Mine.
Do
you remember, we
were sittin’ there by the water.
You put your arm around
me for the first time
You made a rebel of a
careless man’s careful daughter
You are the best thing
that’s ever been mine.
Ma quelli erano i suoi
occhi e un po’ più sotto a quegli occhi si trovava
la sua bocca. La bocca che
avevo assaggiato così tante volte e della quale mi veniva in
mente ancora il
sapore se mordevo il mio labbro inferiore come faceva lui. Quei ricordi
erano
vividi dentro di me, ma io non lo sapevo ancora.
Solo il fatto di
rivederlo mi aveva risvegliato sensazioni che non sentivo da molto,
troppo
tempo.
Ero totalmente innamorata
di lui; o meglio, lo ero stata. Quello sì, sicuramente.
Eravamo stati insieme a
lungo, mi piaceva pensare che sarebbe durata per sempre. Poi la
distanza ci
aveva giocato contro ed avevamo scelto dei destini diversi che non
potevano
convivere.
Lui, medico affermato in
neurochirurgia.
Io, attrice di teatro che
era riuscita a nascere nell’ambiente grazie alle
capacità che avevo sviluppato
con gli anni.
Erano passati quasi
ventitré anni dall’ultima volta che ci eravamo
visti: era stata una delle cene
dopo le superiori, quelle fatte in seguito alla maturità per
riunire i
diplomati e per salutare i professori che tante ne avevano sopportate.
Quarantun anni io, quarantun
anni lui.
Ognuno aveva la sua vita,
ognuno aveva i suoi affetti. Ognuno aveva sé stesso.
Era stato il mio primo
amore in assoluto. Avevo fatto tutto per la prima volta con lui:
l’avevo
baciato, ci ero andata al cinema, l’avevo chiamato al
telefono nel cuore della
notte, ci avevo parlato di qualsiasi cosa mi fosse passata per la
testa, l’avevo
annusato, ci avevo litigato, ci avevo fatto l’amore. E ora,
se mordevo il mio
labbro inferiore, sentivo il suo sapore, sentivo il ricordo del suo
sapore,
come se il mio labbro fosse stata una parte più sensibile
del corpo, sensibile
come quando si tocca una cicatrice.
E poi, come una
lunghissima parentesi durata ventitré anni dove io avevo
avuto le mie storie e
lui si era sposato e aveva divorziato, eccoci lì. Di nuovo
sui blocchi di
partenza, di nuovo uno di fronte all’altra, in un giorno di
pioggia estiva,
esattamente come quando ci eravamo conosciuti. E assieme a quella
pioggia una
miriade di ricordi riaffiorati in un soffio, le farfalle che si
alzavano
risvegliate dopo un letargo lunghissimo.
I suoi occhi.
I miei occhi nei suoi.
Le mie dita che si stringevano
attorno alla borsa, le gambe colte da un tremolio nervoso, il sorriso
riaffiorare sulle labbra.
Lui. Ancora.
Si trovava sotto la
pioggia da non si sa bene quanto tempo, il soprabito bagnato, i capelli
corti
spettinati, l’aria da ragazzino, il suo sorriso e gli occhi
che si erano
illuminati quando mi aveva vista uscire dal teatro dove avevo appena
finito una
delle repliche del mio ultimo spettacolo.
- Ciao. -
- Ciao.- Il mio respiro
che si era fatto affannoso e l’agitazione di quando eravamo
usciti per la prima
volta.
- Sei stata bravissima
stasera.-
- Grazie.- Tutto era
tornato vivido come se niente se ne fosse mai andato via.
- Ti va un caffè?-
Perché? Perché dopo così
tanti anni, perché solo dopo una vita si era ripresentato ma
soprattutto… perché
si trovava di fronte a me?
- Si, volentieri. –
Mi aveva offerto il suo
braccio, ci eravamo incamminati verso la sua auto, mi aveva portata in
un
piccolo bar del centro aperto fino a tardi.
Tutto il viaggio era
trascorso in silenzio, il mio cuore pieno di domande, la testa in
confusione,
un sorriso stampato sulle labbra lucide di rossetto. Come se non fosse
mai
successo niente. Come ventitré anni prima. Come una
normalissima coppia che ha
passato ormai i giorni migliori.
- Come mai?-
- Che cosa “come mai”?-
- Come mai hai scelto
proprio questa sera per offrirmi un caffè?-
- Perché mi sei mancata
da morire. E perché sei bellissima.-
- Sai ancora come far
cadere ai tuoi piedi le donne, evidentemente.-
- Diciamo che negli
ultimi anni mi sono tenuto in allenamento.-
- Mi sei mancato.-
- Anche tu. Sei sempre
stata la migliore cosa che io abbia mai avuto.-
Era mio. Lo era sempre
stato.
Ed io ero stata una stupida
a non rendermene conto.
Quando lui mi aveva
giurato che un giorno ci saremmo rivisti gli avevo detto addio con le
lacrime
agli occhi. Mi aveva promesso che non mi avrebbe mai lasciata sola, e
forse non
lo aveva davvero fatto. Era solo tornato nel momento giusto, quando le
strade
che avevamo imboccato non potevano più essere ripercorse
all’indietro.
Il tempismo era stata la
sua arma vincente durante la nostra giovinezza e forse lo sarebbe stata
anche
questa volta.
Anche quella sera,
durante quel viaggio in auto, avevo stretto forte il suo medaglione con
l’incisione.
Io, per sempre
tuo. Tu, per sempre mia.
L’ho scritta un po’ così di getto,
ascoltando la canzone.
E’ l’incontro dopo tanti anni di due amanti che
sono stati giovani.
Mi piaceva pensare la situazione così, non chiedetemi
perché.
Forse perché io credo nel destino, nelle cose che
ritornano dopo tanto tempo per un motivo, nell’amore per
sempre.
Chiamatemi stupida, può anche essere che lo sia.
Mi piace tantissimo la canzone, preferisco la versione di
“Glee” cantata da Naya Rivera (voce favolosa a
parer mio).
La dedico a qualcuno che spero non mi deluderà. A te,
perché
possa succedere qualcosa tra noi.
Ti voglio bene, a prescindere da qual che sarà. Te ne ho
sempre voluto, a volte più a volte meno.
Spero di esserci quando avrai bisogno di me, spero ci
sarai anche tu.
Altrimenti spero tu venga a prendermi davanti ad un
teatro dopo una delle mie repliche.
S.
P.S.: scusate le dediche mielose e le note lunghe. Spero vi
sia piaciuta.
Ascoltatevi la canzone e, se vi capita, lasciate un
pensiero anche di due parole.
Grazie a tutti.