Capitolo 6
L’orologio di punta di Harajuku, il quartiere di Tokyo della trasgressione e di
tutto ciò che è diverso, aveva appena segnato le nove di sera, quando un ragazzo
sui 25 anni rientrò nel suo appartamento, un buco di 50 mq , situato al sesto
piano di una palazzina ormai decadente.
Non fece nemmeno in tempo ad aprire la porta che una grande sensazione di
disgusto lo invase.
Capitava ogni sera.
La sua topaia faceva schifo: piccola, sporca, in disordine ed aveva pure una
sola finestra che, tra l’altro, dava sulle scale.
Era stufo di vivere lì, ma sapeva che se avesse fatto bene il suo lavoro, quel
posto sarebbe stato soltanto un ricordo. Mancava davvero poco ed i suoi sogni di
gloria si sarebbero presto realizzati.
Era un ragazzo in gamba e ne era consapevole.
Qualche anno prima aveva deciso di lasciare il suo piccolo paesino nella
periferia di Tokyo, che gli stava troppo stretto, per avventurarsi nella grande
metropoli e fare i soldi.
Era sveglio e caparbio e la determinazione non gli mancava…ne era certo…Tokyo
era la sua gallina dalle uova d’oro.
Entrando nell’appartamento si guardò bene dal pulire e scansò con maestria ogni
cosa, accatastata qua e là in qualche modo, e si sedette sul divano-letto,
l’unico luogo ancora intatto della sua casa.
Si tolse il giubbino di jeans e si sistemò comodamente, accendendo lo stereo.
Cosa c’era di più bello che di un po’ di buona musica dopo una giornata di
faticoso lavoro? Nulla.
Decise di ascoltare i grandi X-Japan con “Blue Blood”, il loro
primo vero album di successo ed anche il suo preferito.
Le note di “Kurenai”, rosso scarlatto, riempivano magicamente l’intera
stanza tanto che il ragazzo si era talmente fatto trasportare dalla musica che,
tenendo gli occhi chiusi, batteva il tempo con il piede della gamba destra che
si trovava accavallata sulla sinistra.
Stava per giungere il momento migliore, il momento in cui non si poteva non
distinguere il suono incredibile della chitarra elettrica di hide, uno
dei più grandi musicisti giapponesi di tutti i tempi, quando il suo cellulare
prese a squillare.
“Ma chi cavolo è!?!!” urlò alzando le braccia verso il soffitto.
Continuò ad imprecare mentalmente due o tre volte, incavolato nero, in quanto un
emerito idiota aveva osato disturbarlo in un momento tanto importante!
Si alzò di malavoglia, prese il telefono appoggiato sul tavolo e rispose
scocciato senza badare al numero del chiamante.
“Pronto!”
“Domani mattina presentati dove tu sai. L’Uji no Kami vuole che tu faccia
rapporto. Vedi di non tardare. Ah, ragazzino…e vedi di moderare i toni,
altrimenti la prossima volta…ti dovranno raccogliere con un cucchiaino!”
Non riuscì nemmeno a scusarsi che l’altro aveva già riattaccato.
Odiava quel tipo, il classico sbruffone senza cervello, ma in quel momento il
solo grandissimo idiota era lui e non colui che gli aveva riferito il messaggio.
Iniziò a sudare freddo.
Se fino ad un attimo prima era totalmente rilassato, ora un senso di forte
angoscia ed agitazione lo aveva pervaso in ogni millimetro del suo corpo.
“Cazzo! Cazzo! Cazzo!”
Si risedette e si mise le mani nei capelli, appoggiando i gomiti alle ginocchia.
Era preoccupato.
In effetti i dieci giorni di tempo erano già trascorsi e lui non era ancora
riuscito ad eseguire pienamente il suo compito. Non aveva dato peso alla
data…grosso errore.
Si rialzò, non riusciva a star seduto ed iniziò a camminare avanti e indietro,
cercando di farsi venire in mente qualcosa.
Cosa avrebbe detto all’Uji no Kami il mattino seguente? Quali scuse avrebbe
preso? Quanto avrebbe voluto che il giorno dopo non arrivasse mai, quanto
avrebbe voluto che il tempo si fermasse.
