Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Ricorda la storia  |      
Autore: malumgranatum    02/12/2012    1 recensioni
Nelle nostre deliberazioni noi non possiamo imitare quei popoli che non possiedono un impero come il nostro
Una storia che, a sua volta, ne contiene tre, che si svolgono in diverse epoche e con diversi protagonisti, ma che hanno in comune un concetto: l'Impero e la sua degenerazione.
Personaggi: Roma, Spagna, fratelli Italia
Warning: violenza, tortura, possibile Roma OOC
Non posso non ringraziare, come sempre, la buona Matryoshka per l'appoggio e l'incoraggiamento mostrato
Genere: Dark, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Antica Roma, Nord Italia/Feliciano Vargas, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

IMPERO


«Nelle nostre deliberazioni noi non possiamo imitare quei popoli che non possiedono un impero come il nostro. A costoro basta vivere in pace e stare sottomessi nella sicurezza agli ordini di altri; per noi invece è necessario faticare, guerreggiare e mantenere, sfidando i pericoli, il benessere che abbiamo.»
Caio Giulio Cesare, in Cassio Dione, Storia Romana, XXXVIII, 42  

 
Roma, sotto il consolato di L. Calpurnio Pisone Frugi e P. Muzio Scevola [621 Ab urbe condita]
Tiberio stava attirando tanta attenzione, anzi, troppa attenzione. E dire che, in quanto nipote dell’Africano, dell’uomo che aveva salvato Roma dall’incubo di Annibale e della disfatta, ci si sarebbe aspettato da lui un esemplare attaccamento alla causa della Repubblica. Ecco perché, inizialmente, non aveva dato credito alle chiacchiere che si facevano nei suoi confronti, su come stesse tentando di accentrare attorno a sé molto potere, sull’ascendenza che aveva sulla plebe. Lo conosceva da una vita, conosceva la sua famiglia, l’austera madre. La nobile e fiera Cornelia non avrebbe mai allevato un rivoluzionario. E così, per rispetto ai suoi nobili parenti,  era rimasto ad osservare quel ragazzino (ai suoi occhi lo erano tutti), ma più avanzava il tempo, più Roma iniziava a preoccuparsi.
Quando le voci si fecero più incessanti, decise di prendere in mano la situazione e parlare con il giovane e tentare di dissuaderlo dal procedere in qualunque cosa stesse macchinando. Lo trovò a discutere con i suoi sostenitori nel Foro.
«Salute a te, Tiberio» nel vederlo avvicinare, per rispetto, gli altri uomini si allontanarono per permettergli di parlare a quattrocchi con il loro capo.
Gli occhi di Tiberio si illuminarono, conosceva Roma da una vita, lo aveva visto spesso bazzicare per casa
«Mio signore, salute a voi! È da molto che non venite a pranzare a casa nostra! Tutti noi abbiamo sentito la vostra mancanza!»  
«In realtà, figliolo, non è di cose piacevoli che sono venuto a parlarti.»
Gli fece cenno allora di seguirlo e lo condusse in un luogo appartato, non volendo che la loro conversazione divenisse di dominio pubblico. Vedendo lo sguardo serio dell’altro, Tiberio si irrigidì, immaginando di quali cose spiacevoli avrebbero iniziato a parlare. Era nervoso, ma desiderava, una volta per tutte, mettere in chiaro la situazione, sperando, in cuor suo, di ottenere la benedizione del vecchio guerriero.
«Mi sono arrivate all’orecchio alcune sgradevoli notizie…»
«Io…» il tribuno fece cenno di intervenire, ma venne zittito da un gesto della mano del suo interlocutore.
«Hai provveduto tu stesso, senza consultare né il Senato né tantomeno me, a utilizzare i tesori che, tanto generosamente, Attalo di Pergamo ha ceduto alla città di Roma. Roma e non Tiberio. »
«Non ho preso nulla per me, tutto è stato devoluto alla popolazione per support…»
