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Autore: suzako    21/06/2007    5 recensioni
Spiderman non è niente più che un fantasma, adesso [un fantasma che tutti cercano, un fantasma che è già morto] e Peter Parker è solo.
Lui cerca di convincersi che la cosa non gli dispiaccia.
Mentre loro, seppelliti nella polvere, aspettano.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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Era una sensazione completamente estranea.
C’era qualcosa in quella seconda pelle, che lo faceva tremare ogni volta che ne sentiva il gelido contatto: era diverso dall’adrenalina e dal cuore a mille, era diverso dallo schizzare fra i grattacieli di Manhattan, gli occhi puntati sul cielo e il corpo a galleggiare nel vuoto. Era freddo.
Comunque, quello non aveva più importanza.
Perché adesso aveva la forza, il potere assoluto: tutto ciò che gli serviva. E anche se c’era qualcosa, qualcosa di perverso, qualcosa di oscuro in quella seconda pelle, nel modo in cui sibilava, sibilava e scorreva, come il sangue fra le dita, il sangue sugli occhi, il sangue dappertutto, il sangue che lui faceva scorrere, continuamente.
Era una sensazione completamente estranea.
Ma di una cosa, Peter Parker era sicuro: gli piaceva.



.A Dark Heart, Beating



Le cose non erano davvero più state le stesse da quando aveva ucciso Harry.
O meglio, il Goblin. La sua espressione era stata la ironicamente identica, nel momento in cui la stessa lama che aveva ammazzato suo padre l’avevo trapassato da parte a parte. Quali erano state le sue ultime parole…?
Ah, sì. Qualcosa come ‘ti odio, ti odierò per sempre.’
Stupido Harry. Era stata una bella seccatura ucciderlo. Fingere che si fosse fatto coinvolgere nella lotta contro Sandman, e da quest’ultimo fosse rimasto ucciso, era stato più difficile del previsto. La polizia non si fidava di lui. Non più.
Ma non gli importa. Non ha bisogno né di loro, né di Harry, né di Lei. Non più.
La città ora è diversa, o forse sono diversi gli occhi con cui la guarda: non s’era mai accorto di come s’innalzassero cupi i palazzi, e delle guglie frastagliate delle chiese. Al suo passaggio la gente non alza più lo sguardo ammirata, ma riabbassa subito gli occhi, spaventata.
Le foto che adesso lo ritraggono mentre sfreccia da una parete all’altra, le fa direttamente Edd Brooks. Lui non ha tempo per quello, adesso. Non ne ha bisogno. Il ragazzo avevo uno sguardo fra il disgustato e il terrorizzato, quando avevano stipulato l’accordo, ma non s’era tirato indietro. I giornali continuavano con la loro entusiasta quanto inutile critica, ripetitiva nelle stesse, angoscianti forme. Hanno paura di lui. Lo temono. E’ una forma di rispetto, e per Peter Parker è una sensazione completamente nuova. Non è sicuro che gli dispiaccia.

Qualche volta, sua zia torna a trovarlo.
Non entra. La porta di quella stanza è sempre troppo vecchia e troppo rotta, e le sue braccia sono sempre troppo vecchie e troppo deboli per forzarla. Non che c’abbia mai provato. Le sue mani secche e tremanti si limitano ogni volta ad avvolgersi, con una sorta di patetica amorevolezza, alla maniglia, sfiorandola, accarezzandola.
Lei parla, dietro a quella porta, e di solito, nel mezzo di un discorso vaneggiante e sconnesso, incomincia a piangere, prima quietamente, poi in singhiozzi rumorosi e irregolari, che rendono la sua voce ancora più lamentosa e tremula. Lei si chiede quand’è che lui tornerà a casa, perché è molto che l’aspetta. Anche suo Zio Ben lo aspetta, da tanto, tanto tempo. Ma lui non torna, si chiede cosa gli è successo, era tanto un bravo ragazzo, così buono, così buono.
E’ così vecchia. E ogni volta che è costretto a sentirla, Peter si chiede quando lo sarà abbastanza da non riuscire a salire i cinque piani di scale, e lasciarlo in pace, perché lei sta rincorrendo un fantasma, perché colui che cerca è morto, morto, da tantissimo tempo.
E’ per questo che lui ha comprato quell’attico, adesso: è lontano, lontano da quella logora stanza ammobiliata, alla quale fa ancora ritorno, certe notti in cui non è in grado neanche di togliersi la maschera, ma così raramente, talmente di rado che ormai è coperto di polvere, tutto è coperto di polvere, e alle volte si lascia coprire dalla polvere anche lui, per sparire, solo fino alla prossima alba.
Ma oramai sta sempre in quell’appartamento al dodicesimo piano, dove New York è visibile, cupa e superba in tutte le direzioni. Ma lei, Zia May, ignara, continua a tornare lì, davanti a quella porta sempre più rotta e sempre più polverosa, a piangere e pregare, pregare e piangere fino a sciogliersi gli occhi, e parlare al niente, a un fantasma che non è più lì, senza neanche saperlo, e pure quando lo butteranno a terra, perché è un palazzo vecchio e pericolante e non serve più a nessuno, proprio come lei, vecchia e che non serve più a nessuno, continuerà a tornare lì, a piangere fra la polvere, e chiedere al vento, ‘dove sei, dove sei’ e neanche questo risponderà, perché anche il fantasma sarà morto ormai.
Quella scena continua a ripetersi, e Peter Parker non è sicuro che gli piaccia.

