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nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare, riprendere, tradurre
questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito
permesso.
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Skywriting
di Kanchou
Noi, noi due, abbiamo annullato
tutto, fuorché la libertà, fuorché la gioia.
(Walt Whitman)
1.
“Per il cielo, il ragazzo vola come
un dio!” esclamò George Head, attorcigliando un baffo tra la punta delle dita.
Se ne stava appoggiato con la schiena al fianco argentato della vanship, la
creatura volante che aveva costruito con le proprie mani per il primo pilota di
Anatorey, il genio dell’aria e suo più grande amico, Hamilcar Valca. Hamilcar,
appunto, un passo avanti a lui, le mani in tasca e lo sguardo volto al cielo con
un’espressione ironica, rispose: “E non ha nemmeno sei mesi di
volo…”
La vanship che sfrecciava a qualche
decina di metri sopra le loro teste combinando spavaldamente una catena di
looping tagliava il blu come la lama di una sciabola.
“Fa venire i brividi” disse George.
“Alla sua età…Così freddo, preciso.”
Hamilcar si voltò verso l’amico.
Sorrideva, più che con le labbra, con gli occhi gentili, nei quali l’azzurro
delle pupille aveva la stessa freschezza dell’acqua pura. Per un attimo a George
venne in mente il volto simpatico del figlioletto di Hamilcar, il piccolo Claus,
che aveva ereditato quegli occhi e forse lo stesso spirito di sognatore
inguaribile del padre.
“No,” disse Hamilcar “Alex non è
freddo. Uno che fa un Immelmann turn come quello non può essere freddo” disse
tornando a puntare con lo sguardo la vanship sfrecciante nel cielo. “Guarda:
quella è passione controllata, concentrata in ogni gesto.”
La vanship scese in picchiata su di
loro, li sfiorò, fece venire uno spavento a George, e atterrò senza tante
smancerie a pochi metri di distanza. Alex, il pilota, saltò giù dall’abitacolo
sull’erba verde del campo di addestramento di Hamilcar Valca a Nordkhia. Si
muoveva con un passo lento ma secco, elegante, senza alcun ondeggiamento delle
spalle e della testa, effetto della lunga istruzione militare, della nascita
aristocratica e del carattere indolente. Gettò via il casco, passò
distrattamente una mano tra i capelli, neri, densi, che si erano attaccati alla
fronte, e si avvicinò, gli occhi puri e sfuggenti, l’espressione vagamente
corrucciata e sulle labbra il casuale accenno di un sorriso, come per dire Sì, mi
sono accorto di voi, che aveva il potere di stimolare l’umorismo di George e
di far innamorare qualsiasi essere di sesso femminile si trovasse nei
paraggi.
“L’Immelmann era largo” si limitò a
dire Hamilcar.
Alex chinò la testa e annuì
mitemente. “Vuoi che torni su a rifarlo?”
Hamilcar adorava Alex per dettagli
come questi, per la sua mitezza, per l’intensità e la serietà con cui portava
avanti i propri impegni, e lo amava ogni giorno di più, come un figlio o un
fratello minore. “Ti ho trovato un navigatore” annunciò.
Gli occhi lunghi, ambrati del ragazzo
s’illuminarono. Da quando aveva cominciato a volare, Hamilcar gli aveva
assegnato navigatori sempre diversi. Tra i suoi piloti Alex era l’unico senza un
navigatore proprio, uno con il quale avesse trovato quella sintonia che
permettesse di volare con perfetto accordo. Sulla vanship due persone dovevano
diventare una sola – era un’alchimia fondamentale. Per Alex non avere ancora un
proprio navigatore era una macchia di cui dare la colpa a se stesso,
all’individualismo esasperato che l’aveva portato a entrare spesso in conflitto
con la disciplina dell’Accademia imperiale. Ma Hamilcar, che considerava Alex il
migliore, oltre che destinato ad una sorte ancora incerta ma senza dubbio
speciale, sapeva che il suo navigatore non poteva essere una persona qualsiasi.
Il navigatore di Alex avrebbe dovuto essere una persona come lui, uno che volava
in un cielo diverso dagli altri, un cielo più alto e puro. E questa volta
l’istinto gli diceva che l’aveva trovato.
“Quando volerà con me?” domandò
Alex.
“Domani.”
“Ma bada” aggiunse George, che aveva
una gran voglia di dire la sua sull’argomento. “Per come la vedo io, questo
navigatore ti metterà in riga.” Scoppiò a ridere e gettò una pacca pesante sulla
spalla del ragazzo. Così, continuando a ridere, se ne andò con Hamilcar verso
l’hangar.
Alex rimase da solo, fermo sul prato
verde del campo di addestramento. La brezza che gli accarezzava i capelli e
faceva tintinnare la cinghia della giacca da aviatore era il respiro stesso
della sua anima.
§§§
2.
A diciotto anni Alex non aveva la
fatuità o la leggerezza dei ragazzi della sua età e nemmeno l’ambizione della
carriera militare. Quella che bruciava nel cuore di Alex era un’ambizione
diversa, sebbene non avesse ancora una direzione definita. Alex desiderava
essere il migliore non per sovrastare gli altri, ma per essere libero. Essere
sopra gli altri significava non dover obbedire a nessuno, non dover essere
umiliato da nessuno. A Hamilcar obbediva, certo, ma soltanto perché si fidava di
lui.
