Suona
un’ultima volta per me, ti prego.
Ti vidi la
prima
volta una sera d’estate, mitigata dal vento proveniente dal
mare, in una
pittoresca via della Città Vecchia, con la strada di sassi e
fiocamente
illuminata dalla luce dei lampioni.
Attorno a
te, il
vociare indistinto e allegro della gente, che ti passava accanto,
ignorandoti.
Tuttavia,
continuavi a suonare, le tue mani abbronzate, così piccole e
affusolate da
stonare rispetto alla tua alta figura, scivolavano con armoniosa grazia
lungo
le corde di quella chitarra creando la musica più bella che
io abbia mai avuto
occasione di sentire.
Mi avvicinai
e tu
alzasti il capo, in quel momento sbagliasti un accordo, io riuscii a
scorgere
il tuo sguardo, l’unica cosa visibile sotto la maschera
argentea che indossavi.
Occhi dello
stesso
colore dell’acqua.
Finita
quell’ultima
canzone, ti alzasti e andasti via, il volto ancora coperto.
Perché
indossi una maschera?
Iniziai a
fantasticare, immaginando i più svariati motivi che ti
portavano a coprirti il
viso. Ti vergognavi, forse? Tentavi di nascondere un difetto, un
problema, un’anomalia?
Se avessi
avuto il
volto sfigurato non mi sarebbe importato, con la tua musica, la tua
magnifica
musica, anche i tuoi lineamenti si sarebbero trasformati sino a
diventare
perfetti. Perché ciò che le tue mani creavano,
muovendosi delicate e veloci in
un incantevole gioco di note, era perfetto.
Non vidi mai
quello
che si celava dietro quella maschera. Mi dovetti accontentare di quegli
occhi
chiari e profondi e di quelle mani, di quelle dita sottili e magiche.
Come mai
fuggivi?
Per quale
ragione
tutte le volte in cui mi avvicinavo a te, tu andavi via?
Perché allontanavi la
tua musica da me?
Eppure tutte
le
sere eri comunque lì, ad attendere che io attraversassi
quella via affollata, a
farmi godere per pochi istanti di una melodia unica e irripetibile. Una
melodia
della stessa consistenza dell’acqua quando si cerca di
afferrarla.
Mi illusi,
probabilmente, che tu suonassi quella musica irraggiungibile per me,
per quei
pochi secondi, prima di andare lontano.
Sciocca,
sciocca bambina.
L’ultima
volta che
ti vidi fu in un angolo di quella vecchia strada, davanti alla vetrina
di un
negozio, vicino a dove sboccava un vicolo buio e silenzioso,
l’unico forse nel
raggio di chilometri.
L’aria
era
impregnata dell’odore della salsedine.
Mi avvicinai
ancora
una volta, in un gesto involontario, ma volsi immediatamente il capo,
per fare
marcia indietro, nel terrore che tu potessi smettere di suonare.
Le tue mani
si
allontanarono dalla chitarra, sì, ma non te ne andasti.
Anzi, mi presi per un
braccio e mi fermasti. Ti guardai negli occhi, in un attimo di puro
stupore,
prima che tu parlassi. Una voce giovane, il tono basso,
l’accento straniero.
Mi facesti
il dono
più bello che potessi desiderare: mi regalasti la tua
musica, per sempre.
E quando ci
dividemmo immaginai che, sotto quella maschera, tu stessi sorridendo.