo sentirsene minacciato. Perché ormai era finita. Si accorse anche senza problemi delle gocce di devastante dolore che gli stavano bagnando la camicia appena ritirata dalla tintoria. Non che al momento gli importasse qualcosa, della camicia.
Sorrise, e con le dita scostò alcune ciocche di capelli scure come l’ebano che le erano finite sul viso dai lineamenti delicati, così femminili.
“Ehi, è finita,” mormorò, rivolto a lei. “Ora non devi più avere paura di nulla, Sato-chan. Te lo prometto.”
La sentì trasalire lievemente tra le braccia, e il suo sorriso trovò nuova luminosità. Il detective Miwako Sato alzò il capo dal suo petto; gli scuri e ammalianti occhi a mandorla incrociarono i suoi, azzurri e sinceri come quelli di un bambino. Innamorati, come quelli di un uomo.
“Takagi...” pronunciò il suo nome, abbassando lo sguardo lucido sulle sue labbra.
Per un attimo sembrò smarrita, a disagio. Poi, senza preavviso, fece per accostare il viso al suo. Takagi deglutì, preso dal panico per il gesto intraprendente di lei: oh, aveva sognato tante, troppe volte, di ricevere un bacio dalla bella Sato, eppure al momento la sua mente era terribilmente sgombra, il cuore martellante e il respiro accelerato, e tutte le sue migliori intenzioni di reagire erano precipitate in un devastante stato di inerzia. Ragion per cui preferì rimanere scioccamente immobile, le iridi ridotte a due puntini sgranati, deglutendo a tratti il vuoto più totale, mentre le mani calde e affusolate di lei gli afferravano dolcemente il volto, i suoi occhi pieni di stelle si socchiudevano e le sue labbra rosse e carnose si facevano vicine, deliziosamente vicine...
“SATO! TAKAGI! Cos’era quello sparo?!”
La voce baritonale dell’ispettore Megure, sbucato all’improvviso da dietro il muro, pose fine a quel sogno ad occhi aperti.
Takagi sentì con grande delusione il calore del suo respiro abbandonare le sue labbra. Le mani calde di Sato scivolarono rapidamente via dal suo viso, andando ad aggrapparsi invece dalle parti del colletto. Con un poderoso strattone, la poliziotta si sollevò in piedi trascinandoselo dietro con ben poca grazia. Quindi si voltò verso il loro superiore, rispondendo con una risata che tradiva il suo nervosismo:
“Non era nulla ispettore, solo un colpo di avvertimento per impedirgli di fuggire...”
“Già, è andata proprio così, ispettore!” Rincarò un agitato Takagi, una mano premuta dietro la nuca e un sorriso ebete stampato sul volto rosso come un’aragosta.
I piccoli occhi color del carbone di Megure scrutarono a lungo e con gravità i due agenti. Nonostante non avesse potuto in nessun modo capirlo dalle loro espressioni innocenti, non sembrava troppo convinto della versione dei fatti data dalla detective. E per un preoccupante momento, Takagi ebbe la sgradevole impressione che l’ispettore avesse capito perfettamente cosa fosse successo pochi minuti prima, in quel vicolo.