Era così concentrato nei suoi ragionamenti che non si accorse di una piccola
scatola di cartone che si trovava sul pavimento.
Inciampò e per un pelo non cadde, facendo mille acrobazie per restare in piedi.
Quando recuperò del tutto l’equilibrio, dal nervoso, iniziò a prendere a calci
quel oggetto, rendendolo irriconoscibile.
“Vaffanculo!!!” urlò sfogandosi.
Il suo respiro era affannoso e veloce.
Doveva calmarsi, non poteva continuare così…forse una bella doccia calda gli
sarebbe stata d’aiuto.
Ore 8:50 Quartiere di Ginza, Tokyo.
Un furgone della 2Pack, una società di corrieri, si fermò davanti ad un
grattacielo di almeno 30 piani sulla Harumi-dori, arteria principale di Ginza e
sede di tutte le più grandi multinazionali e boutique giapponesi.
Il grattacielo in questione, accanto a quello altrettanto maestoso della Toshiba,
era di proprietà della JHG Ltd., una società giapponese di hi-tec.
L’addetto scese dal furgone e con una cartella in mano si avviò verso il retro,
dal quale avrebbe dovuto prendere il pacco da recapitare.
Dopo averlo afferrato ed aver chiuso la vettura, si diresse, con passo lento ma
deciso, verso le grandi porte scorrevoli in vetro che costituivano l’ingresso
del palazzo.
Appena varcata la soglia, venne però fermato dal portiere.
“Ultimamente ti facciamo lavorare parecchio vedo” disse con aria scherzosa
l’anziano signore.
“Eh già, ma non è un problema, signore. Anzi…ne sono contento. Più lavoro e
meglio è!”
“Parole sante! Ed è sempre più difficile trovare un ragazzo giovane che la pensi
così…ormai nessuno ha più voglia di far niente…chissà dove andremo a finire con
questo mondo!
Ragazzo, sei una vera perla rara!”
“Ma no…cosa dice, comunque la ringrazio”
“Il pacco è anche questa volta per il presidente?” chiese curioso il portiere.
“No, oggi no…devo consegnarlo al suo vice. Che resti tra noi…” disse il ragazzo
avvicinandosi di più alla guardiola ed abbassando la voce.
“Un po’ mi dispiace perché, in questo modo, non avrò l’occasione di vedere
quella splendida brunetta che gli fa da segretaria”.
L’anziano a sentire quelle parole iniziò a ridacchiare.
“Hai ragione, figliolo. Quella ragazza è un vero schianto, ma anche l’assistente
del vicepresidente non è affatto male. Si trattano bene quelli…credimi…figurati
se si prendono una racchia vecchia e brutta!”
“In effetti…allora sono davvero curioso di vederla!”. Disse il ragazzo facendo
l’occhiolino.
“Ora devo proprio salutarla, altrimenti farò tardi con le altre consegne. E’
sempre un piacere venire qui. Arrivederci.” e detto questo alzò il cappellino in
segno di congedo e si avviò verso gli ascensori.
“A dopo, ragazzo” disse il portiere sorridendo e risistemandosi sulla sua sedia,
contento di essersi svagato almeno un poco con una serena chiacchierata.
Entrato nell’ascensore, piuttosto che digitare il numero 28, il numero del piano
in cui aveva sede l’ufficio del vicepresidente della società, si mise il pacco
nella mano sinistra e con la destra cominciò a digitare una serie di numeri
secondo un ordine ben preciso.
Pur essendo al piano terra, l’ascensore, al posto di iniziare a salire, iniziò a
scendere.
Più l’ascensore scendeva e più l’aria tranquilla del ragazzo andava via via
scomparendo, anche se
almeno la prima parte, quella della sua messa in scena, era andata a buon fine.
Studiare il personale dell’azienda si era rivelato utile.
Quando sentì lo scampanellio leggero dell’ascensore, che indicava il
raggiungimento del piano, una scossa di agitazione lo invase.
Era arrivato.
Non sapeva esattamente di quanto fosse sceso, ma sicuramente doveva trovarsi ad
almeno dieci piani sotto il livello terreno.
Aperte le porte, si ritrovò davanti un corridoio grigio e stretto, lungo circa
venti metri che terminava con una porta di metallo.