Peter non avrebbe voluto uccidere Mary Jane.
O perlomeno, non lui. Lui no. Ma l’altro… Non doveva essere stato dello stesso parere.
C’erano dei momenti… Dei momenti in cui l’altro prendeva il sopravvento, e allora era come se sulla sua mente calasse uno strato nero e denso, un cortina di fumo che gl’impediva di vedere. Ed era come assistere alla sua vita dalla seconda fila, senza possibilità di prenderne parte.
In alcuni momenti, lo trovava addirittura liberatorio. In quei momenti, l’altro si faceva ancora più insistente, e sussurrava, un mormorio folle e concitato nella sua testa, parole che non riconosceva o non voleva riconoscere, e continuava, continuava ininterrottamente.
Lui non ascoltava. Cercava di non ascoltare.
Però l’altro continuava a mormorare, scorreva, s’insinuava sotto la pelle, era sempre, costantemente lì, anche quando non aveva addosso la maschera, anche quando credeva di essere solo.
E aveva capito che l’unico modo perché se ne stesse zitta, era assecondarla.
A volte bastava semplicemente colpire più forte. Il sangue usciva con una facilità impressionante dal corpo umano. Aveva incominciato a portare lame nascoste nel costume. Dopotutto, che qualche delinquente venisse ucciso, non importava davvero a nessuno. Lui era la giustizia. E loro avevano paura di lui. Bastava non urlassero. L’altro non sopportava le grida.
E in un altro senso, non le sopportava neanche lui.

Lui non avrebbe voluto ucciderla. Ma l’altro sì.
Era stato un incidente, tutto un incidente. Mary Jane non si sarebbe dovuta trovare proprio in quel negozio, mentre quell’idiota tentava una rapina. E neanche, lui, avrebbe dovuto prendere proprio lei in ostaggio. Non avrebbe dovuto farlo. Quella volta, al voce non aveva dovuto dire niente: la ragnatela l’aveva soffocato in pochi minuti.

- Hai visto, Ann Jane? Ti ho salvata, come sempre. – aveva esclamato voltandosi verso di lei, la maschera strappata in più punti, e un sorriso tirato sulla labbra.

- Era molto tempo che non succedeva, certo… Molto tempo… - aveva aggiunto poi, assumendo un’espressione falsamente pensosa, mentre percorreva a passi lenti e misurati il tetto dell’edificio.

Lei aveva i capelli rossi e corti che le frustavano la faccia, un’espressione terrorizzata negli occhi, mentre indietreggiava a ogni suo passo.

- Beh? Che hai, quel tipo t’ha strappato la lingua? – aveva borbottato lui dopo un po’, guardandola, perplesso.

I capelli disordinati, gli occhi opachi, le gambe magre… Non la ricordava così patetica e sgraziata. Per lui, era sempre stata la donna più bella del mondo. Ma aveva scordato il perché.

- Io… Io non mi chiamo Ann Jane. Non… - aveva incominciato a mormorare sconnessamente, scuotendo la testa, continuando ad arretrare, le mani strette al petto.

- Ah. Sì, scusami. –

Lei continuava ad indietreggiare. A piccoli passi, strisciando, sempre più indietro, sempre di più. I suoi occhi smarriti lo guardavo, ma sembravano non vederlo [anche loro cercavano un fantasma] La ferita sul labbro era ancora là.

- Dovresti andartene, credo. – aveva detto dopo qualche secondo di silenzio, squadrandola con aria annoiata. – Ti porto io giù. – aveva aggiunto, tendendole una mano.

E lei aveva gridato.
Un grido acuto, troppo debole perché potesse essere udito da lì in alto.

Lui avanzava, lei indietreggiava.

- Anche tu hai paura, vero? Ma questa volta, ti concedo di non averne. Ti riporterò giù… - e aveva cercato di toccarla.

- No… No! –

Era successo tutto con una lentezza strabiliante.
Le sue gambe, che continuavano a tremare, erano andate a cozzare contro il basso parapetto. S’era accorta quasi subito della repentina perdita dell’equilibrio, e il suo volto aveva assunto un’espressione grottesca, una smorfia terrorizzata. Aveva agitato le braccia a vuoto, prima di precipitare verso il basso, con un suono strozzato.

Lui si era avvicinato al bordo dell’edificio, per osservarla meglio. Stava cadendo a testa in giù, le braccia s’agitavano convulsamente nell’aria, come nello spasmo di un uccello che non può volare. I corti capelli rossicci mulinavano nel vento. Non riusciva a vedere il suo viso.