Sapeva che persone come il suo
istruttore-amico erano rare. Gli anni dell’Accademia gli avevano insegnato che
persino tra i militari la cavalleria è soltanto una maschera per coprire
debolezza e meschinità. Essere stato il miglior allievo, aver lavorato ogni
giorno per perfezionare se stesso, non l’aveva risparmiato dall’invidia dei
compagni e dall’ottusa severità dei superiori nei confronti di una personalità
carismatica e sfuggente come la sua. Schivo, taciturno e intelligente com’era,
si era mosso abilmente per evitare il peggio, ma aveva compreso che l’Accademia
era lo specchio fedele di quella che sarebbe stata la carriera militare. Persino
con Vincent, il suo migliore amico, aveva soltanto accennato a questo disagio.
Lo spensierato Vincent non poteva comprenderlo perché era fatto per vivere nel
mondo, non sopra il mondo come lui.
Poi Alex aveva visto la vanship di
Hamilcar Valca passare nel cielo e in un attimo aveva capito il vero significato
della parola volare. Non avere il
comando prestigioso di una nave, non servire Anatorey nei cieli. Il cielo mette
a nudo il vero carattere di un uomo e la natura dei suoi sogni. Hamilcar voleva
cambiare il mondo a partire dal cielo. E fresco di Accademia, Alex aveva
sorpreso tutti non chiedendo di prendere servizio sulla nave dell’ammiraglio
Mad-thane ma di cominciare l’addestramento come pilota di
vanship.
“Sei il solito pazzo” gli aveva detto
Vincent.
“Mmhh” era stata la risposta di Alex,
e agitando scherzosamente una mano in segno di saluto si era voltato ed era
andato via.
§§§
3.
C’erano giorni in cui il cielo non
chiedeva altro che di essere accarezzato, blandito, penetrato dalla vanship:
libero dalle nuvole, blu intenso, quasi finto, ti faceva perdere il senso del
tempo e della distanza, come il sesso fatto bene, come una donna appassionata.
Alex era arrivato al campo di addestramento con questo pensiero, avendo tenuto
gli occhi fissi al cielo per tutto il tempo del tragitto. La primavera era
esplosa nel cielo di Anatorey, l’aria profumava di tutti gli odori. Volare non
sarebbe stato così bello fino all’anno successivo.
“La tua vanship è già pronta là
fuori” gli disse George, senza staccare l’attenzione dal motore che stava
revisionando. “E non l’ho preparata io, oggi.”
“Mi sbaglio o stamattina George se la
ride sotto i baffi più del solito?” pensò Alex, ma non volle dargli la
soddisfazione di farsi prendere in giro per qualcosa di cui non aveva ancora
capito la natura. Indossò il casco di cuoio e si mosse verso la
vanship.
Era persino accesa, e sul sedile
posteriore, quello del navigatore, una persona stava già in posizione, casco in
testa, occhiali para-vento e tutto quanto al suo posto.
“Sei tu Alex Row?” gli disse quella
persona.
Una ragazza. Ecco perché George
sghignazzava e gongolava dal giorno prima.
Alex annuì.
“Io sono Euris.” La ragazza sorrise
sotto le grandi lenti degli occhiali da volo. “Sei in
ritardo.”
George l’aveva sicuramente istruita
ben bene per farlo irritare e divertirsi alle sue spalle.
“Bene, Euris. Vedo che cerchi di
farmi sentire subito a mio agio col nuovo navigatore.”
“Non è detto che io decida di
esserlo.”
Alex fece finta di non aver sentito,
entrò nell’abitacolo e fissò le cinghie e la cintura di sicurezza. Prima di
indossare gli occhiali, si voltò indietro.
“Perché mi attacchi, Euris? Hai forse
paura che io non ti voglia?”
La ragazza rispose qualcosa, ma Alex
non lo sentì perché aveva messo in moto la vanship, che rullò sul prato e si
alzò rombando nel cielo, dritta contro il sole. In un attimo l’hangar e le
vanship non ancora decollate diventarono macchioline di tutti i colori del
metallo, l’argento, il piombo, il rame, contro il verde ondeggiante della terra.
Euris non si era fatta cogliere di sorpresa e aveva dosato con abilità
l’iniezione di carburante e il giusto livello di pressione. La vanship scivolò
rapidamente ad altezze smisurate.
“La ragazza è un navigatore di
classe” pensò subito Alex, ma si guardò bene dal ripeterlo ad alta
voce.
“Con chi volavi prima, Euris?”
domandò gridando nel vento.
“Con Hamilcar. Mi ha istruito lui,
insieme a George” gridò lei.
Alex non si aspettava una risposta
del genere. Hamilcar e George non avevano molto tempo da sprecare e quella
ragazza non si era mai vista nell’arsenale di Nordkhia. Questo significava che
Hamilcar l’aveva istruita durante i periodi in cui lasciava Nordkhia, per
esempio quando andava nella città imperiale per incontrarsi con il Consigliere
imperiale Marius Bassianus e per visionare la costruzione della super-corazzata
Silvana.
“Non te la prendere” disse Euris,
notando che Alex rimaneva soprappensiero. “Vedila così: con me, Hamilcar ha
voluto farti un gran bel regalo: il miglior navigatore di Anatorey dopo lo
stesso George Head.”
“Complimenti per la modestia!”
esclamò Alex. “E adesso, se non ti dispiace, miglior navigatore, potresti dirmi
le istruzioni di Hamilcar per oggi?”
“Nessuna istruzione. Ha detto che
oggi puoi fare quello che ti pare.”
“Non chiedo di
meglio.”
Alex virò senza avvertire, e per
mettere subito le cose in chiaro scese in picchiata, fece un fiesler da manuale,
tornò su, il tutto tagliato perfettamente, come un coltello. Euris non fece
nemmeno un errore, lo assecondò come se gli avesse letto nel
pensiero.
“Interessante” disse Euris. “E’ tutto
quello che sai far…”
Alex aveva già capovolto la vanship
di 180° e stava andando a tutta velocità a volo rovescio. La manovra gli riuscì
talmente bene che, appena rimessa la vanship in posizione, non poté trattenere
la curiosità di vedere la faccia della ragazza. Euris si fece trovare mentre
sbadigliava. “Non c’è male. Ma quando arriva il bello?” gli
disse.