Ma Roma non lo fece neanche finire: «E in giro non fa altro che parlare della tua aspirazione alla monarchia. »
Tiberio si irrigidì ancor di più di fronte a questa accusa: «Se ti riferisci alla storia del diadema, sai bene che si tratta di una falsità uscita fuori dalla bocca malevola di Pompeo, cosa che ho avuto già modo di dimostrare. Non mi è stato presentato nessun diadema e, anche se fosse successo, non lo avrei accettato e non lo farei mai. Non voglio governare Roma, desidero semplicemente che il popolo abbia a godere, nella misura possibile, della sicurezza economica e che questa non sia appannaggio di soli pochi eletti. »
«Rigettare una corona, vera o falsa che sia, non significa rigettare il potere. Abusando del tuo potere di tribuno hai attirato attorno a te le simpatie del popolo: hai ridotto gli anni di servizio militare, assicurato alla gente il diritto di appello al verdetto e affiancato ai senatori i cavalieri nella carica di giudici. Hai persino convinto i tuoi seguaci a fare la guardia alla tua casa perché temevi di venire attaccato. Li hai manipolati per il tuo interesse personale. »
«Non è la casa Tiberio quella a cui è stata fatta la guardia, ma quella del tribuno Gracco e il tribunato della plebe rende la persona del magistrato sacra e inviolabile. »
Testardo il ragazzino, pensò Roma. Non avrebbe mai immaginato che un tipo calmo come Tiberio gli avrebbe potuto dare così tanti grattacapi.
«Ma quel che più non posso sopportare, quello che proprio non concepisco, è il fatto che ipotizzi che persino i nostri soci italici godano degli stessi diritti dei tuoi concittadini, della mia gente. »
«I nostri alleati Italici hanno combattuto valorosamente al nostro fianco e…»
«LORO NON SONO ROMANI! NON ABBIAMO NULLA A CHE SPARTIRE CON LORO!» urlò Roma.
«Ma hanno dato la loro vita, il loro sangue per proteggerci, concedere loro i nostri stessi diritti mi sembra il minimo come ricompensa. Non restituirà ad una madre il proprio figlio o ad una moglie il proprio sposo. Concedendo loro i nostri stessi diritti, li legheremo a noi, ci saranno riconoscenti, stiamo offrendo loro un’opportunità che fino a questo momento nessun altro ha concesso!»
«Non è questo il punto, non lo vuoi capire!? Non è Roma che concede, ma Tiberio!! Hai scavalcato il Senato nelle tue decisioni, ti sei posto al di sopra di loro, al di sopra di me. Lo sai questo cosa significa?! Non ho intenzione di sopportare oltre tutto questo, io…” Roma si fermò improvvisamente e inspirò a fondo prima di proseguire con più calma “fermati, Tiberio, mentre sei in tempo. Sono venuto da te per avvisarti, perché chi verrà dopo di me non avrà intenzioni tanto pacifiche, te lo assicuro. Fuggi, perché, continuando così, non vivrai ancora per molto. Fallo almeno per tua madre, non darle il dispiacere di vedere suo figlio diventare un nemico pubblico. Del resto, lei disapprova le tue scelte.»
«So bene cosa pensa mia madre, ma qui non si tratta di lei, ma di me, anzi non si tratta nemmeno di me. Pensavo Roma fosse diverso: il Senato E il Popolo di Roma. Ma quanto c’è di popolare nelle decisioni prese? Nei momenti di pericolo uniamo le forze, ma una volta tornata la pace, coloro a cui tutti noi dobbiamo la nostra sicurezza, quelli che più di ogni altro hanno sacrificato le loro vite, il popolo e i nostri alleati, sono i primi ad essere ignorati. Non è giusto, da uomo, anzi, da cittadino di Roma, non posso permetterlo.» Detto questo fissò Roma dritto negli occhi e questi capì che la decisione era stata presa ed era irremovibile: neanche la minaccia di morte incombente avrebbe distolto il giovane tribuno dal suo proposito.

