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Autore: LilliSheeran    11/12/2012    8 recensioni
-Ren si voltò verso il corridoio e rimase fermo per qualche secondo, mentre stavo in silenzio e lo fissavo con aria di supplica. Supplicavo in silenzio che se ne andasse e mi lasciasse di nuovo sola. Colpì due volte lo stipite in legno della porta, con l’indice e poi sghignazzò inutilmente, senza farsi vedere ma sentire.
“Fammi sapere… Se ti serve qualcosa” chiuse nuovamente la porta e lo sentii allontanarsi verso il salotto.-
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo primo.

Le goccioline di vapore condensato colavano sulla superfice enorme dello specchio. Attraverso quel panno opaco osservavo la mia immagine riflessa e distorta. Ero avvolta in un caldo e morbido asciugamano bianco, preso appositamente dallo sportello dei capi puliti. Mi scostai una ciocca di capelli fuori posto e la incastrai dietro un orecchio. Lunghi e lisci i capelli mi ricadevano lungo la schiena e mi solleticavano le scapole scoperte. L’acqua della doccia scorreva già da parecchi minuti e produceva un frastuono alquanto fastidioso che rimbombava su ogni parete del piccolo bagno del mio appartamento. Ero sola in casa, sola dai miei due coinquilini. Avevo bisogno di una doccia rigenerante e non c’era momento migliore se non quello.
Continuavo a fissare la mia immagine impassibile attraverso lo specchio. Non mi muovevo di un millimetro. Poi scattai di colpo e, con passo svelto, feci scivolare l’asciugamano lungo la schiena e mi infilai sotto il getto bollente della doccia. Il vapore saliva da sopra il mio corpo e le gocce mi battevano sulle guance. In tutto quel tempo ero rimasta in silenzio. Osservavo lo sportello in plexiglass scadente della doccia e velocemente tracciai un disegno incomprensibile su di esso. Da due minuti ero ormai ferma sotto il fiume bollente; dopo essermi occupata di insaponarmi corpo e capelli riflettei su cose a me del tutto sconosciute. La mia mente vagava e toccava argomenti più o meno importanti. Poi sentii in lontananza il rumore della serratura della porta d’ingresso: qualcuno era tornato a casa. Sbuffai e mi mossi sotto la doccia, continuando a crogiolarmi, però, in tutta quella beatitudine. L’acqua scorrendo mi impediva di sentire la voce di chiunque fosse entrato in casa; non mi preoccupavo, tuttavia, di ladri, furfanti o delinquenti di ogni tipo. Feci girare il rubinetto della doccia e l’acqua smise di scorrere.
“JAKE? SEI TU?” urlai ai quattro venti, cercando in tutti i modi di non farmi sentire da tutto il palazzo. Nessuna risposta mi arrivò alle orecchie. Sbuffai di nuovo e aprii lo sportello della doccia. Una ventata fredda mi raggiunse e un brivido di freddo mi attraversò la schiena. Lo scaldabagno si era rotto, nuovamente, parecchi giorni prima e mio fratello si rifiutava come al solito di ripararlo. In fretta mi avvolsi nell’asciugamano decisamente corto, che mi lasciava scoperte le cosce e le spalle. Era odiosa la sensazione di freddo che mi batteva sulle spalle.
“Sono Ren!” urlò l’amico di mio fratello, da dietro la porta. Sospirai, un po’ perché ero uscita dalla doccia inutilmente e un po’ perché mio fratello non tornava a casa da due giorni. Mi fissai di nuovo allo specchio; i capelli mi ricadevano poco elegantemente lungo il corpo, ed erano sparsi e appicciati sulle spalle e sul seno. Ora un silenzio tombale era caduto nell’appartamento e io mi ritrovavo di nuovo a fissare la mia immagine nello specchio. I passi di Ren si fecero vicini, poi cessarono.
“Tutto bene?” lo sentii mormorare contro la porta. Annuii lentamente, senza pensare al fatto che lui non potesse vedermi. Ero in silenzio ed ero intenzionata a rimanerci per un bel po’ di tempo, ancora. I suoi pugni rimbombarono leggeri contro la porta in legno vecchio del bagno. “Julia, sei lì?” chiese con più fermezza nella voce, stavolta. Chinai la testa e mantenni gli occhi fissi sullo specchio. Annuii di nuovo. Sapevo che non poteva vedermi e sapevo che avrei risposto sicuramente subito.