Hamilcar l’aveva fatta grossa ad aver
scelto per lui l’unico navigatore capace di fargli saltare i
nervi.
“Sai, non vorrei tornare a terra col
navigatore in red-out.”
“Per questo non c’è
problema.”
“Allora si fa sul
serio?”
“Sul serio.”
E Alex cominciò la più lunga, la più
assurda ed estrosa esibizione di volo acrobatico, un fuoco d’artificio, un
delirio di tutte le figure, dalla lettera A alla Z del manuale di volo. A terra
gli altri piloti non credevano ai propri occhi, si erano radunati attorno a
Hamilcar per chiedere se Alex non fosse impazzito, e George se la rideva come un
matto.
In questa follia aviatoria, mentre
Euris seguiva docilmente e prontamente la fantasia spericolata del pilota e il
sangue gorgogliava nelle vene sottoposto a sbalzi di pressione e di velocità e
sciogliendo la sensazione del tempo e dello spazio, lassù, nel cielo più azzurro
dell’anno, accadde qualcosa, una magia, un’esplosione silenziosa. Accadde ciò
che non era mai accaduto con nessuno. Alex sentì pulsare all’unisono col proprio
il cuore di Euris, respirò col suo respiro, pensò con la sua mente. Euris sapeva
volare come lui, e mentre la sensazione di lei cresceva, più nitida, più intensa
ogni momento, Alex sentiva di poter far meglio, di poter volare come non aveva
mai volato, leggero e veloce come non era mai stato, sicuro perché c’era lei. E
sapeva che la stessa forza, la stessa commozione aveva catturato anche il cuore
di lei.
Non c’era più nulla da dire.
Tornarono a terra in silenzio, spensero la vanship, slegarono le cinghie in
silenzio. Saltarono giù nello stesso istante, ma Euris si mosse come se volesse
scappare.
“Aspetta!” gridò
Alex.
Euris si fermò. Mentre immobile gli
dava le spalle, Alex poté notare per la prima volta la figura snella e delicata
sotto la forma pesante della giacca da aviatore.
“Sarai il mio navigatore…” disse, con
la voce che gli spariva nell’emozione, “Euris?”
La ragazza chinò la testa in segno di
assenso. Mosse un altro passo, e Alex, il cuore impazzito nel petto, la
trattenne per una spalla, la costrinse a voltarsi.
“Non andare” le
ordinò.
Delicatamente, le tolse dal viso gli
occhiali para-vento. I propri, li aveva già gettati via, sul prato ai piedi
della vanship. Ecco, con sgomento, li riconobbe: gli occhi scuri, dolcissimi, di
lei erano quelli che non credeva potessero esistere al mondo, lo specchio dei
propri, gli unici capaci di comprenderlo. Stavano incollati ai suoi, e in quel
momento era come se lui e lei, uniti dagli occhi, stessero appesi in equilibrio
su un filo invisibile. Un voce gli parlava nel cuore e gli diceva: “Vedimi,
perché io ti vedo.” Alex liberò i capelli corvini dal
casco.
Lei lo comprese, fece lo stesso. E
Alex rimase senza respiro. Dal casco sprizzò un’onda di capelli lucenti dello
stesso colore delle foglie d’autunno, delle bacche e dei frutti di bosco,
profumati come le nocciole, le castagne, le resine nascoste degli alberi. Si
sentì perduto in quel colore vivo, e d’un tratto avvertì dolorosamente il
desiderio di toccarla, di sfiorare con le labbra quella massa ondeggiante, di
affondarvi col capo.
Avevano poco tempo, George, Hamilcar
e tutti gli altri stavano arrivando.
“Rispondimi” la
implorò.
Euris, la ragazza avventurosa e
spavalda che poco prima l’aveva sfidato e aveva giocato con lui, travolta dal
sentimento nuovo, gigantesco che le era appena esploso nel cuore, trovò soltanto
un filo di voce dentro di sé. Tremando gli rispose: “Sì, sarò il tuo
navigatore.”
§§§
4.
Passarono settimane. Insieme vinsero
la gara di Horizon Cave, e in un modo talmente nuovo e temerario da entrare
nella leggenda della corsa. Hamilcar assegnò loro le missioni più difficili.
Cominciarono le prime perlustrazioni del Grand Stream, i primi scontri con
In quelle settimane Alex si affezionò
alla famiglia di Hamilcar, da poco trasferita non lontano dal campo di
aviazione, a Nordkhia. Cominciò a
prendere forma definitiva il piano segreto contro
Ma tra loro due le cose non furono
facili. In cielo era tutto perfetto come nel momento segreto che avevano
condiviso il primo giorno, diventavano una cosa sola, un’unità armoniosa. Ma
appena mettevano piede a terra non riuscivano a fare a meno di avvicinarsi e di
respingersi, di tormentarsi, e di lasciarsi poi tutte le volte con una
sensazione di infelicità, di frustrazione, di rabbia, come se non potessero fare
a meno di scontrarsi, di lottare l’uno contro l’altra, come le nubi in una
tempesta.
Euris, che aveva conquistato la
propria indipendenza dalla vita più tranquilla che il padre, Marius Bassianus,
avrebbe voluto per lei, era troppo orgogliosa per ammettere di avere bisogno di
Alex e di desiderarlo più di ogni cosa al mondo. Persino quando si lanciavano
nei lunghi e ormai proverbiali battibecchi, la forza trascinante della
personalità di Alex, la bellezza timida e disarmante dei suoi occhi mettevano a
dura prova la regola che aveva imposto a se stessa: “Non dipendere da nessun
uomo.”