Era passato neanche un giorno dalla sua discussione con Tiberio, che uomini trafelati entrarono nella Curia, dove si stava tenendo una riunione del Senato, urlando a squarciagola:
«Tiberio vuole proclamarsi re! Durante il comizio ha fatto cenno di porsi una corona in testa!»
Immediatamente, il pontefice Scipione Nasica aveva incitato il console Muzio Scevola ad agire e fermare quel capopolo usurpatore, ma poiché quest’ultimo tentennava, sostenendo come fosse illecito far uso della violenza e che, piuttosto, sarebbe stato necessario indire un processo a carico di Tiberio, Scipione, accusando di tradimento Muzio Scevola, annunciò a gran voce che avrebbe egli stesso guidato i senatori contro quel traditore di suo cugino Tiberio; ma prima di procedere si voltò verso Roma, perché l’ultima parola spettava comunque a lui.
«Procedete» Roma diede il proprio assenso. Mantenendo fede alla sua parola, Tiberio non aveva smesso, non si era arreso, ma agendo scioccamente aveva consegnato, egli stesso, la sua testa al Senato.
Il pontefice, seguito dai senatori, avanzava di gran fretta, pronto e deciso a estirpare una volta per tutte i fastidi  causati da quel sovversivo, non curandosi dei loro legami di sangue.
 
Vistosi attaccato dai senatori ostili e i loro servitori, Tiberio tentò di mettersi in salvo fuggendo. I padri coscritti erano seriamente decisi ad eliminarlo; molti di loro, privi di arma, avevano staccato pezzi di legno da quelle panche che la folla, impaurita a seguito dell’attacco, aveva fatto cadere e disseminato per la strada. Niente e nessuno poteva fermare quei nobili uomini così furiosi nei confronti dell’uomo che, dopo le loro ricchezze, voleva togliere loro anche la libertà. Tiberio continuava a correre; sentitosi trattenere dalla toga, la lasciò andare e proseguì la fuga vestito della sola tunica. Ma, stanco e impaurito, inciampò e cadde a terra, ritrovandosi circondato dai corpi dei suoi sostenitori. Tentò faticosamente di rialzarsi e mettersi in salvo, ma Publio Satireio, suo collega al tribunato, lo colpì violentemente alla testa con un bastone che aveva ricavato da una panca. Un secondo colpo provenne da Lucio Rufo ed altri ancora ne vennero. Il corpo continuò a essere colpito a ripetizione centinaia e centinaia di volte da bastoni e pietre, come per dare ai suoi nemici la possibilità di sfogare la propria rabbia.
Roma si era mantenuto volontariamente lontano dalla calca. Sapeva benissimo che Tiberio se l’era cercata, lui l’aveva persino avvertito di desistere, ma il pensiero che era meglio così, che i cambiamenti voluti da Tiberio erano troppo rivoluzionari e andavano fermati, non lo faceva stare meglio. Alla vista del cadavere gettato, per spregio, nelle acque del Tevere, Roma venne assalito da un brivido improvviso e inconsciamente si toccò, attraverso la toga, la profonda cicatrice che aveva all’altezza del cuore ed un tragico presentimento lo prese: quello era solo l’inizio.

