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Autore: IpseDigit    05/12/2012    8 recensioni
Quando un'esistenza dimostra di essere stata costruita con fondamenta fragili, i problemi tornano alla luce.
La convinzione di aver vissuto una vita serena si sbriciola sotto i nostri piedi quando chi comincia a tirare i fili è la Morte stessa.
Genere: Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Ciò che più atterrisce della Morte è l'attesa della stessa"
[Epicuro]





Perché? Perché a me?

Torno a casa dal lavoro puntuale. Ho una moglie normale e due figli bellissimi. Vivo in una casa normale e pago regolarmente le tasse. Perché mi vengono a prendere?

Mi caricano su una macchina e mi intimano di rimanere in silenzio. Perché proprio me?

Lavoro in una multinazionale. Ho tanto lavoro e spesso non ho quasi tempo da passare con Jude, mia moglie e i miei due bellissimi bambini, Chris e Annah. Il mio capo mi aveva chiamato per una promozione, qualche settimana fa, poi da qualche giorno mi evitava. Quando, alla mattina, arrivavo al lavoro puntuale, lui distoglieva lo sguardo o mi ignorava. Quando eravamo nello stesso ufficio per conferenze e presentazioni, non parlava quando parlavo io, anzi, stava quasi ammutolito di fronte ai miei semplici discorsi sul cambio valuta.

Mi hanno anche legato saldamente le mani. Sento il freddo metallico delle manette e anche la grata che separa i due abitacoli dell'auto non mi rallegra affatto. Che cosa ho fatto di male?

Gli agenti parlano tra loro. Non sembrano minimamente interessati a me. Quando provo a domandare dove mi stanno portando, mi zittiscono bruscamente, riprendendo a parlare del più e del meno. Perché non vogliono rispondermi?

In fondo, cosa potevo aver fatto?

Negli ultimi tempi, il vicinato sembrava in subbuglio. All'incirca quattro nuove famiglie si erano trasferite nel nostro quartiere, e altre avevano traslocato da un'altra parte. Era molto strano. Famiglie che avevano vissuto lì per anni, con un reddito stabile, il padre di famiglia impiegato in una società di uffici, una madre a tempo pieno e figli regolarmente iscritti a scuola. E in poco tempo, queste famiglie a noi così affezionate avevano levato le tende, e si erano trasferite.

Mentre l'auto della polizia passa attraverso il quartiere dove abitavo, sento mille sguardi fissi su di me, ma non sono sguardi di compassione, nè di tristezza. Sono sguardi colmi di ira, di scherno. E di ribrezzo.

La macchina esce a passo lento dal quartiere e imbocca la provinciale verso il centro della città, con le sirene spiegate ma a passo lento, come se volesse portarmi lentamente alla gogna, e farmi soffrire.

E' la strada che percorro tutti i giorni sulla mia Chevrolet per andare al lavoro, o almeno lo facevo fino a poco fa. I due poliziotti continuavano a parlare tra loro, ora però ogni tanto si rivolgevano con parole di disprezzo a me e alla mia famiglia. "Feccia". "Spazzatura". E altre più pesanti, che sto cercando di dimenticare. Per distrarmi un po' decido di guardare fuori dal finestrino, osservando l'ingorgo causato dalla volante che si muove a passo d'uomo, tra i malcontenti degli altri autisti. Altri insulti raggiungono la macchina, li sento e mi urtano dentro, ma non ci posso fare niente.

Raggiungiamo finalmente i limiti della città. Qui l'auto aumenta il passo, pur rimanendo al di sotto dei limiti di velocità e causando squilibri e traffico all'uscita dalla provinciale. La sirena comincia a darmi sui nervi. Mi tappo le orecchie con le dita e cerco di ignorarla. Allora per la prima volta l'agente sul lato del passeggero mi rivolge la parola. Mi intima di levarmi le mani dalle orecchie e godermi i miei ultimi momenti di... Di cosa?

Le sirene coprono anche queste ultime parole, impedendomi di sentire come finiva la frase. Decido comunque di ascoltarlo e abbasso le mani sopra le gambe. Nonostante questo continuo a sentire quell'assordante rumore. Non ne posso più.