Per Alex la questione era diversa.
Cedere al sentimento che lo spingeva verso di lei significava resuscitare quel
lato della propria vita che teneva nascosto come un segreto. Alex era solo al
mondo, aveva perso i genitori quando era piccolo e per sopravvivere si era
convinto di non avere bisogno dell’affetto di nessuno. Se avesse permesso a
Euris di prendere il suo cuore, si sarebbe sentito debole, indifeso come una
lumaca senza guscio, avrebbe dovuto ammettere di avere bisogno di amare e di
essere amato.
Non sapeva che erano proprio i suoi
silenzi e i momenti in cui si allontanava da tutto, come se non gli importasse
di nulla, nemmeno di se stesso, ad attrarla verso di lui, come se Alex le
risvegliasse nelle viscere un desiderio prepotente di proteggerlo, di curare la
sua solitudine.
“Alex.”
Il ragazzo sollevò gli occhi dalle
carte e i grafici aperti sul prato davanti all’hangar. Euris gli stava spiegando
la meccanica dei ricognitori della Gilda.
“Credi che sia divertente lavorare
con te?”
Il ragazzo mosse le sopracciglia in
modo interrogativo.
“Sto parlando da un’ora e tu non hai
mai detto niente, non hai ma fatto nemmeno una domanda. Se non te ne importa
niente, finiamola qui.”
Alex si rabbuiò nello sgradevole
sentimento della delusione. L’aveva ascoltata con rispetto e attenzione. Aveva
apprezzato la sua conoscenza profonda, la sua capacità di esporla con
l’intelligenza degna di un ingegnere della Gilda. Aveva assecondato il piacere
di imparare da lei. Non parlando, lasciandola libera di seguire i suoi pensieri,
si era persino sentito vicino a lei, lì sulla terra del prato, come sulla
vanship in volo. Euris non poteva non averlo capito. Lo stava provocando, stava
cominciando una nuova battaglia.
Si alzò in piedi e prima di andarsene
verso l’hangar, le rispose freddamente: “Hai bisogno di complimenti da me? Non
credevo fossi tanto insicura.”
Euris era rimasta immobile sull’erba.
Rannicchiata, col mento appoggiato sulle ginocchia, combatteva per non corrergli
incontro. L’aveva fatto di nuovo, aveva trovato il modo di ferirlo proprio
quando era più indifeso. Proprio quando, silenziosamente, delicatamente come
faceva lui, la faceva sentire felice.
§§§
5.
La piccola Sophia ebbe la prova di
quanto fossero vere le dicerie sulla squadra di vanship di Hamilcar Valca, e in
particolare su una certa coppia di pilota e di navigatore, quando vide scendere
Alex e Euris dalla vanship. Nella città imperiale si diceva che a Nordkhia
stesse nascendo una nuova concezione del cielo. Sophia comprese che non si
trattava soltanto di nuove tecniche di volo e nemmeno di un fatto di meccanica.
Quelle persone avevano portato al volo ciò che ancora non aveva: una
visione.
Appena la vanship fu atterrata nel
solito modo essenziale e elegante, Sophia corse verso la pista con tutta la
grazia di una fanciulla di 10 anni e una considerazione molto scarsa del proprio
rango imperiale. A un certa distanza dalla vanship, tuttavia, si fermò. Euris e
il suo pilota erano già in piedi ad attenderla, ma le apparvero diversi da come
si aspettava. Sembrava che ancora non si fossero accorti di toccare terra,
sembrava che un’energia particolare, una specie di vento di vita, di gioia, di
libertà facesse vibrare l’aria intorno a loro. Erano semplicemente luminosi. Fu
come un folgorazione, a Sophia parve di non avere mai visto nulla di più
bello.
“Sophia!” gridò Euris, e la bambina
le corse tra le braccia. Sophia era la cugina di Euris, era cresciuta insieme a
lei, nella città imperiale. Marius si era occupato di lei come un padre,
compensando la mancanze affettive di una bambina che aveva perduto la madre
troppo presto e che per padre aveva un imperatore.
A Alex parve curioso vedere come
Euris si lasciasse andare alla commozione di rivedere quella fanciulla. La
piccola sembrava, tuttavia, una persona speciale. Per l’aspetto e la statura
dimostrava dieci anni o poco più, nonostante avesse già indossato la divisa dei
cadetti dell’Accademia, ma nel suo contegno, nel suo sorriso, negli occhi
gentili e intelligenti e persino nella voce c’era qualcosa che la faceva
apparire più adulta. Quella bambina incuteva rispetto.
Onorando le dovute forme di corte,
Euris introdusse Alex alla principessa. Alex s’inchinò leggermente e subito
sorrise, ma con un sorriso strano, un sorriso serio, di quelli che si rivolgono
alle persone come per comunicare che ci si attende molto dalla loro conoscenza.
La piccola gli rispose con lo stesso tipo di sorriso, ma
arrossendo.
“Abbiamo deciso di essere socievoli
oggi, eh, Alex?”
La voce apparteneva a un’altra
persona che si era avvicinata nel frattempo. Sarebbe bastato il tono
canzonatorio a farne riconoscere il proprietario. Accanto a Sophia adesso c’era
un ragazzo della stessa età e della stessa altezza di Alex, ma con i capelli
biondo scuro, gli occhi azzurri, e, a compensare la postura disinvoltamente
militare, un’espressione beffarda e canagliesca sulla
faccia.
“Che bella sorpresa…” disse Alex nel
modo più scherzosamente disinteressato di tutto il suo
repertorio.
L’altro gli aveva già buttato un
braccio intorno alle spalle, facendogli pesare addosso il peso di mezzo corpo.