 
----

 
Isola di Hispaniola, XVI secolo
«In nomine Pater et Filii et Spiritu Sancti.. »
Spagna aveva messo piede sulla spiaggia quella stessa mattina e inspirato profondamente l’aria fresca del mattino. Dopo mesi di viaggio, confinato in una nave, pregustava la sicurezza che solo la terraferma poteva dare. Era la prima volta che si recava nei nuovi possedimenti. Un misto di eccitazione e preoccupazione lo aveva invaso durante il lungo viaggio. Finalmente sarebbe stato di vedere con i suoi occhi le tanto decantate terre a ovest, le Indie, il Paradiso Terrestre così ricolmo di ricchezze che adesso si riversavano su di loro. Dovevano tutto questo alla Provvidenza che aveva guidato quell’italiano, Colombo, verso queste terre certamente benedette. Ma ciò, e su di questo aveva avuto modo di rifletterci a lungo durante la lunga navigazione, comportava una grossa responsabilità. Dopo la cacciata degli infedeli dalla Penisola Iberica, Spagna vedeva in quella terra da poco scoperta una nuova missione affidata a lui personalmente da Dio. Ancora una volta era stato scelto lui per farsi campione di una Santa Causa e questa non poteva che essere, lui ne era certo, quella di portare anche in quelle terre lontane il messaggio cristiano di pace, amore e salvezza.
Le notizie arrivate a suo tempo in Europa dal Nuovo Mondo non avevano, del resto, fatto altro che sottolineare quanto sottomessi fossero quegli indigeni. Anime semplici che necessitavano di essere educate e civilizzate e sarebbero ben presto diventate fedeli servitrici alla causa spagnola e cattolica.
A grandi passi Spagna si era diretto verso l’edificio destinato alle funzioni religiose, con l’intenzione di rendere grazie al Signore Dio per il viaggio sicuro.
Nel fare questo passò accanto ad un gruppo di indigeni incatenati. Durante il viaggio gli avevano parlato di alcune insurrezioni scoppiate tra le popolazioni locali che avevano tentato di allontanare gli spagnoli. Fortunatamente tutto si era risolto per il meglio e gli indios erano stati condotti in città. Le catene erano semplicemente delle precauzioni, per impedire loro di fuggire via, perdendo così l’occasione di convertirsi.
Aveva visto tanti bambini tra di loro e non aveva potuto fare a meno di pensare al piccolo Romano. Chissà cosa stava facendo in quel momento. Di sicuro aveva già combinato qualche guaio e al suo ritorno sarebbe toccato a lui mettere in ordine qualunque cosa avesse combinato. Spagna sospirò, voleva tanto bene al piccolo italiano, ma a volte ne combinava proprio di assurde, come distruggere i preziosi lampadari con l’intenzione di spolverarli o strappare le pesanti tende della sua camera da letto perché c’era inciampato ed era finito per arrotolarcisi dentro. Quel che era peggio è che non voleva mai assumersi le sue responsabilità e finiva per inventarsi storie assurde per discolparsi. Lo spagnolo non potè, però, fare a meno di sorridere al ricordo delle malefatte del suo piccolo protetto. Aveva promesso di portargli qualcosa dal suo viaggio, magari un pappagallo (Romano aveva immediatamente dichiarato la sua intenzione di voler possedere uno di quegli stranissimi animaletti), anche se temeva gli effetti che un simile avrebbe avuto, conoscendo il modo di esprimersi del piccolo italiano e la facilità con il quale quelle bestie sembravano apprendere nuovi vocaboli.