***

6 Gennaio, Tokyo.

Miwako Sato seguì con espressione indecifrabile i due agenti mentre accompagnavano il terrorista ammanettato alla macchina di pattuglia e lo facevano salire senza gentilezza. L’uomo continuava a piagnucolare come un neonato, singhiozzando a tratti e biascicando giustificazioni incomprensibili a chiunque gli capitasse a tiro. Ad un certo punto, con un grido strozzato, giunse persino a dichiararsi innocente.
Ipocrita.
La donna strinse le labbra, aggrottando la fronte mentre un lampo d’odio le passava involontariamente negli occhi scuri.
In silenzio osservò l’automobile accendere il motore e partire, seguita da altre due o tre auto-pattuglie che sfrecciarono ben presto nel traffico pomeridiano di Tokyo.
A quel punto si permise di calmarsi, rilassando le spalle e sospirando ad occhi chiusi per scaricare l’ansia accumulata fino a quel momento.
E’ finita, continuava a ripetersi dentro. Stranamente però, adesso non stava provando la pace tanto anelata. Non si sentiva affatto tranquilla. Sato si morse il labbro inferiore. Cos’era? Cos’era quell’improvviso brutto presentimento, quel senso d’incompletezza? Eppure l’assassino di Matsuda era stato preso. L’incubo era cessato. Era finita. Sì, era finita.
“Ne sei sicura, Miwa?”
Sato spalancò lievemente gli occhi scuri, sorpresa di risentire ancora quella voce maschile che le parlava all’anima, la voce della persona che aveva disperatamente tentato di dimenticare, senza tuttavia riuscirci. Forse Takagi aveva davvero ragione...
“E invece no, Sato, non devi dimenticarlo. Soprattutto se è così prezioso. Se cancellerai il suo ricordo, la persona che hai tanto amato se ne andrà dal tuo cuore...”
Era davvero impossibile dimenticare il passato, si chiese, lasciare che smetta di tormentarci?
“Tu non hai paura del passato, Miwa?”
Di nuovo quella voce dall’oltretomba. Un brivido gelido e doloroso, un brivido che non era certa fosse dovuto al vento tagliente di gennaio, attraversò il suo corpo. Il suo cuore perse un colpo, agguantato in una nuova morsa d’acciaio.
Matsuda...
Un secondo dopo, qualcosa di caldo le coprì le spalle, scacciando quei fremiti. Una giacca da uomo. Una fragranza familiare la investì. Sato si voltò sorpresa, ritrovandosi davanti il suo sorriso. Un po’ infantile, un po’ impacciato. Ma tanto dolce.
“Ho pensato che potessi prendere un raffreddore, con questo freddo,” fu tutto quello che le disse un Takagi rimasto in maniche di camicia, limitandosi poi a scrutarla con atteggiamento da medico consumato. “Ti senti bene?”
Lei annuì, chiudendo per un attimo gli occhi. “Sì,” rispose. “Adesso sì.”
“Bene. Ehm...”
Takagi esitò, fissandosi per un tempo incredibilmente lungo la punta delle scarpe. Alla fine scoppiò a ridere, la mano premuta sulla nuca.
“Oh, sono davvero un’idiota!” esclamò di punto in bianco.
Sato fece un’espressione perplessa, decidendosi finalmente a guardarlo. “Che cosa dici? Perché dovresti essere un’idiota?”
Takagi si fece avanti, sfiorandole il viso con la mano in un gesto che la confuse e la colpì intimamente.
“Devo chiederti scusa, Sato-san. Non avrei dovuto schiaffeggiarti,” mormorò il ragazzo.
Lei socchiuse le labbra, incerta; dopodiché sorrise, scotendo la testa e lasciando che quel sorriso si tramutasse in una trillante risata.
“Non preoccuparti, detective. Tu non hai fatto nulla di male. Sono io che devo chiederti scusa per essermi comportata in modo… poco professionale, diciamo.” Gli scoccò un’occhiata fortemente maliziosa. “Per questa volta dimenticherò di far rapporto ai superiori.”
Takagi fece una risatina forzata, rosso in viso. “M-Meno male! Ehm, comunque, Sato-san...”
Diventò improvvisamente serio. Le prese le mani abbandonate lungo i fianchi e lei scorse una ferma risoluzione nel suo sguardo. Il suo cuore tornò a battere forte forte. Solo una volta ancora le era stato così vicino, ed era successo pochi attimi prima, in quel vicolo, quando stava per baciarlo...
“Volevo dirti che era più che comprensibile che reagissi così,” affermò lui, gli occhi azzurri che l’accarezzavano, la comprendevano e la perdonavano come nessun’altro in tutta la sua vita. “Anch’io probabilmente lo avrei fatto. E’ perfettamente umano. L’importante è riuscire a lasciarsi indietro il passato, ma solo quello che ci fa male, capisci? Il resto dobbiamo conservarlo nel nostro cuore, perché è parte di noi. Il passato ci rende quello che siamo… nel tuo caso, una persona meravigliosa.”
Miwako arrossì senza volerlo e lo fissò negli occhi, palesemente scossa. “Takagi...”
La stretta delle sue mani ruvide aumentò, dolcemente. “Sato...” disse lui, accigliato e serio come non l’aveva mai visto prima d’ora. Il ragazzo deglutì, accingendosi a fare quello che si era ripromesso ormai da diversi giorni.
“C-Che ne dici di venire a cena con me, stasera?” domandò in tono allegro e un poco impacciato. “Ti farà bene distrarti un po’. E poi, ti devo dire una cosa importante...”
Un lampo di rinnovato e inspiegabile timore attraversò per un attimo gli occhi di Sato. Ma perché era tanto preoccupata? Era comprensibile, per non dire naturale, che lui volesse chiarire la loro situazione, adesso che... beh, considerato quello che lei stava per fare in quel vicolo...
“Va bene,” rispose, ignorando l’insicurezza e sorridendogli gentilmente. “Accetto volentieri il tuo invito.”
Il volto di Takagi s’illuminò, tradendo un’incommensurabile gioia che era quasi commovente.
“Dici davvero?”
Sato annuì, quasi divertita dal suo atteggiamento. Una puntura di rimorso le pizzicò il petto, ma lei la ignorò abilmente. Il suo sorriso restò immutato, come se nulla fosse.
“Ma è magnifico! Cioè, voglio dire... o-okay. Va bene, allora, ehm...” Esaurito il fiume di parole prive di senso, il ragazzo le lasciò andare le mani, in imbarazzo. “Ci vediamo alle otto alla fermata... anzi, no. Vengo a prenderti io... sì, alle otto sotto casa tua.”
“D’accordo. A stasera, allora.” Sato gli sorrise ancora, e per Takagi fu come toccare il cielo con un dito.
E’ fatta!, non poté fare a meno di pensare mentre la guardava allontanarsi a piedi nella foschia pomeridiana di gennaio. Stasera dovrai dirle quello che provi... costi quel che costi...

***

Nel frattempo, a circa un miglio da lì, un’ombra sedeva tranquillamente nell’abitacolo della sua auto parcheggiata, intenta ad ascoltare qualcosa attraverso un registratore ad alta frequenza collegato a due minuscoli auricolari.
L’ombra sorrise, scoprendo una fila di denti scintillanti.
Aveva vinto.
Ancora una volta, aveva dato del filo da torcere agli stupidi poliziotti, e aveva vinto anche quella sfida.
Ora restava solo una cosa da fare.
Ripensò allo scambio di battute che aveva appena ascoltato in quel vicolo.
Restava solo una persona che aveva voglia di incontrare, e lo avrebbe fatto al più presto. Magari – perché no? – quella notte stessa. Non aveva più senso aspettare, ormai.
Si passò la lingua sulle labbra sottili e cattive, assaporando il dolce sapore della vendetta finale.
Ora... gli restava solo lei da uccidere.

***

Dipartimento di polizia di Beika.

“Che cosa?”
La voce profonda dell’ispettore Megure era attraversata da una chiara nota di sbalordimento.
“Chiba, sei sicuro di quello che stai dicendo?” domandò, più bruscamente del dovuto, al suo subordinato.
Il poliziotto annuì, cupo in viso.
“In effetti, ispettore, ritengo sia una possibilità che avremmo dovuto prendere in considerazione anche tre anni prima,” commentò con rispetto. “Considerata la dinamica degli attentati, il tempo intercorso tra un’esplosione e l’altra e altri fattori, non è umanamente possibile che il criminale abbia agito nella maniera in cui inizialmente pensavamo noi.”
Megure si portò una mano alla testa celata dall’onnipresente cappello, sospirando esasperato.
“Dannazione, come abbiamo fatto a non capirlo? Quindi, mi stai dicendo che l’uomo che abbiamo arrestato oggi pomeriggio era solo uno specchietto per le allodole? Un’esca? Avete registrato la sua dichiarazione secondo cui ci sarebbe un altro complice, che poi è il vero responsabile degli attentati di tre anni fa e di oggi?”
Chiba annuì di nuovo. “Tutto l’interrogatorio è stato messo per iscritto e sarà riportato nel rapporto, ispettore. Il nostro uomo è ancora sotto shock e farnetica da quando è arrivato, purtroppo non ci ha fornito molte informazioni utili. Ma sappiamo per certo che era ricattato dal vero assassino ormai da mesi.”
“Molto bene. Mobiliteremo subito una squadra di ricerca. Intanto puoi andare, agente Chiba.”
L’uomo esitò. “Ehm, ispettore?”
“Cosa c’è ancora?”
“Non crede che dovremmo avvertire anche il detective Sato? Sa bene quanto questo caso fosse importante per lei...”
“D’accordo, Chiba. Ci penserò io.”
Dopo che l’agente fu uscito, l’ispettore Megure prese a percorrere a grandi e tormentati passi l’ufficio che gli era stato assegnato anni prima.
Questa non ci voleva, pensò, fermandosi di fronte alla finestra e scrutando accigliato le luci della città oltre il vetro trasparente. Purtroppo non è ancora finita...