Si staccò soltanto per fare un inchino a Euris appena Sophia lo presentò come
Vincent Alzey. Vincent, essendo il più caro amico di Alex e non avendolo visto
da mesi, si era offerto di farle da scorta durante la sua visita a
Nordkhia.
“Euris,” disse solennemente Vincent
“io sono quello che ha sopportato Alex per anni prima di
te.”
La ragazza era divertita. Se quello
era il migliore amico di Alex, non si poteva immaginare una coppia più assurda.
Tanto Alex era riservato, tanto Vincent esuberante. Eppure qualcosa sembravano
avere in comune, forse una fermezza d’animo, un modo sottile di essere nobili
senza sforzarsi di apparirlo. Due cavalieri da leggenda, se le leggende fossero
state ancora possibili nei tempi in cui vivevano.
“Vi ho portato un regalo
speciale.”
Alex sospirò. “Fammi indovinare. Per
caso del caffè?”
“Un ottimo caffè, vecchio mio. Che ci
berremo allegramente adesso.”
“Vince, dovresti trovarti una
ragazza.”
Più tardi l’hangar di Nordkhia
risuonava di risate e di racconti. Il caffè non fu lasciato solo, ma poté godere
della compagnia dei dolci di cui la moglie di Hamilcar non mancava mai di
rifornire tutta la squadra.
Euris e Sophia avevano raccontato
della loro vita insieme. Vincent aveva fatto morire dal ridere le ragazze con
aneddoti divertenti sull’Accademia e sul tirocinio a bordo, il cui principale
protagonista era Alex. Alex aveva sorriso, sforzandosi di non sembrare divertito
più del dovuto per non dare troppa soddisfazione a Vincent. In realtà, sapeva
che proprio questo tipo di atteggiamento era la miccia che scatenava l’umorismo
dell’amico, e quindi, semplicemente, cercava di mantenersi nella
parte.
Intanto lui e Euris, come se quella
piacevole compagnia avesse innescato una tregua delle loro ostilità, si
cercavano contro la propria volontà scambiandosi sguardi silenziosi. E quando
lei non se ne accorgeva, Alex poteva osservarla, pensando a quanto quella
ragazza fresca e intelligente, che regalava la sua luminosa dolcezza a tutti
tranne che a lui, fosse diventata la sua ossessione, il suo tormento, e l’unica
possibile causa di ogni sua felicità.
La piccola Sophia le somigliava
molto, era esattamente lo stesso tipo di bellezza serena ed elegante, più
probabile in un dipinto che nella vita reale. Ma ciò che rendeva soprattutto
bella Sophia, e che avrebbe reso splendida la donna, era tutto ciò che la
distingueva da Euris: gli occhi verdi, l’espressione intenta, la particolare,
semplice umanità del suo sguardo.
“Insomma, a parte ubriacarvi, fare a
botte, cacciarvi nei guai, che altro avete fatto negli ultimi otto anni?”
domandò Euris.
“E’ vero” disse Sophia. “In Accademia
si parla di voi come di una leggenda.”
A queste parole, inaspettatamente,
Vincent addolcì l’espressione. Scambiò un’occhiata con Alex e col più
ruffianesco dei sorrisi disse: “La leggenda era lui. Io ero soltanto il pianeta
più vicino al Sole.”
Dopo, le ragazze uscirono all’aria
aperta per scambiarsi le loro confidenze, sotto un sole che la piccola vedeva
sempre troppo poco, e quasi mai per svago, lei che invece non sembrava fatta per
vivere nella cupezza delle sale ufficiali e tra le pareti metalliche delle navi.
Vincent ne approfittò per affrontare il vecchio amico su una questione che lo
preoccupava, il vero motivo per cui si era spinto fino a Nordkhia.
“Girano strane voci su una certa
vanship che s’infiltra troppo spesso nei territori della Gilda. In che storia ti sei messo,
Alex?”
Alex, come per sminuire la serietà
dell’argomento, abbandonò languidamente la testa sullo schienale della
poltrona.
“Nell’unica storia possibile”
rispose, e più che alle parole dell’amico sembrava interessato alle gocce di
caffè fluttuanti sul fondo della tazza che rigirava nella mano. “E dovresti
farlo anche tu, Vince.”
Vincent scosse la testa. Alex era
proprio senza speranza, ostinato a impegnarsi nelle cose come fossero sempre un
caso di vita o di morte. Eppure chi dei due era quello da disapprovare? In
fondo, lui, Vincent, poteva permettersi di essere così, leggero e opportunista,
soltanto perché sapeva che al mondo c’era almeno un uomo idealista e puro come
Alex.
“Ah, Alex” disse. “Io sono quello che
sta sempre dalla parte del più forte, non ti ricordi?”
§§§
6.
Alex incontrò Marius Bassianus, il
padre di Euris, dopo l’incidente con
Era accaduto all’improvviso, in un
settore vicino al Grand Stream.
Avevano visto un lampo rapidissimo in
lontananza, come il riflesso di uno specchio, e l’avevano seguito. Poco sopra il
letto di nuvole il colpo di falce di una mitragliata aveva attraversato la linea
di volo della vanship. Erano stati attaccati da un velivolo di classe stella
della Gilda.
“Alex,” disse Euris con una voce che
non le aveva mai sentito “tu puoi farcela.”
E dopo, quando erano tornati a terra
sani e salvi, Alex aveva pensato che non sarebbero sopravvissuti all’attacco, se
Euris non gli avesse parlato così.
La vanship non era armata, a parte la
pistola nascosta sotto il sedile. Sforzando la vanship con le acrobazie,
contrastando con l’imprevedibilità i movimenti scattanti dell’avversario, Alex
era riuscito a distrarre il pilota della Gilda e farlo schiantare a tutta
velocità contro una parete di roccia. La classe stella si era frantumata come un
bicchiere di cristallo.