“Tutto bene…” sussurrai, senza muovermi di un millimetro. Il caldo e morbido asciugamano bianco mi ricadeva lungo i fianchi e lasciava liberi troppi centimetri di pelle bianca. I capelli cominciavano a solleticarmi la schiena, mentre le goccioline di acqua residua cominciavano ad asciugarsi sul mio corpo. Mi scostai i capelli e li riportai su un’unica spalla, poi uscii dal bagno e mi intrufolai in camera da letto. Un odore piuttosto gradevole proveniva da lì; per quanto fosse scadente e poco sofisticato, il nostro appartamento aveva tutto ciò di cui avevamo bisogno. La mia stanza disponeva di un letto in ferro battuto ad una piazza e mezzo, con piumone perennemente addosso e due cuscini in piuma su di esso; una scrivania in legno scuro, graffiato ed abbozzato, affiancato da una cigolante e poco stabile sedia in legno altrettanto rovinato; l’armadio non troppo grande appoggiato alla parete più grande, con una delle ante perennemente aperte. Le pareti erano di un eccentrico color bordeaux che stonava a gran misura col resto dei colori della casa. La grande finestra che fronteggiava il guardaroba regalava una luce accogliente ed allegra, nelle giornate estive e soleggiate. Il pavimento era ricoperto da uno strato di parquet scuro, di basso livello con scheggiature in ogni dove. A parte tutto questo l’intero appartamento comprendeva tutto ciò che era necessario per la sopravvivenza.
Dall’armadio mezzo aperto pendevano un paio di jeans chiari trasandati; uno di quelli che non mettevo da anni per la taglia troppo stretta. Li presi e me li ripassai due o tre volte fra le mani. Provai ad infilarli sopra la biancheria con meritato successo e rimasi felicemente sorpresa nel notare che dopo svariati anni mi calzavano stretti di pochissimo. Scelsi a caso una felpa dal cumulo di vestiti che si prostrava nel guardaroba e l’infilai senza nemmeno curarmi di mettere nient’altro sotto. L’enorme felpa degli Yankees di mio fratello mi andava larga, ovviamente. Avanzava dal fondoschiena di parecchi millimetri e nascondeva alla perfezione ogni curva del mio corpo, per quanto impercettibile fosse. I capelli ancora bagnati inumidivano la felpa, sul fondo della schiena. Dopo essermi fissata ancora per qualche minuto al piccolo specchio montato sul muro, mi chinai in avanti e smossi un po’ i lunghi capelli castani. La porta della mia stanza, lasciata ingenuamente socchiusa da me, cigolò appena, ma quel rumore fu sufficientemente fastidioso da attirare la mia attenzione. Ren stava fermo sullo stipite della porta, con una pallina di Natale rossa in mano; sorrise ingenuamente quando mi guardò, mentre io rimasi a fissarlo impassibile per qualche secondo, poi ricambiai. Il rossore sulle mie gote, dovuto al getto bollente della doccia, stava andando via e lasciava spazio al pallore della mia carnagione. Dopo qualche secondo stavo ancora sorridendo al ragazzo che mi stava di fronte, ma mi feci di nuovo seria quando lo vidi agitare la pallina che aveva in mano.
“Ti va di darmi una mano?” sussurrò gentilmente, guardandomi negli occhi. Scossi la testa, non avendo il coraggio di rifiutare un’offerta tanto generosa quanto gentile. La sua espressione fu impassibile, si staccò dallo stipite della porta –al quale era appoggiato con una spalla- e si aggiustò la camicia a quadri blu che aveva addosso. “Ha chiamato Jake…” affermò con più enfasi. I miei occhi brillarono e sorrisi fissando lo sguardo sulla sua bocca sorridente. “Ha detto che rimane da Anastasia per tutte le feste!”
Il fatto di sapere che mio fratello era sano e salvo mi tirò su il morale e un sorriso sincero si dipinse sul mio volto. Mi portai, di nuovo, alcune ciocche di capelli dietro l’orecchio e mi sedetti sul letto che produsse un rumore ferreo, stridulo e acuto. Ren si voltò verso il corridoio e rimase fermo per qualche secondo, mentre stavo in silenzio e lo fissavo con aria di supplica. Supplicavo in silenzio che se ne andasse e mi lasciasse di nuovo sola. Colpì due volte lo stipite in legno della porta, con l’indice e poi sghignazzò inutilmente, senza farsi vedere ma sentire.
“Fammi sapere… Se ti serve qualcosa” chiuse nuovamente la porta e lo sentii allontanarsi verso il salotto. Mi distesi sul letto, mentre la luce fioca e pallida della lampada da comodino mi circondava interamente. Guardai fuori dalla finestra al mio fianco: il buio era ormai calato, nonostante si trattassero –sì e no- delle nove di sera. Le fredde serate d’inverno a Londra erano un supplizio; d’altro canto, però, adoravo il Natale, la neve e tutto ciò che li riguardasse. Quell’anno aveva già mandato giù qualche centimetro di neve, abbastanza da stendere un velo pallido su tutta la città. Le macchine circolavano a stento ormai da un paio di settimane e sarebbe continuato a quel modo per ancora qualche giorno. Sentivo Ren maneggiare con gli addobbi natalizi e cercai di immaginare come poteva presentarsi uno come lui vestito “per le feste”. Sorrisi di nuovo e socchiusi gli occhi; un’altra giornata era giunta al termine e si era svolta come tutte le altre.
  
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