***

Il molo era circondato da una foschia perlacea che abbracciava interamente la notte invernale. Quest’ultima si rifletteva sulla superficie immobile dell’acqua riflettendo le poche stelle che tempestavano il firmamento, mentre i lampioni accesi che costeggiavano la banchina bruciavano nell’acqua come fiaccole ardenti.
“Sicura che non hai freddo?”
“No. Te l’ho già detto, sto benissimo.”
Sato sorrideva, splendida nel suo abito da sera azzurro che lasciava nudi il collo e le spalle, solo uno scialle di lana a proteggerle dal vento pungente che gonfiava le vele delle navi ormeggiate al porto. Mentre passeggiavano tranquillamente, una coppia come tante altre, lei disse:
“Complimenti per il locale, detective. Era semplice e tranquillo, ma non eccessivamente sfarzoso,” gli rivolse un sorriso curioso e un po’ malizioso nel terminare la frase: “...proprio il tipo che piace a me.”
“Oh. S-Sono felice di aver azzeccato il genere,” replicò Takagi, arrossendo nella notte e ridendo un po’ scioccamente.
Nulla da fare, per quanto si fosse sforzato, il problema del fastidioso balbettio e quello delle guance che avvampavano per un nonnulla non ne aveva voluto sapere di abbandonarlo né al ristorante, né durante la romantica passeggiata sul molo. Eppure, Sato sembrava non farci mai caso. Gli sorrideva allegra da quando si erano incontrati quella sera, gli occhi luminosi e il bel viso libero da qualsiasi apparente preoccupazione o tormento. Avevano riso e scherzato insieme per tutta la cena, parlando del più e del meno, evitando di soffermarsi troppo sui difficili avvenimenti delle ultime ventiquattrore. Quello apparteneva al passato.
“E’ piacevole passeggiare qui, vero?” temporeggiò Takagi, rendendosi conto che stava glissando ormai da troppo tempo, e fin troppo consapevolmente, sull’argomento che gli interessava di più. “Il mare aiuta a rilassarsi...”
Subito dopo quelle sue parole, senza che lui se ne accorgesse, Sato si era chiusa in un malinconico silenzio, mentre percorrevano la strada costellata dai lampioni accesi il cui riverbero sul pavimento pietroso creava un’atmosfera piuttosto soffusa e irreale, nel buio.
“Non c’è stato tempo con lui di fare questo,” mormorò lei di punto in bianco, con un sorriso triste.
Takagi si fermò di botto sotto il fascio di luce granulosa di un lampione, scrutandola con un’espressione inintelligibile sul volto magro e regolare. Se quelle parole lo avevano deluso o offeso, non lo diede a vedere. Tuttavia Sato trasalì, rendendosi conto solo dopo qualche secondo di ciò che aveva detto. Replicò in fretta, dandosi mentalmente della sciocca:
“Oh accidenti, scusami. Non avrei dovuto ritirare fuori l’argomento.” Le sue spalle minute furono scosse da una risata goffa, un po’ amara. “Sono proprio il campione dell’indelicatezza, vero?”
Takagi scosse perentoriamente il capo, portando avanti le mani. “No, certo che no. Va tutto bene, non preoccuparti... è solo che...”
Lei lo guardò inarcando un sopracciglio, non troppo convinta. Si portò le mani ai fianchi, inclinando appena le labbra in un atteggiamento più consono al suo carattere. “Solo che… cosa, detective?” domandò, adesso quasi divertita.
Takagi scosse di nuovo il capo, senza sorridere come aveva fatto lei poco prima. “Nulla. Pensavo solo che devi averlo amato davvero tanto, se ancora non riesci a togliertelo dalla testa.”
Sato avvertì la solita dolorosa spina penetrarle il cuore, ma nel replicare decise di non darlo a vedere, propendendo per una risposta il più possibile sincera:
“A dire la verità, inizialmente non lo sopportavo,” ammise, andando ad appoggiarsi alla ringhiera di metallo che si affacciava sul mare, imitata da Takagi. “Era così pieno di sé, così arrogante, mi faceva una rabbia! Sembrava che non apprezzasse affatto l’aiuto dei suoi colleghi, che li disprezzasse perfino. Ma poi, capii che era tutt’altro. Col tempo, scoprii che avevamo fin troppe cose in comune. E alla fine cambiai completamente idea su di lui. Il resto lo sai...”
Mentre parlava, Sato aveva appoggiato il mento sulla mano aperta, il braccio premuto sul metallo freddo e umido, e parlava come se in realtà fosse sola e non vedesse altro che avvenimenti relativi al passato di fronte ai suoi occhi, che erano leggermente velati e assorti. Takagi si rese conto che ella stava rivivendo con la memoria stralci della sua esistenza a cui lui non apparteneva e a cui non avrebbe mai potuto prendere parte. La nuova consapevolezza lo schiacciò con la forza di un macigno.
Gli sfuggì una risata secca e cupa. Sato si voltò perplessa verso di lui.
“Dovevo immaginarlo,” commentò il detective, sogghignando amaramente mentre guardava il mare nero come la pece. “Dovevo immaginarlo che non avrei avuto speranze, contro di lui...”
Lei aggrottò la fronte.
“Ma... ma che sciocchezze vai dicendo?”
All’improvviso, prendendolo piuttosto alla sprovvista, lo costrinse a girarsi verso di lei afferrandolo poco gentilmente per la giacca grigia. Takagi se la ritrovò – senza sapere bene come – a pochissimi centimetri da sé; corpo, labbra e respiro affannato, proprio come poche ore prima, in quel vicolo sporco.
Gli occhi scuri di Sato brillavano di lacrime rabbiose.
“Stupido, stupido che non sei altro!” esclamò, con voce rotta. “Io non ho mai voluto sostituirti a Matsuda. Mai, lo capisci questo?”
Takagi deglutì il vuoto, stordito dal profumo deciso di lei e dalla sua stuzzicante vicinanza. Il suo cuore avrebbe presto intrapreso un probabile viaggio verso un prossimo infarto, se non avesse rallentato immediatamente, smettendo di martellargli così forte il petto.
Sato lo investigava con lo stesso sguardo severo e inflessibile di quando doveva rimproverarlo per qualche errore di distrazione durante le missioni.
Bella.
Bellissima.
Di un fascino quasi letale.
“Perdonami...” fu tutto quello che lui riuscì a dire in un sussurro, mentre la voce andava a farsi benedire assieme al suo autocontrollo, il suo viso talmente vicino da poter quasi sfiorarlo con la bocca.
Oddio, pensò sudando freddo, voleva baciarla e voleva farlo ora. Non aveva senso aspettare. Era stanco di farlo.
Takagi prese con risoluzione Sato per le spalle, costringendola a sollevare lo sguardo verso di lui. I suoi occhi azzurri erano luminosi come una notte stellata, la stregavano.
“Non ho mai voluto prendere il posto di Matsuda,” le disse solo, prima di sfiorare con risoluzione le labbra con le sue assaggiando il suo respiro tiepido ed irregolare. “Perché...” sollevò la mano per appoggiarla sul suo viso; i polpastrelli passarono al dettaglio quella sua pelle liscia e profumata, sfiorando con attenzione le gote bollenti, il mento, gli angoli sensuali delle labbra rosse. “Perché... io...”
Sato socchiuse gli occhi e si lasciò andare, lentamente. Sentiva il tocco della sua mano sulla pelle, la sua bocca lambire con soffocato desiderio la sua, e trovò che tutto questo era giusto. Follemente giusto. Improvvisamente si chiese con urgenza perché lui non veniva più vicino, perché non le prendeva il viso con entrambe le mani per baciarla, come desiderava in quel momento, come aveva desiderato per tanto, tantissimo tempo senza neanche accorgersene. Perché, diamine, non lo faceva?
Bip – bip – bip.
Un suono acuto e fastidioso si diffuse all’improvviso intorno a loro.
“Uh...?”
Con grande delusione di lei, Takagi si allontanò di qualche centimetro, ma senza spostare la mano dalla sua guancia. Le sorrise, squisitamente rosso in zona gote, e con la mano libera si mise a frugare nel taschino della giacca, estraendo dopo qualche secondo e non senza una certa difficoltà il suo cercapersone, che era in preda ad una crisi isterica e trillava a tutto spiano.
“Pronto?”
La voce baritonale del loro superiore invase l’ambiente, infrangendo l’atmosfera creatasi e soprattutto il vellutato e lenitivo silenzio del molo.
“TAKAGI! E’ tutto il pomeriggio che cerco di parlare con te! Ma dov’eri finito?”
“M-Mi dispiace tanto ispettore, avevo dimenticato di accenderlo prima...”
“Bah, lascia perdere! Piuttosto, tu e Sato dovete venire subito in centrale, è successa una cosa gravissima!”
“Ispettore, cosa...?”
Il suo superiore riattaccò, senza permettergli di chiedere ulteriori delucidazioni. Takagi sbuffò, riponendo il cercapersone nella tasca e alzando gli occhi su Sato, visibilmente imbarazzato e dispiaciuto.
“Dobbiamo andare. Megure ci vuole tutti e due in ufficio... però non riesco a capire come facesse a sapere che eravamo insieme...” commentò rivolto quasi a se stesso, grattandosi perplesso una tempia.
“Cosa pensi che sia successo?” domandò poi, guardandola.
Sato non rispose. Accigliata, con gli occhi ormai asciutti e l’aria gravemente pensierosa, quasi del tutto dimentica del secondo bacio mancato che si erano scambiati in un sol giorno, ascoltava i battiti rapidi del suo cuore sotto le dita. Troppo rapidi. Proprio come quel maledetto giorno.
“Non lo so.”
Ancora. Ho ancora quel brutto presentimento. Ma perché?