Che caldo. Non era abituato a tutta quell’umidità. Poteva capire il motivo per cui gli indigeni se ne andavano in giro mezzo svestiti. Ma questa era un’abitudine che doveva, comunque, essere corretta. Era infatti estremamente indecente che uomini e donne andassero in giro in quelle condizioni, senza un minimo di pudore e decenza.
Spagna non potè fare a meno di asciugarsi il sudore che gli colava dalla fronte. Il caldo era davvero insopportabile. Stava tentando disperatamente di concentrarsi nella preghiera, ma quell’afa non gli dava tregua e, come se non bastasse, i rumori provenienti dall’esterno non facevano altro che disturbarlo. Le urla, i lamenti e i latrati dei cani erano troppo forti per permettergli di pregare in santa pace. Con tutto quel chiasso non era in grado di ringraziare Dio per avergli permesso di arrivare sano e salvo fin lì. Quando il fracasso si fece ancor più insostenibile, non potè fare a meno di precipitarsi fuori.
Potè così constatare quale fosse la causa di quel trambusto: su delle braci poste une accanto alle altre stavano venendo letteralmente arrostiti vivi dei capo tribù, resisi colpevoli di aver resistito all’avanzata spagnola. Ecco a cosa era dovuta tutta quell’aria pesante, pensò Spagna. Le urla dei condannati si erano mischiate a quelle delle loro famiglie: le compagne, con in grembo e attorno a loro i figli, nonostante fossero per lo più legate, fecero per slanciarsi verso i loro uomini disperate. I soldati, allora, non potendo permettere che si creassero così disordini, avevano mandato loro contro i mastini che avevano portato con loro dal Vecchio Mondo e, ben presto, le urla di disperazione di tramutarono in selvagge grida di dolore e terrore nel vedere, non solo loro stesse, ma anche i loro stessi figli vittime di quei sanguinari animali. Lasciando fare la guardia ai cani, i soldati avrebbero potuto lavorare con più tranquillità.
Spagna vide il capitano della guarnigione avvicinarsi verso di lui e domandargli:
«Qualche problema, signore? Avete bisogno di qualcosa? »
«Non riesco a pregare» sbuffò Spagna.
«Provvedo subito» detto questo si voltò verso gli altri soldati «Sgozzateli, strangolateli, fate quello che volete, in ogni modo fatela finita velocemente: stiamo disturbando la Messa.»
Uno dei soldati prese in parola il suo superiore e infilò bocce di legno nelle bocche dei condannati per impedire loro di urlare. Ma nel contempo alimentò il fuoco, in modo da protrarre ancora più a lungo il supplizio.
«Ti ho ordinato di fare velocemente!»
«Ma così stanno zitti e non disturbano più, no?»
Il subordinato dovette arrendersi di fronte agli sguardi cupi del capitano e di Spagna.
«Va bene, va bene.»
Detto questo, i condannati vennero strangolati e i loro corpi vennero arsi assieme a quelli mutilati dei loro familiari.
«Adesso potete tornare a pregare in tranquillità, signore.»
Spagna abbassò lo sguardo in un silenzioso ringraziamento al militare e tornò in chiesa, arrivando in tempo per la preghiera finale, intenzionato a rivolgere un pensiero anche per la salvezza delle anime di quegli indigeni.
«Et ne nos inducam in tentationem,
sed libera nos a malos.
Amen.»
 