Poi era accaduto qualcosa che aveva
fatto venire a Euris la pelle d’oca.
La vanship era atterrata nel punto in
cui il velivolo nemico si era schiantato. Il pilota ancora vivo aveva cominciato
a sparare dai rottami. Alex l’aveva avvicinato dalle spalle e l’aveva freddato
con un colpo di pistola alla testa.
Euris era diventata isterica. “Era
necessario? Non sarebbe stato meglio cercare di sapere perché ci ha attaccato?”
gli aveva gridato con la voce tremante di orrore.
Alex non aveva risposto, ma le aveva
rivolto uno sguardo indecifrabile.
Qualche giorno dopo Marius l’aveva
convocato.
Alex non tornava al palazzo imperiale
da mesi. L’ultima volta indossava ancora la divisa bianco-azzurra e il berretto
dell’Accademia. Non aveva mai provato soggezione in quelle sale, ma una
sensazione di inutilità, come se tutto ciò che si trovava in quel luogo fosse
soltanto il relitto di una storia morta, che non aveva alcuna relazione con ciò
che accadeva fuori, nel cielo dei nuovi tempi. Persino il gorgoglio dell’acqua
che scorreva abbondante sotto i pavimenti di marmo era spento, senza
freschezza.
Marius, il consigliere, appariva
vecchio senza esserlo ancora. Non per le rughe e l’aspetto autoritario, ma per
l’indefinibile gravezza con la quale gli eventi dolorosi della sua vita – la
distruzione della sua famiglia, la fuga dalla Gilda, l’amministrazione del
potere alla corte di Anatorey – ne avevano plasmato il corpo e avevano portato
ai suoi occhi chiarissimi una triste saggezza.
Alex era molto più alto di lui, ma
sentiva – in un modo che lo infastidiva e lo affascinava nello stesso tempo –
che dal vecchio veniva una forza che aveva il potere di
dominarlo.
Perciò, mentre il consigliere lo
studiava con occhi freddi e tristi, puntò apposta i propri occhi nei
suoi.
“Quando ho affidato mia figlia a
Hamilcar eravamo d’accordo che non sarebbe stata messa in situazioni di
pericolo. Soprattutto in contatto con
“Hamilcar non
c’entra.”
“E’ stata tua l’idea di portarla in
quel settore?”
Alex annuì.
“E sai dirmi perché vi hanno
attaccato?”
“Per
Marius martellò nervosamente il
bracciolo della poltrona con la punta delle lunghe dita
bianche.
“In questi anni ho conosciuto molti
piloti come te” disse. “Teste calde, avventurieri che si esibiscono in cielo
come in un teatro. Gente che preferisce il cielo perché crede che sia più
semplice, più pulito. Persino i militari si arroccano nelle navi per mantenere
la purezza di una disciplina che sarebbe assurda sulla terra. Tu, Alexander Row?
Che hai intenzione di fare in questo cielo?”
Per un momento Alex abbassò lo
sguardo. Dentro di sé, come una folgorazione, trovò una sola risposta. Essere libero, essere me stesso. Insieme a
lei. E dopo, rendere il nostro mondo libero come siamo noi. Quando sollevò gli occhi, avevano una
strana delicatezza, come di velluto.
“Se facessi io la stessa domanda a
voi, quanto sareste sicuro della riposta?” disse.
Marius gli rispose con un sorriso
lieve. Quel giorno decise di affidare ad Alex l’addestramento della squadra di
vanship della Silvana.
§§§
7.
Era uno dei rari momenti in cui
riuscivano a non torturarsi. Stavano seduti sul prato di Nordkhia a guardare le
prime stelle del crepuscolo e a sorseggiare un ottimo
vino.
“Ti ha spiato, in questi anni” diceva
Euris. “A mio padre sei sempre piaciuto. E ora che voli con
Hamilcar…”
“Sei gelosa, per
caso?”
La ragazza sorrise. “Sì. Ma non per
quello che pensi. Ti accetta così perché sei un uomo. Per me, invece, avrebbe
voluto una vita diversa. È orgoglioso di me, credo, ma è un padre, ha paura. Se
l’avessi ascoltato, a quest’ora sarei già la moglie di qualcuno. Magari uno
uscito dall’Accademia.” Scoppiò a
ridere e continuò: “Quelli dell’Accademia…E tu in fondo sei proprio uno di loro.
Eccome se lo sei!”
“Se lo fossi davvero, non sarei
qui.”
“Ma si vede da come ti muovi. E ora
anche da come tieni in mano quel bicchiere. E’ come se avessi le spalline cucite
sulla pelle.”
“Anche tu sarai sempre una dama di
corte” scherzò Alex. “Nonostante ti sforzi di non sembrarlo.” Pensava al suo
modo di camminare, al collo sempre diritto e mai rigido, morbido come quello di
un cigno.
“Che vuoi
dire?”
Alex chinò leggermente la testa per
sorriderle e una ciocca di capelli gli cadde sulla fronte, sempre la stessa, sul
lato destro. In quel momento le apparve più adorabile del solito.
Non riusciva a staccare gli occhi da
quella piccola asimmetria nera sulla sua fronte, e ad un tratto si trovò a
pensare che con lui tutto diventava imprevedibile. Accanto a Alex sembrava di
vivere al confine tra le cose, come in un eterno, sereno crepuscolo, quando si
perdeva il limite tra la luce e il buio, e il viola del cielo dava alle stelle
una brillantezza pura e malinconica. Pensò con un brivido alla sua ferocia,
quando aveva sparato al pilota della Gilda, e alla sua mancanza di rimorso.