***

Dipartimento di polizia di Beika.

Il detective Miwako Sato stringeva accigliata il fax tra le dita sottili, senza parlare, in piedi dietro la scrivania; la sua espressione era in ombra rispetto al fascio di luce ambrata emesso dalla lampada sul tavolo. Takagi, che le stava vicino, poteva quasi toccare a mani nude la sua tensione. Era perfettamente consapevole dei battiti del suo cuore, che erano lenti e costanti.
“Ci è arrivato mezz’ora fa, signore.” Scandì con deferenza l’agente, il volto e la voce inespressiva.
Lo sguardo e la calma stoica dell’agente Sato fremettero impercettibilmente, minacciando d’incrinarsi. In quel momento la mano grande e calda di Takagi raggiunse discretamente quella piccola di lei abbandonata lungo il fianco, stringendo piano; la sentì irrigidirsi e trattenere il respiro, come se stesse cercando disperatamente di controllarsi.
Sato incontrò i suoi occhi azzurri e il suo breve sorriso d’incoraggiamento le sciolse qualcosa, proprio lì, al centro del petto.
“Tranquilla. Ci sono io con te.” Dicevano quelle labbra gentili.
Lei gli rivolse un muto sguardo di gratitudine.
Quindi si accinse con fermezza a rileggere per la decima volta il fax. Poche parole, scritte con precisione e in giapponese perfetto. Da far venire i brividi.

Alla bella poliziotta coraggiosa,

Come fa il solista con il suo strumento musicale
Incontriamoci al tramonto, dove il sole e la luna si baciano
Dove le fiamme incendiano il sonno degli innocenti.