Finalmente la macchina accosta davanti al dipartimento di polizia della città. I due agenti scendono e aprono le porte che mi imprigionano, e io torno a respirare aria fresca. Non aria fredda da condizionatore e profumata delle macchine della polizia, finalmente aria fresca e naturale. Non ho il tempo di rendermene conto che l'entrata del distretto sparisce dai miei occhi, mentre imbuchiamo un vicolo poco più avanti. Mi spingono avanti oltre un cassonetto, cerco di scorgere la fine di questo spazio angusto ma non ci riesco. All'improvviso gli agenti girano bruscamente l'angolo, e io vengo trascinato con loro. Stavolta riesco a scorgere un'insegna al neon, che sormonta una piccola porta. Gli agenti mi trascinano, strattonandomi, e mi ci fanno entrare.

Vengo portato in una stanza buia e fatto sedere su una sedia fredda di metallo. Tutto resta buio e sento la porta da cui sono entrato chiudersi di scatto, seguita da un clangore metallico breve, poi uno più lungo. Resto immerso nel buio e nel silenzio per degli istanti che paiono ore, anni. Finalmente un altoparlante, lontano, gracchia. Emette suoni striduli come registrati. No, non è una registrazione. Riconosco il timbro. Hanno usato uno di quei programmi di sintesi vocale, con i quali scrivendo su una tastiera, i suoni vengono tradotti in fonemi e in parole. Il suono è disturbato, ma riesco comunque a distinguere le parole.

"Unità 0087C, risiedente nel settore B076, impiegato nell'impresa KOH435. Rispondi a queste caratteristiche?"

Non rispondo ma abbasso la testa. Non posso essere io. Numeri e lettere? No, non è un nome quello.

La voce insiste, ripetendo il messaggio. Non udendo risposte, l'altoparlante continua a tuonare, aumentando il volume, fino a renderlo insopportabile. Alla fine di ogni prova, sempre più assordante, la sala ripiomba nel silenzio più assoluto, per poi ricominciare di nuovo.

Alla fine, preso forse dalla disperazione o dalla voglia di farla finita, apro lentamente la bocca e sussurro, con un filo di voce: "Si, sono io."

In quel momento sento come se un nastro si stesse riavvolgendo, e la frase preimpostata cambia radicalmente.

"Unità 0087C, risiedente nel settore B076, impiegato nell'impresa KOH435. Dopo un'attenta decisione del Supremo Consiglio di questo Stato, sei stato ritenuto ufficialmente obsoleto, e pertanto non adatto a ricoprire il tuo ruolo."

Lentamente, la stanza inizia ad illuminarsi, rivelandosi per ciò che realmente è.

Lungo tutte le pareti, vedo ganci sporgere, con appesi apparecchiature e componenti. Braccia e gambe artificiali, protesi e teste di silicone, tutto sembra una strana sala operatoria. Il pavimento è bianco e lindo, però coperto di cavi e tubi che lo percorrono ordinatamente da una parte all'altra. Luci al neon illuminano brillantemente le bianche pareti, facendo scintillare i gusci metallici di alcuni toraci artificiali appesi al soffitto.

Sfioro con lo sguardo ciò che sta intorno a me. "Obsoleto". Sento gli occhi gonfi di lacrime, eppure non sento il bisogno di piangere. "Non adatto". Lentamente la sedia avanza, portandomi al centro della sala. Alcune figure mi si avvicinano, brandendo chiavi inglesi e cacciaviti. Non sento il bisogno di piangere, non sento il bisogno di disperarmi. Perchè?

La risposta arriva quando un uomo con una mascherina fora con un trapano il mio pettorale sinistro. Il dolore non arriva, ma un denso liquido oleoso comincia a sgorgare lentamente dal mio interno, macchiandomi di scuro la camicia.


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Angolo dell'autore
Duuuunque... Ispirato dai fenomenali racconti di Isaac Asimov, di Frederic Brown e, si, ammettiamolo, anche di Io Robot (I, Robot in lingua originale), pubblico qui per la prima volta un mio racconto, un one shot, come d'altro canto altri scritti di mio pugno. Spero che vi sia piaciuto, aspetto le vostre recensioni.
ps.: non so se è lecito e nemmeno se vi interessa, ma vi anticipo che ho intenzione di pubblicare anche una serie di... riflessioni? Riassunti? Non so come vogliamo chiamarli, ma non saranno di certo contro il regolamento e, certamente, saranno qualcosa di nuovo: una specie di rielaborazione personale di qualcosa che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno (o parte di esso), con anche riferimenti "reali".


  
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