All’improvviso tutto le parve chiaro: anche quello era Alex, non meno del
ragazzo mite e silenzioso che tutti conoscevano, e con una vertigine violenta
comprese quanto sarebbe stato travolgente, pericoloso il suo
amore.
Perciò si affrettò, prima che lui
potesse risponderle, a cambiare argomento.
“L’hai mai vista?” chiese Euris.
“
“Una volta” rispose Alex. “Un enorme
traliccio di acciaio. Mi chiedo se sarà mai finita.”
“Credo che sia soprattutto una
questione di moneta. A mio padre ne serve ancora tanta, e visto che non è
l’imperatore a pagare…”
Alex non rispose. C’era un pensiero
che da tempo gli frullava nella testa. Una pazzia forse senza senso. Alex era
ricchissimo. E se avesse pagato lui la costruzione della Silvana, o almeno una
parte? Non era forse il sogno di Hamilcar e di tutti loro farla volare? E non
erano forse i sogni le uniche cose per cui valesse la pena di combattere in
questo mondo? Ma in fondo non erano affari suoi, non era il caso di
intromettersi, almeno per il momento.
§§§
8.
Un giorno, al culmine glorioso di
quella primavera che poi, negli anni, Alex avrebbe ricordato senza più gioia,
col dolore di un ferita che non si rimarginava, profonda nella carne, nei nervi
torturati, tornavano da un volo lungo, libero e senza altro scopo che quello di
godere il piacere del cielo. Nessuno dei due avrebbe ammesso che ora, quel
piacere, era diventato talmente intenso da far male soltanto perché, volando
insieme, lo condividevano.
Nordkhia era già all’orizzonte, tutta
splendente di verde e d’acqua, ma in quel momento, col sole ancora alto e l’aria
che stordiva per l’odore d’erba e di fiori, nulla sembrava più assurdo che
riportare la vanship nell’hangar.
Alex indicò con un gesto della mano
la prateria meravigliosa sulla quale l’ombra della vanship scivolava spezzandosi
nell’oscillazione morbida e vibrante dei fili d’erba, dei papaveri, delle
margherite. “OK” accennò Euris con il pollice, e virando con la solita eleganza
la vanship si adagiò sulla distesa deserta come un cigno sull’acqua. D’un
tratto, allo spegnersi del motore, si trovarono in un’immensa bolla di pace e
nel fruscio sterminato di un mare color smeraldo.
Alex saltò dalla vanship, stirò i
muscoli intorpiditi, si spogliò di casco e giubbotto e si gettò per terra, a
pancia all’aria, sparendo nell’erba alta. Vedeva soltanto gli steli che si
chiudevano attorno al corpo come una culla, verde scuro in controluce con
l’azzurro del cielo.
Chiuse gli occhi. Nel fruscio
discreto del vento sull’erba, gli sembrò di udire anche il passo di Euris che
scendeva dalla vanship e avanzava in mezzo agli steli. Un impulso che conosceva
bene gli diceva di alzarsi e avvicinarsi a lei, ma egli lo ignorò, come le altre
volte.
A occhi chiusi, gli pareva di vederla
camminare, quel passo leggero ma atletico, il collo diritto che sembrava quello
di una danzatrice. Vedeva, seguendo il fruscio, le sue mani bianche che
sfioravano l’erba, prima con la palma, poi con il dorso. Lei che si fermava, che
si guardava intorno come una gazzella intenta ad ascoltare. I capelli sciolti
che si concedevano al vento, il loro colore di bacche mature. Lei che si
fermava…
Alex sollevò il corpo, si alzò in
piedi. Lei era lì, ferma a qualche passo da lui. Di spalle, i capelli mossi
lievemente dal vento. Una figura snella e delicata emersa per incanto da un mare
color smeraldo.
“Euris” mormorò
lui.
Vide le sue spalle tremare, come se
la sua voce l’avesse ferita.
Euris si voltò e, raccogliendo tutto
il proprio coraggio, sollevò il viso, cercò i suoi occhi. Piangeva. Lacrime
lunghe scivolavano sulle guance abbronzate. Stava usando le ultime difese per
non arrendersi, stava ancora lottando, ma era finalmente lei, dolce e luminosa,
e senza maschera.
“Sono scappata, Alex” disse tremando.
“E sono stata così stupida! Non posso farci niente. Io ti
amo.”
Crollò, in un istante, come un muro
di fango, anche la fortificazione del cuore di Alex. Si guardarono come il primo
giorno, abbandonati l’uno negli occhi dell’altra, sospesi insieme nel vuoto su
un filo invisibile.
Ci sarebbero stati poi, nelle
settimane seguenti, baci lenti, momenti dolcissimi di carezze, di sospiri, di
parole appena sussurrate, brividi intensi scatenati soltanto da dita e labbra
che sfioravano la pelle, l’amore disciolto per tutta la lunghezza della notte
come un volo perfetto, e quando l’alba arrivava, si continuava a volare nel
cielo vero, leggeri, liberi, felici. Ma quel giorno, nel verde, si presero
disperatamente, violentemente, come due folli, cercandosi con le labbra fino a
farsi male, strappando via, impacciati per la passione, i vestiti, senza più
capire che cosa toccassero e baciassero, lottando l’uno con il corpo dell’altra
perché non erano uno solo, perché stringersi, avvolgersi, penetrarsi non bastava
mai a darsi e a prendersi fino in fondo.
Alla fine si svegliarono come da un
delirio, stravolti, sorpresi di essere l’una nelle braccia dell’altro e di
stringere quel corpo posseduto poco prima. Euris sollevò il capo su di lui, i
capelli scivolarono, gli accarezzarono il petto. Continuarono a fissarsi fuori
del tempo, teneramente. Poi la ragazza, gli occhi bruni persi in quelli ambrati
di lui, sussurrò: “Giurami che il tuo cuore, tutto quanto, è mio, senza riserve,
senza paura.”