Senza firma ovviamente.
“Al tramonto? Dove il sole e la luna si baciano? Ma che vuol dire?” domandò Takagi, alzando gli occhi su Megure, che improvvisamente sembrava più vecchio e più stanco che mai.
“Non ne ho idea. Forse si riferisce ad un luogo che si trova ad ovest di qui, dove il sole tramonta. Infatti parla anche del sonno. Tuttavia, non capisco perché usa la parola innocenti, e il verbo incendiare... Sato, tu hai qualche idea?”
Miwako scosse il capo: era stranamente silenziosa e pallida, gli occhi attraversati da un’ombra indecifrabile. Non poteva essere così difficile, i messaggi di quel folle erano sempre piuttosto intuitivi. Si morse le labbra. Eppure... c’era qualcosa di familiare in quelle parole...
Yumi Miyamoto s’illuminò improvvisamente in viso.
“Ehi, ci sono! Magari si riferisce al centro commerciale che si trova ad ovest da qui. Quello chiude sempre al tramonto.”
Takagi controllò l’orologio. “Beh, ma ormai è un po’ tardi, direi. Il messaggio diceva chiaramente di incontrarsi al tramonto, ma il sole è declinato già da diverse ore, mentre il fax è arrivato mezz’ora fa.”
“Forse perché la parola tramonto non si riferisce al momento della giornata, ma al nome del complesso commerciale. E’ “Sunset”, che in inglese significa tramonto.”
“Organizziamo comunque una squadra e andiamo a controllare,” disse Megure. “Non possiamo permetterci di sottovalutare ancora questo pazzo. Takagi, Sato e Yashiba, voi della prima squadra andrete per primi sul posto...”
“No, ispettore.” La voce cristallina della giovane detective echeggiò con risoluzione nell’ufficio.
Sato rabbrividì sottopelle, rileggendo la seconda riga del messaggio.
“Devo andare sola,” mormorò, con voce spenta ma perfettamente udibile. “Lui vuole soltanto me.”
E come prevedeva, il ragazzo al suo fianco che fino a quel momento si era controllato appena reagì immediatamente, con eccessivo fervore: “Ma cosa stai dicendo? Potrebbe farti del male, e io non posso permetterlo!”
Miwako lo fissò, sorpresa. Takagi...
“Takagi ha ragione, agente Sato. Potrebbe essere troppo pericoloso,” concluse Megure con un cenno del capo. “Andrai con la squadra al completo. Se l’assassino è lì, lo prenderemo. Dobbiamo fare in fretta.”
“Datemi... solo un minuto...” disse improvvisamente Sato, sorridendo in maniera rassicurante ad un agitato Takagi. “Tranquillo, torno subito.”
E così dicendo si diresse verso il corridoio che conduceva alle toilette, tra gli sguardi perplessi e a tratti preoccupati dei suoi colleghi.
“Povera Sato...” sospirò Yumi, tristemente.

***

L’ispettore Megure falciava a passi grandi e nervosi l’ufficio, l’espressione rabbuiata. Si fermò, sollevando la testa e rivolgendosi a nessuno in particolare mentre chiedeva, burbero:
“Ma si può sapere quanto ci mette?”
“Vado a controllare,” propose l’agente Yumi, alzandosi dalla sedia.
“Vengo con te,” soggiunse Takagi scattando come una molla.
Le toilette si trovavano sullo stesso piano dell’ufficio dell’ispettore: Takagi le raggiunse per primo e bussò più volte alla porta chiusa, senza ricevere risposta.
“Sato! Sato, va tutto bene?”
Yumi gli mise una mano sul braccio, improvvisamente cupa in volto. “Ho un brutto presentimento, Takagi,” commentò.
L’altro aggrottò la fronte, mordicchiandosi il labbro. “Oh no. No.
Senza aspettare oltre girò la maniglia e spalancò la porta con un tonfo secco.
“Sato!”
La luce era accesa ma videro subito che la stanza era vuota: la finestra che dava sul cortile dell’edificio era aperta, come se qualcuno per sbaglio l’avesse dimenticata così; le tendine si muovevano spettrali e inanimate al passaggio continuo del vento.
Yumi imprecò ad alta voce. “Quella... testarda ragazza!