Di fronte un’immagine così ridicola, non poté fare a meno di ridere.

Avrebbe dovuto salvarla. Una flessione del posto, e la ragnatela l’avrebbe salvata da morte certa. Poteva farlo. Non gli costava nulla.

L’altro aveva incominciato a mormorare, mormorare con voce sibilante, mormorava parole che non riusciva a udire, ma che lo confondevano troppo per fare qualsiasi cosa.

Una sola parola, chiara, limpida, spiccava sopra il continuo gorgoglio.

Nonpotrestifaraltrochetudevihaidimenticato [Uccidila] tornaremaipiùdimentica [Uccidila] lorononsannoncapisconontornarea [Uccidila] nontornareindietrononpiùnonpiù

[Uccidila]

Era stata la prima volta che aveva capito le parole dell’altro. Ma non l’ultima.

Quella volta, però, era riuscito a pensare che lui non avrebbe mai ubbidito agli ordini di un altro. Perlomeno, non in quel caso.

La ragnatela schizzò veloce verso terra, catturandola pochi metri prima che toccasse il suolo. Lui l’aveva tirata su con aria indolente, prendendola in braccio, in equilibrio sull’asta di una bandiera. In basso, per le strade, della folla di persone solo pochi osavano alzare lo sguardo.

Poi, lui l’aveva chiamata.

- Ann Jane. Ann Jane. –

Silenzio.

- Ah, già. Non ti chiami così. –
L’aveva scossa un poco, e i capelli le erano scivolati via dal volto.

Aveva gli occhi sbarrati. Aperti, fissi.
La bocca contratta, le braccia rigide e il collo piegato in maniera innaturale.
Morta. Solo un cadavere.

Peter aveva mollato la presa, lasciandola precipitare verso il suolo.

[si era accorto di quale fosse il suo vero nome solo dopo averlo letto sulla pietra tombale]

Non era colpa sua. Lui l’aveva salvato di nuovo. E lei aveva avuto pure la faccia tosta di morire comunque. Stupida Mary Jane. Non l’aveva uccisa. Non voleva morisse, quindi non l’aveva uccisa.
Era certo della proprio innocenza come della sua morte
Era una sensazione che non riusciva a concepire.
Ma di sicuro, la cosa a Peter Parker non piaceva molto.

* * *


Era una sensazione completamente estranea. C’era qualcosa in quella seconda pelle, qualcosa di oscuro, qualcosa di sbagliato, ma che non gli impediva di sentirsi v i v o ogni volta che la indossava. Era una sensazione diversa dall’adrenalina, perché non c’era il cuore a mille e gli occhi puntati su un cielo grigio che per un attimo sembrava il più bello del mondo, no, non era così.
Era semplicemente il potere. La forza assoluta.
Adesso Harry era morto, e anche Mary Jane era stata uccisa [da chi? Non ricordava] quindi lui non aveva assolutamente più nulla che lo tenesse legato. Libero. Libero, come diceva l’altro.

Non possedere nulla.
Era una sensazione completamente estranea.
Ma a Peter Parker, piaceva convincersi che gli piacesse.




[E p i lo g o]



A Peter Parker non piace voltarsi.
Loro sono là, che aspettano, e lui lo sa: aspettano il nemico che non saprà battere, aspettano il piede che metterà in fallo, aspettano la trappola dalla quale non saprà difendersi.
Loro attendono, sempre dietro di lui, sempre con lui.
Sua zia ha già passato la vita ad attendere, dietro quella porta: una morte nell’attesa non fa alcuna differenza per lei. Magari neanche se n’è accorta, di essere morta. Dopotutto, continua ad aspettare.
Harry non è così paziente, soprattutto perché non accetta l’idea che i morti non uccidano, e lui sa di essere morto: vuole che Peter muoia, ma allo stesso tempo desidererebbe essere lui quello che lo uccide. In maniera sciocca e infantile, spera che esista un modo per soffrire anche così.
Mary Jane aspetta, perché semplicemente, non ha nient’altro da fare. Se ne sta così, i gomiti appoggiati alle ginocchia, gli occhi chiari e ansiosi che seguono ogni suo movimento. Lo osserva. E aspetta.

Tutti loro, attendono il giorno in cui lui tornerà a casa.

E allora, la festa non avrà fine.





.
.
.

Okei, spiego alcune cose:
La… roba che avete davanti è frutto di un pomeriggio al cinema con Ross, quindi il 40% della colpa è sua, ecco. Mica sono solo io che mi basta vedere un film orrendo quale è il terzo di Spaidèrmen per fare i viaggio mentali.
Poi, voglio mettere per inciso che questa storia è interamente riferita alla saga cinematografica del suddetto supereroe, e non al fumetto: la scena della morte di Mary Jane contiene un riferimento, che qualche 'cultore' riconoscerà sicuramente.
Per concludere, ci tengo a precisare che questa storia è volutamente e forzatamente dark/emo/OOC, ne sono consapevole XD Qualsiasi tipo di osservazione è comunque ben accetta.

Ja ne,

suzako
  
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