“Te lo giuro, Euris, amore
mio.”
§§§
9.
Al ritorno, la sera, Hamilcar li
convocò nel suo ufficio al centro dell’arsenale. Ufficio per modo di dire: si
sarebbe definito meglio un laboratorio pieno di modellini, pezzi di vanship
smontati, carte nautiche di Anatorey, Disith e del Grand Stream e disegni di
velivoli, arrotolati o aperti ovunque, sulle pareti, sulle scaffalature, sui
tavoli. Spiccavano il modellino delle vanship gemelle, quelle di Hamilcar e di
Alex, e nel posto d’onore quello fascinoso della Silvana, dalla sagoma simile a
un corvo.
George stava in poltrona con le gambe
appoggiate su un tavolo, Hamilcar mezzo seduto sul bordo dello stesso. Le facce
sognanti di Alex e Euris non lasciavano molti dubbi sul modo in cui i due
ragazzi avessero trascorso il pomeriggio, e infatti Hamilcar sentì sciogliersi
il cuore d’affetto vedendoli entrare. Ma l’atmosfera, nella stanza, era
tutt’altro che rilassata, così come le espressioni dei due
istruttori.
“Ne siete al corrente soltanto voi
due” disse Hamilcar. “Da domani cominciamo a prepararci per la missione a Disith
e il Grand Stream.”
“Per quando?” chiese
Alex.
“Due mesi.”
“Più o meno per il compleanno della
mia piccola Lavie” aggiunse George.
Silenzio. Poi Hamilcar, come se ciò
che stava per dire gli pesasse, continuò: “Tu, Euris, resti a casa. Precisa
richiesta di tuo padre.”
Euris arrossì violentemente.
“Sciocchezze!” esclamò.
Alex la attirò un poco a sé
stringendole piano un braccio e mormorandole: “Ti prego…”
“No” disse la ragazza. Sembrava
calma, ora. Fece una passo verso i due istruttori e disse: “Chi è il pilota
migliore dopo di te, Hamilcar?”
“Alex” rispose serio
Hamilcar.
“E tu, George,” continuò la ragazza
“chi è il navigatore migliore dopo di te?”
George esitò per un momento, aggrottò
le ciglia e rispose: “Tu, piccola.”
“Bene” disse Euris. “E quale
navigatore, se non io, allora, ha il dovere di volare con Alex in una missione
come questa?”
Di nuovo silenzio, finché Euris
riprese: “Hamilcar, sul tuo onore, se io non mi chiamassi Euris Bassianus, ci
sarebbe qualche motivo per farmi rimanere a terra?”
“Ora basta, Euris!” Questa volta era
Alex quello arrabbiato. “Te lo dico io qual è il motivo: non permetterò che tu
rischi la vita, che la mia donna
rischi la vita così!”
“La tua donna non permetterà che tu rischi la vita senza di lei”
rispose
Euris.
Hamilcar accennò a intervenire, ma la
ragazza lo interruppe. “No” disse con voce ferma. “Nessuno m’imporrà di rimanere
a terra, né mio padre né Hamilcar né lo stesso imperatore. E nemmeno tu, Alex.”
Alex, intanto, aveva una guerra nel
cuore. Solo Euris era importante per lui, adesso, e sentiva che l’unico modo per
salvarla, testarda e orgogliosa com’era, consisteva nel ritirarsi lui stesso
dalla missione, a rischio di buttare via tutto ciò per cui aveva lottato fino a
quel momento e persino l’amicizia con Hamilcar.
“E tu!” disse Euris, rivolgendosi
d’un tratto solo a lui. “Non provare a lasciare questa missione per causa mia!
Che uomo saresti? Se un altro meno bravo di te prendesse il tuo posto e morisse
durante la missione perché tu hai voluto proteggere me, come ti sentiresti? E
come mi sentirei io? Come potrei rispettarti poi?”
Alex, sentendosi perduto, si adombrò.
In realtà, l’amava perché era così, tenace e libera. Libera persino da lui, ed
egli non aveva il diritto di proteggerla se lei non lo desiderava. Ma come? Come
poteva lasciare che si mettesse in pericolo? Come poteva assecondarla?
Ricominciava quella lotta con lei, il suo carattere contro il suo, uguali e
opposti.
Hamilcar capì che sarebbe toccato a
lui di chiudere la questione. “Vedo che non c’è molta scelta, dunque. Hai vinto
tu, Euris. Significa che cercheremo di preparare questa missione al
meglio.”
Euris si gettò addosso a Hamilcar per
abbracciarlo. Lei e Alex lasciarono i due istruttori nell’ufficio ed uscirono
soli, camminando verso la pista, nella notte serena e senza luna. Alex cupo non
aveva più detto una parola. Lei gli prese la mano nella sua, calda, quasi
materna, addolcendo la sua ritrosia. Si vedevano a stento alla luce delle
stelle, ma si sentivano intensamente, fino al nucleo nascosto delle loro
anime.
“Vedrai, Alex, ce la faremo. Perché
io e te voliamo più in alto di questo. Forti, liberi.”
Alzarono, per un comune istinto, il
capo verso il cielo.
Lassù, dentro la notte, appollaiato
come un predatore, il Grand Stream li attendeva.
Questa fanfic (la prima da me scritta
in assoluto, aprile 2007) è soprattutto uno studio dei personaggi ispirato dai
brani “Beautiful fields” e “Skywriting” della OST e dal flashback dell’episodio
14 “Etude Lavie”, oltre che dai disegni preparatori del characters designer
Murata per Alex Row diciottenne. La storia si svolge dieci anni prima di quella
raccontata nell’anime.