***

6 Gennaio, Periferia di Tokyo.

Aveva cominciato a piovere. Come quella sera. Solo che stavolta era sola. Completamente sola. Non aveva permesso a nessuno d’accompagnarla, aveva fatto finta di andare alla toilette solo per avere la possibilità di dileguarsi senza essere intercettata dai suoi colleghi. Loro non glielo avrebbero mai permesso, altrimenti. Sapeva bene quale grave pericolo corresse, assecondando le richieste di quel folle squilibrato, ma non le importava. Non le importava più niente, nemmeno di aver trasgredito all’ordine diretto di un superiore. Non lo aveva detto nemmeno a lui, rammentò all’improvviso, e questo dopotutto le dispiaceva. Tuttavia, aveva la netta sensazione che nemmeno lui avrebbe capito. Sato sorrise intenerita al suo ricordo. Dolce, gentile Takagi, sempre così premuroso con lei.
Dovrai perdonarmi, Takagi.
In quei giorni aveva tentato di dimenticare Matsuda, di fare a meno del suo ricordo nel momento esatto in cui aveva creduto di catturare il suo assassino. Aveva confessato a Wataru di volergli bene, e lui l’aveva praticamente baciata. Ma il vero assassino, la persona che l’aveva attirata lì quella notte, evidentemente non voleva che lei dimenticasse, che continuasse a vivere la sua vita. Il fax destinato a lei parlava chiaro. Lui voleva distruggerla. Ma avrebbe trovato pane per i suoi denti, pensò la detective, lo sguardo attraversato da un lampo di fredda determinazione.
Se il killer credeva di essere il solista che si diverte col suo strumento, si sbagliava di grosso. Era tutto il contrario, semmai.
Sato alzò gli occhi sull’edificio in sfacelo che si stagliava di fronte a lei nell’oscurità, come uno di quei castelli dell’orrore che si trovano nelle fiabe, mentre la pioggia ghiacciata di gennaio si adagiava sui suoi capelli, tante perline di neve che s’intrecciavano alle lisce ciocche castane, bagnandole i vestiti più comodi che aveva indossato prima di andare in centrale.
Si fece forza e proseguì cautamente lungo la strada di campagna isolata, pistola alla mano, i nervi a fior di pelle e il respiro profondo.
Sopra la sua testa cigolava tristemente un’insegna di legno annerita e consumata: l’insegna mostrava una scritta, e sotto la scritta il disegno di un sole e una luna sbiaditi dal tempo, sovrapposti come se stessero baciandosi.
Incontriamoci al tramonto, dove il sole e la luna si baciano.
L’insegna apparteneva ad un ex-hotel abbandonato. La scritta sopra il logo recitava il nome, in caratteri occidentali: Fading Moon Hotel. Luna calante, usando però il verbo figurativo che solitamente viene associato al sole: to fade, scomparire.
Anche il resto del messaggio suggeriva che non aveva sbagliato a recarsi subito lì.
Dove le fiamme incendiano il sonno degli innocenti, proseguiva il fax.
Aveva capito praticamente subito che si trattava di quel posto. Sato conosceva bene la storia, dopotutto. L’hotel era andato completamente distrutto tre anni prima a causa di un incendio, forse dovuto ad un’esplosione dolosa. C’erano stati tre bambini fra le vittime, morti tragicamente nel sonno, e decine di feriti. Lei e Matsuda si erano occupati del triste caso.
Ricordava bene la pioggia scrosciante di quella notte, e loro due soli in mezzo a quella strada deserta, al riparo sotto una tettoia improvvisata. Era tutto il giorno che svolgevano indagini e compivano interrogatori, senza arrivare mai ad un punto fermo. Lui gli aveva improvvisamente rivolto una strana domanda, che inizialmente lei non comprese fino in fondo. Era solo il tre gennaio.
“Tu non hai paura del passato, Miwa?”
Glielo aveva chiesto all’improvviso, mentre appoggiato con la schiena al muro annerito si accendeva una sigaretta, l’espressione beffarda celata dagli onnipresenti occhiali da sole scuri. Sato si rivide in piedi di fronte a lui, a testa alta e l’espressione indomita, sicura di sé. Sicura di ciò che avrebbe risposto.
“Solo di dimenticarlo per quello che è, Matsuda. Solo questo. Il passato non mi spaventa affatto, perché è il passato a renderci migliori.” Gli aveva risposto proprio così. Perché in quel momento ne era sinceramente convinta.
E Matsuda senza preavviso si era tolto gli occhiali da sole. Aveva alzato gli occhi, che erano profondi e del colore ardente del metallo fuso.
“Ottima risposta, agente Sato.” C'era una strana inflessione nel suo sorriso, quasi maliziosa. “O forse, posso continuare a chiamarti Miwa?”
Erano bastate quelle semplici parole velate di gentilezza a cambiare tutto, tra loro. Miwako Sato non aveva mai creduto al cosiddetto ‘colpo di fulmine’. Non riteneva razionalmente possibile potersi innamorare di qualcuno in poco più di una settimana, qualcuno che prima sopportava a stento, per di più. Amore cieco, tsk. Se glielo avessero detto prima, probabilmente ci avrebbe riso sopra.
Ma la passione tra lei e Matsuda aveva esaurito anche l’ultimo briciolo di coerenza che ancora sopravviveva in lei.

***

Il detective Sato chiuse gli occhi a quei ricordi, lasciando che una lacrima si staccasse dal protettivo rifugio delle sue ciglia perdendosi lungo la guancia arrossata dal freddo.
Matsuda... stanotte ti vendicherò davvero, lo giuro. Solo così potrò essere libera di amarlo...
Un ulteriore sorriso, spento e freddo come i lampioni rotti sulla sua testa, traversò le sue labbra pallide, intorpidite dall’assideramento.
Proseguì ancora per qualche metro, il passo cadenzato e silenzioso, attutito dal sottile strato di neve appena caduta. Il vento tagliente di quella notte stava facendo un lavoro minuzioso con lei: soffiava fra i suoi corti capelli gelandole la nuca, in più s’insinuava come tanti coltelli affilati attraverso i vestiti, raschiando la sua pelle sudata e facendola rabbrividire a più riprese.
CRACK.
Il rumore secco alle sue spalle la indusse a voltarsi di scatto, i sensi tesi al massimo. Sollevò con rapidità e ferma precisione il braccio, quello che stringeva spasmodicamente la pistola un poco tremante, ed intimò ad alta voce:
“Fermo dove sei! Mani in alto!”
Finalmente lo vide. Era lui, il maledetto assassino. L’ombra se ne stava immobile a diversi metri da lei, dando le spalle all’unico accesso al vicolo, avvolto in un lungo impermeabile grigio; un ghigno soddisfatto e freddo come l’aria intorno a loro stampato sul volto per metà nascosto.
Non parlò. Non le disse assolutamente nulla. Dalla tasca destra del cappotto estrasse un’arma, una revolver, piccola e lucida.
Con una prontezza di riflessi invidiabile, la poliziotta emise una sorta di grido strozzato, poi premette il grilletto e fece fuoco sul bersaglio.
Mancandolo.
Solo allora si ricordò che la sua pistola aveva un unico colpo in canna.
E lei non aveva potuto attardarsi in centrale per ricaricarla.
“No...” Miwako Sato spalancò gli occhi per l’orrore e l’agghiacciante consapevolezza, mentre l’altro emetteva una risata velenosa.
“L’ho sempre detto che voi della polizia siete degli stupidi,” commentò. “Anche una bella poliziotta coraggiosa come te non fa eccezione.”
Poi le puntò la pistola al cuore. E sparò.