 
---
 
 
Abissinia, gennaio 1936
«Vogliam condurti a Roma rinchiuso in un gabbione! Vogliam condurti a Roma rinchiuso in un gabbione! Per farti far sul serio dell’Africa il leone! Hailé! Povero Selassié!»
«Cazzo, Veneziano, vuoi smetterla!? Non si può fumare in pace con te intorno!»
La voce risultò appena percettibile poiché, in quel momento, passò sopra le loro teste uno dei tanti aerei che in quei giorni si alzavano in direzione di Makallè.
«Che merda di posto! Pensare che a quest’ora potrei essere a Roma a non fare un cazzo» borbottò un Romano estremamente seccato, tra una boccata e l’altra della sua immancabile sigaretta. Senza fumo e l’immancabile caffè mattutino, l’italiano dubitava che sarebbe sopravvissuto in quel posto dimenticato da Dio e, peggio ancora, in compagnia di suo fratello che, evidentemente, considerava questa guerra una sorta di scampagnata, passando il tempo a cantare e ballare e rompergli i coglioni come solo lui sapeva fare.
«Dai, Romano, canta con me!» il più piccolo dei fratelli si avvicinò ridendo all’altro e gli afferrò i polsi nel tentativo di costringerlo a muoversi a tempo con lui e riprese a cantare «Non piangere mia cara stringendomi sul petto! Con la pelle del Negus ne farò uno scendiletto! Hailé…»
«Smettila, stronzo! Così mi farai bruciare con la cenere!»
«Daiii, Roma~, perché devi tenere sempre il muso!? Rilassati un po’! Per una volta che non siamo a casa e possiamo fare quello che ci pare, approfittiamone per divertirci!» Veneziano mise il broncio, sperando così di commuovere il fratellone e convincerlo a unirsi a lui.
«Eccheccazzo! Tanto a casa non facciamo lo stesso niente, visto che Mussolini pensa a far tutto per tutti! Però quello stronzo, mandarci qui in mezzo a questo casino. Lui e quella sua cazzo di idea di tenere su il morale delle truppe con la nostra presenza! Ma questa me la paga, quel bastardo!»
«Eheh, prima o poi ti verrà l’ulcera!» il piccolo di casa tentò di abbracciare il fratello maggiore che, con malagrazia, riuscì a sfuggire all’attacco.
«Avendoti sempre tra i coglioni, mi stupisco come ancora non mi sia venuta» aspirò a fondo la sigaretta ormai quasi finita «Piuttosto, quando ce ne andremo da qui?! Mi sono rotto!»
Veneziano, abituato a veder respinti in continuazione dal fratello i suoi slanci d’affetto, non perse il buonumore. Continuando a sorridere, si apprestò a rispondergli.
«Dovrebbero essere quasi allo stremo. Dubito resisteranno ancora venendo bombardati con i gas giorno dopo giorno. Ormai non fanno altro che respirare veleno e l’iprite che gli cade addosso li ustiona. Se non per resa, prenderemo la città perché non ci sarà più nessuno a difenderla.»
«Ah, bene! Allora meglio che si diano una mossa. Ne ho le palle piene dell’Africa, voglio tornare alla civiltà!»
«Ci pensi, fratello!? Anche il nonno, tanto tempo fa, è arrivato fin qui! Tutto questo era suo!» Veneziano socchiuse per un attimo gli occhi commosso. Non aveva mai dimenticato il suo adorato nonnino e, ogni qual volta ripensava ai meravigliosi momenti passati assieme, veniva preso da una tal nostalgia che lo portava a commuoversi fin quasi alle lacrime.  «Ben presto ci riprenderemo quello che ci appartiene, non è vero, fratellone? Se fosse qui, il nonnino sarebbe tanto orgoglioso di noi!»
«Dovrebbe solo provare a lamentarsi, quello stupido vecchio rincoglionito! Foss’anche in Paradiso (cosa di cui ne dubito altamente, pervertito com’era), arriverei fin lassù per il puro gusto di prenderlo a calci in culo.»
Veneziano rise di cuore «Sei sempre il solito! Tanto lo sappiamo benissimo tutti e due che, se comparisse in questo istante il nonno, ti metteresti a piangere come un bambino!»
«Cazzate!» Romano non poté fare a meno di arrossire, imbarazzato e stizzito allo stesso momento.
Un altro aereo si alzò in volo ed entrambi i fratelli lo seguirono con gli occhi, finché Veneziano pensò bene di riprendere a cantare.
«La terra d’Abissinia ci dà le frutta sane! La terra d’Abissinia ci dà le frutta sane! Ma al Negus e seguaci lasciamo le banane! Hailé! Povero Selassié! Per essere fuggito, un ras fu frustato! Per essere fuggito, un ras fu frustato! Oggi ogni ras trema: si vede già impiccato! Hailé! Povero Selassié! Oggi ogni ras trema: si vede già impiccato! Hailé…»
L’italiano guardò il fratello maggiore speranzoso.
«Povero Selassié…» terminò Romano, sbuffando e pestando con la punta dello stivale il mozzicone della sigaretta.
Veneziano l’aveva di nuovo avuta vinta, come sempre del resto.
 