***

Sato serrò gli occhi e attese un dolore lancinante al petto e una morte che non arrivarono.
Quasi immediatamente sentì un terzo sparo rombare nel vuoto, e poi subito dopo un quarto tagliò l’aria gelida della notte. Poi, silenzio. Un forte odore di polvere da sparo si diffuse pesantemente nell’aria nevosa.
Col cuore che le martellava in gola, Sato aprì lentamente gli occhi, ritrovandosi davanti uno sguardo azzurro e un viso lucido di sudore, contratto dalla sofferenza. Lui le rivolse una lieve smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso e parlò con sforzo evidente:
“C-Ciao, Miwa... sei ferita?”
Lei lo fissò meravigliata.
“Takagi, cosa ci fai qui? come...?”
“Fading Moon Hotel,” sussurrò Takagi, con una smorfia che doveva essere un ghigno. “Era scritto sul fax, no?”
Le braccia del ragazzo le circondavano quasi completamente le spalle e la schiena; il suo corpo, premuto strettamente contro quello di lei, era inspiegabilmente attraversato da profondi brividi. Improvvisamente colpita da un’orribile sospetto, Sato capì.
Stupido, che cos'hai fatto?
Takagi le aveva fatto da scudo col suo corpo impedendole di essere ferita dal secondo sparo. Il terzo sparo, diretto verso il killer per difesa, era stato indubbiamente il suo. Ma il quarto?
Miwako sentì qualcosa di denso e bollente bagnarle la mano appoggiata contro il petto del ragazzo e abbassando lo sguardo vide la piccola pozza di sangue formatasi sul terreno ai loro piedi. Sgranò gli occhi, scioccata.
Oddio.
Il quarto sparo era stato quello dell’assassino.
“No!”

***

“Ma... che...?”
Sola al centro del vicolo, a pochi metri dai due poliziotti, l’ombra sembrava perplessa.
Qualcosa era andato storto.
Ma cosa?
Eppure aveva organizzato tutto fin nei minimi particolari. Quel terzo sparo non era decisamente previsto, no. E nemmeno il quarto, a dirla tutta.
Il dolore lancinante aumentò.
Boccheggiando, abbassò lo sguardo truce su di sé. Una grossa macchia rossa si allargava come olio sui suoi abiti, al centro del petto. Quel dannato poliziotto gli aveva sparato lo stesso, pensò in preda ad una folle rabbia, nonostante lui fosse stato più agile e l’avesse colpito per ben due volte.
Era la fine, comprese con un misto di panico e di ironia mentre sentiva le forze venirgli meno e la nebbia scendere di fronte ai suoi occhi come una spessa cortina.
Un ghigno freddo traversò la sua bocca piena di sangue. Aveva fatto male i suoi calcoli, perché la bella e vendicativa detective non era affatto venuta sola come previsto. Era stata più furba di quanto pensasse.
“M-Maledetti... Maledetti poliziotti...”
E con ancora quelle parole sulle labbra, mentre invocava su di loro tutto il male che colmava la sua anima, l’assassino piegò le ginocchia e crollò sul terreno bagnato di neve, restando completamente immobile.

***

“Sato a centrale, Sato a centrale! Qui c’è un agente ferito gravemente, accorrete subito! Fate presto!”
Il detective Takagi emise un debole gemito, e un istante dopo si accasciò con tutto il peso del corpo addosso alla collega, che barcollò spaventata lasciando cadere il cellulare sulla neve.
“Takagi! No, Takagi!”
Sato lo fece sdraiare a terra e cadde in ginocchio sul terreno gelato, di fianco a lui; si accorse con orrore che respirava a malapena ed era mortalmente pallido in viso. Uno dei due proiettili doveva aver sfiorato lo stomaco, o chissà quale altro punto vitale. Le mani tremanti di Sato si mossero a caso sulla sua camicia aperta e sporca di sangue, nel disperato tentativo di tamponare in qualche modo la brutta ferita. Un singhiozzò le sfuggì dalle labbra intorpidite, il cuore sballottato in gola.
Oddio, continua a perdere sangue... cosa devo fare? COSA DEVO FARE?
In preda al panico e con gli occhi pieni di lacrime lo afferrò per le spalle e cominciò a strattonarlo forte, chiamandolo con voce strozzata.
“Takagi! Takagi, mi senti? Per favore, resisti! I soccorsi stanno arrivando, andrà tutto bene. Mi senti? Resta sveglio. Ti scongiuro, non puoi lasciarmi! TAKAGI!”
In fondo alla sua anima in tumulto, la voce profonda dello spettro di Matsuda continuava a ripeterle crudelmente la stessa domanda.
“Tu non hai paura del passato, Miwa? Non temi che le persone a te care un giorno possano scomparire con esso? Lui compreso?”
“No! Io non voglio più avere paura, sono stanca! Basta!”
Sato scrollò la testa per allontanare da sé quella voce, quel volto.
Perché tutti quelli che amo devono lasciarmi? pensò, mordendosi le labbra. Perché, perché, PERCHE?
“M-Miwa...”
La mano di Takagi si mosse andando a cercare quella di lei, ferma sul suo petto insanguinato. Un sorriso risollevato affiorò sul viso di Sato bianco come un lenzuolo.
“Sei sveglio, grazie al cielo.”
“Non devi più avere paura,” sussurrò lui con un filo di voce. Con le dita le sfiorò dolcemente una guancia, lasciandovi una scia rossa. “A-Adesso è davvero finita...”
Sato scosse il capo, le lacrime che le rigavano le gote. Si sforzò di sorridergli, e invece le riuscì solo una smorfia poco convincente. “Non essere stupido. Starai bene, capito? Fidati di me...”
“F-Farai... rapporto ai superiori, stavolta?”
Lei negò con il capo, i denti stretti nello sforzo di non piangere.
“M-Meno male.” Takagi emise una risata, spezzata subito dopo da un colpo di tosse. Arrossì lievemente sulle gote. “S-Scusa se non te l'ho detto prima, Sato-chan... ma ti amo... ti amo tanto...”
“Lo so.” La giovane poliziotta gli accarezzò il viso, senza preoccuparsi di trattenere ancora i singhiozzi.
In realtà, l’ho sempre saputo.
“Mi dispiace tanto...”
Sato si piegò leggermente su di lui, lasciando che le loro bocche s’incontrassero a metà strada. Le labbra di Takagi lambirono con tenerezza e per un tempo indefinito le sue, mentre le sue braccia le circondavano debolmente la schiena, una mano intrecciata nei corti capelli neri. Il cuore batté con intensità nel petto di Sato per tutto il tempo di quel bacio intenso, ed ella fu certa di sentire anche il suo battere così.
Wataru Takagi l’aveva salvata davvero, c’era riuscito. E fra le sue braccia, per la prima volta dopo tanto tempo, Miwako Sato sentì, finalmente, di non avere più paura di nulla.
La pioggia di neve iniziata in tarda serata andò lentamente diradandosi. Ben presto i minuscoli cristalli ghiacciati cessarono di precipitare vorticando dal cielo nero, mentre nell’aria fredda della notte cominciava a diffondersi l’urlo malinconico delle sirene della polizia.

***

Qualche giorno dopo – 10 Gennaio, Dipartimento di polizia di Beika.

“Ehi, Sato-chan! Allora sei dei nostri, stasera?”
L’agente Miyamoto la intercettò con eccessivo entusiasmo in cima alle scale del piano, proprio mentre lasciava il suo ufficio. La luce del sole prossimo al tramonto penetrava dalle imposte aperte che davano sul corridoio isolato, indorando i tratti delicati e il sorriso rilassato sulle labbra rosse della detective.
“Intendi dire per quel karaoke, Yumi?”
“E che altro? Allora, vieni con noi o no?”
Sato rispose scotendo la testa: “Mi dispiace, ma ho già un altro impegno.”
“Ah, davvero?” La poliziotta castana si mise le mani sui fianchi e la scrutò a lungo, inclinando poco convinta il capo. Poi, dal nulla, spalancò occhi e bocca con grinta. “Ah, ho capito! Hai un appuntamento romantico con qualcuno della prima squadra!”
Sato arrossì lievemente in zona gote e negò recisamente, mentre il suo sorriso perdeva un po’ di smalto. “Ma no, cosa vai a pensare...”
“Mh, se lo dici tu.” L’agente Yumi sollevò le spalle, come per lasciar perdere l’argomento. Le fece un cenno di saluto con la mano mentre cominciava ad allontanarsi lungo il corridoio. “Vorrà dire che sarà per la prossima volta.”
"Ma certo.” Sato scosse il capo, raggiungendo nel frattempo l’ascensore. Non cambierà mai...
“Ehi, Miwa?”
Si voltò incuriosita, e scorse l'amica ancora ferma in cima alla scalinata. La poliziotta ghignava maliziosamente al suo indirizzo. “Saluta l’agente Takagi da parte mia.”
“Yumi!”
“Okay, okay. Me ne vado...”

***

Sato uscì dall’ascensore, percorse a passo rapido il corridoio completamente bianco del terzo piano fino a fermarsi incerta di fronte alla porta candida contrassegnata col numero 1372. Dall’altra parte giungevano due voci maschili contrapposte, evidentemente impegnate in una discussione.
La donna arricciò le labbra, sospirando nell’accingersi ad aprire la porta.
“Sempre a punzecchiarvi voi due. Ma non vi stancate mai?” dichiarò con severità entrando a passo sicuro nella luminosa stanza d’ospedale e lasciando con disinvoltura la sua borsa sul tavolo.
“Detective Sato!” esclamarono all’unisono Shiratori e Takagi, entrambi costretti su un letto di convalescenza da giorni ed entrambi ricoperti da fasciature in svariate parti del corpo.
“Stavamo scommettendo se saresti venuta anche oggi oppure no.” Spiegò Shiratori con un ghigno malizioso, lanciando una breve occhiata al collega. “Ovviamente ho perso io.”
Sato si avvicinò al letto di Takagi incontrando subito il suo sguardo dolce e gli chiese sottovoce: “Stai bene?”
“Adesso benissimo,” replicò lui, ridacchiando. “Secondo l'ispettore, prendersi due pallottole di striscio nello stesso punto del corpo senza indossare il giubbotto anti-proiettile non è il massimo dell’intelligenza, ma a detta del medico potrò tornare come nuovo in due o tre settimane.”
Sato sospirò sollevata. Takagi si fece improvvisamente serio, e le prese la mano appoggiata sul materasso. “Tu come stai?”
Lei si perse nei suoi profondi occhi azzurri per un tempo che le parve lunghissimo, e piacevolissimo.
“Benissimo, adesso,” rispose. E stavolta, seppe che era davvero così.
“A proposito detective, ho un messaggio per te.”
Takagi annuì, accostandosi a sua volta. Sato si coprì la bocca con una mano, con aria da cospiratrice.
“Anch’io,” gli sussurrò nell’orecchio, irrimediabilmente rossa in viso. “Anche se non te l’ho mai detto...”
Takagi la guardò, lievemente perplesso: alla fine parve capire, e il suo volto si illuminò di gioia. Sato non seppe bene come, ma all’improvviso si ritrovò catapultata contro il suo petto, con le labbra che avevano prepotentemente preso possesso delle sue. Chiuse gli occhi senza nemmeno riflettere, felice.
Shiratori tossicchiò forzatamente, come per attirare l’attenzione dei due. “Vorrete perdonarmi se non esco dalla stanza per lasciarvi soli,” commentò.
Miwako si riebbe con un sussulto dettato dalla vergogna, e staccandosi dal suo abbraccio lo apostrofò inquieta, completamente bordeaux in viso:
“Agente Takagi! Quante volte devo dirti che certi atteggiamenti non sono appropriati in pubblico?!”
Wataru Takagi scoppiò a ridere, limitandosi ad ammirare la sua espressione deliziosamente contrariata, le labbra carnose contratte e gli occhi scuri che rimandavano lampi di disapprovazione al suo indirizzo.
In fondo, pensò nient’affatto preoccupato, per quello c’era ancora tempo. Tutto il tempo che volevano.

Quanta tenerezza
Non fa più paura

Sei nell’anima
E lì ti lascio per sempre
Sei in ogni parte di me
Ti sento scendere
Fra respiro e battito

Sei nell’anima
In questo spazio indifeso
Inizia tutto con te
Non ci serve un perché
Siamo carne e fiato

Goccia a goccia, fianco a fianco

Fine



NdA: Finita! Cosa ne dite? Io spero di non avervi annoiato, in caso contrario, scusatemi! All'inizio era partita per essere una storiella semplice semplice e di poche pagine, ma poi mi sono fatta prendere la mano ^^'' Spero che vorrete allietarmi la giornata con un vostro commentuccio. Vi prego, ci tengo tanto! Se commentate in tanti, vi prometto che non tornerò mai più a rompere con una fanfiction (ehm, scherzo ovviamente). Però commentate, dai!!!

Alla prossima!

Ginny85.

  
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