 

«[…] avidi se il nemico è ricco, arroganti se è povero, gente che né l’oriente né l’occidente possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace. »
Calcago, in Tacito, Agricola, 30-32

 
 
Note
Avete mai visto qualche documentario sulla vita privata di Hitler? Magari i momenti da lui passati a Berghof (ovvero il Nido dell’Aquila, la villa-bunker costruita per lui sui monti della Baviera)? Ad alcuni queste domande sembreranno non avere senso, soprattutto dopo aver letto le tre storie, ma quello su cui voglio concentrare la vostra attenzione è il comportamento di Hitler. Per un attimo dimenticate chi è: direste che quest’uomo che scherza, ride, gioca con la sua amata cagna Blondi, lo “zio Adolf” (come lo chiamavano i poveri piccoli Goebbels) insomma, è lo stesso uomo che ha iniziato una guerra mondiale e ha dato l’ordine di sterminare milioni di individui? Credo proprio di no. Quest’uomo, nelle immagini private, mostra una totale tranquillità d’animo che fa letteralmente tremare. I discorsi accesi, quelli che noi tutti conosciamo, con un Hitler quasi posseduto, in realtà seguono le regole della propaganda: sono semplicemente un modo per attirare l’attenzione e l’approvazione dei più. Quest’uomo era convinto di stare facendo la cosa giusta e per questo poteva permettersi di scherzare e andare a letto con la coscienza pulita. Spero che, a questo punto, abbiate compreso perché ho tirato in ballo lui (ma avrei potuto farlo con tantissimi altri mostri). Ecco che così Spagna può intenerirsi alla vista di un piccolo indio che gli ricorda il suo Romano, ma la sua partecipazione emotiva finisce lì, non si cura della fine del povero piccolo innnocente; lui sa di star facendo la cosa giusta, quel che è meglio per tutti e quelle perdite sono tutte finalizzate all’ottenimento di un bene superiore: la salvezza di quei pagani. Ed anche Veneziano può commuoversi ripensando al suo adorato nonnino, cantare e ballare, mentre il fratello continua a lamentarsi e sperare che i nemici vengano fatti fuori al più presto perché non ne può più di stare in quel posto dimenticato da Dio.
La citazione iniziale è uno dei pochi casi (o forse l’unico) di giustificazione dell’imperialismo romano e dei suoi mezzi: solo chi è oppresso da un destino tanto glorioso e da tanto potere, può comprendere che certe azioni di violenza non sono arbitrarie ma dovute (ricordiamo, a tal proposito, anche the white man’s burden, ovvero il fardello dell’uomo bianco, di Kipling). I vincitori non possono permettersi il lusso di obbedire: questi sarebbe decisamente più semplice; loro, invece, devono sudare e lottare e, nel caso in cui l’unico mezzo per sopravvivere è la guerra, quello è il naturale prezzo da pagare. A tale insolenza (detta da un uomo che ha conquistato la Gallia semplicemente per ambizione personale), non si può non rispondere con le parole di un non-vincente, qualcuno che ha vissuto sulla sua pelle questa necessità dei vincitori di non abbassare la guardia. Sono state appunto le parole di Calcago (anche se, sappiamo benissimo che gli autori delle opere, in questo caso Tacito, si servivano della voce dei perdenti per esprimere le loro critiche al sistema romano) a ispirarmi questa fanfic. La scelta dei personaggi è dovuta al mio particolare attaccamento alla famiglia mediterranea, che (penso) chi ha già letto le mie precedenti ff abbia già avuto modo di intuire (sebbene, tecnicamente siano rimasti “tagliati fuori” Francia e Portogallo). Le storie di svolgono in tre epoche completamente diverse: età antica, moderna e contemporanea e sono la dimostrazione che, purtroppo, quando si tratta di violenza, non c’è molta differenza tra ieri e l’oggi, tranne che nei modi di creare distruzione e morte. A proposito della storia di mezzo, quella su Spagna, ero insicura se usare o meno il nostro Pater Noster: la storia si svolge prima del Concilio di Trento e, durante la Controriforma, furono variate numerose cose inerenti non solo le preghiere, ma la stessa conformazione della Messa. Ma, purtroppo, da nessuna parte sono riuscita a scovare in cosa consistesse la liturgia pre-Trento. (si, lo so che le mie sono farneticazioni inutili orz)
I Gracchi (Tiberio prima e poi suo fratello Caio) dovevano essere fermati perché con le loro riforme minacciavano le ricchezze dei senatori e miravano a equiparare nei diritti romani e “alleati” (più simili a “servi” agli occhi dei Romani) italici e per questo sono stati uccisi. È stato detto che, se avessero avuto un minimo di lungimiranza e avessero approvato le riforme graccane, i Romani si sarebbero risparmiati un bel po’ di guai. Vistisi “ignorati” dai Romani, gli Italici si ribellarono e scoppiò così la guerra sociale (dei soci, ovvero alleati), a cui seguirono ben tre guerre civili (Mario vs Silla, Cesare vs Pompeo, Ottaviano vs Antonio), prima che tutto si “acquietasse” con la pax augustea! Gli indios (una volta tolte loro tutte le ricchezze e terre) dovevano essere convertiti al cattolicesimo e “salvati”: le pestilenze e malattie contagiose portate dagli europei avevano naturalmente selezionato i prescelti e del resto se ne sarebbero dovuto occupare missionari e conquistadores, anche utilizzando la forza (orrendo a dirsi, ma scene del genere sono realmente accadute), poiché quelle anime semplici non potevano capire cosa era meglio per loro. I “barbari Abissini”, più civilizzati di quanto l’opinione pubblica italiana non volesse dare a vedere, si frapponevano tra gli Italiani e il loro Impero promesso.
Tutti e tre (Roma, Spagna, Italia) agiscono per assicurare ricchezza e tranquillità e «infine, dove fanno il deserto, dicono che è la pace.” »
 
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: malumgranatum