Arrivato fino alla porta, si infilò un guanto, per evitare che rimanessero delle
impronte e digitò sul tastierino numerico presente lì vicino, un’altra sequenza
precisa di cifre e lettere. Fece attenzione a non commettere errori, come gli
era sempre stato raccomandato.
Terminata la digitazione, anche questa porta si aprì, mostrando un altro
corridoio terminante sempre con una porta di metallo.
Giuntisi, si tolse il cappellino ed il guanto che aveva appena indossato. A
differenza dell’accesso precedente, questa volta, dovette prima porre la sua
mano su un identificatore di impronte digitali e poi porre il suo occhio destro
in prossimità del lettore ottico della cornea.
Tutta questa procedura era necessaria per poter stabilire con una certa
sicurezza la reale identità di colui che desiderava l’ingresso.
Se alla persona in questione era consentito l’accesso, le porte si sarebbero
aperte. E così avvenne.
Si trovò di fronte un atrio circolare, non molto grande, ma siccome era spoglio,
con le pareti bianche e poco arredato, dava l’impressione di essere molto più
spazioso.
L’ambiente era freddo, impersonale, privo di ogni calore umano.
Al centro vi era soltanto una scrivania in legno di ciliegio, alla quale sedeva
una giovane ragazza impegnata a digitare al computer che si trovava dinnanzi a
lei.
Le sue dita viaggiavano fluide e veloci sulla testiera, senza la benché minima
esitazione, mentre attraverso l’ausilio di un’auricolare parlava al telefono con
qualcuno, forse il suo superiore.
Era una giovane donna di bel aspetto, perfettamente in ordine e professionale
con il suo tailleur grigio chiaro e con i suoi lunghi capelli neri raccolti in
uno chignon. Impeccabile.
Il ragazzo, dopo essersi guardato intorno per un attimo, prese a camminare e si
avvicinò alla scrivania, che molto probabilmente fungeva come una sorta di
reception.
Appena la segretaria lo vide avanzare fino a giungere a meno di dieci centimetri
dalla sua postazione, smise di parlare ed alzò lo sguardo. Distaccato, glaciale.
Nessun tipo di emozione, solo grande compostezza.
“Dovrei parlare con l’Uji no Kami, sono Ren” disse il ragazzo togliendosi
nuovamente il cappello e mostrando i suoi lisci capelli castani scuri che
giungevano fino al collo e che si caratterizzavano per una ciocca argento che
scendeva lungo il suo lato destro del viso.
“So chi è lei. Un attimo.” E nel dire questo abbassò lo sguardo ed andò a
premere un pulsante che si trovava al di sotto del piano della scrivania.
Passato un minuto circa, comparve, da uno dei tre corridoi, chiusi da porte di
vetro a sensori, che si trovavano dietro alla postazione e dislocati su tre dei
punti cardinali, un’altra ragazza, vestita e composta, come la precedente.
Si avvicinò a Ren e gli disse:
“Prego, mi segua” e così si incamminò verso il corridoio centrale.
Tutto il tragitto fu fatto in assoluto silenzio finché non si arrivò ad un altro
piccolo atrio dove era situato un metal detector per evitare che nascessero
problemi.
Nessuno poteva portare armi al cospetto dell’Uji no Kami.
Essere armati era consentito solo fino a quel andito, il quale portava ai suoi
uffici. Sorpassato quello, qualsiasi tipo di arma era bandita, ovviamente fatta
eccezione per l’Uji no Kami e per il suo fidato braccio destro.
Venne perquisito ancora da due uomini prima di poter nuovamente seguire la
ragazza in grigio. Dopo poco si aprì davanti ad i suoi occhi un altro corridoio,
diverso però dai precedenti.
Questo era spazioso, ben illuminato e con del velluto rosso sul pavimento. Tutto
era sontuoso ed elegante.
Quel luogo non aveva proprio nulla a che fare con gli ambienti freddi e
minimalisti che l’avevano preceduto.
Giunti davanti ad una porta chiusa, la ragazza invitò Ren a sedersi sul comodo
divanetto che si trovava lì accanto.
“Aspetti qui. Arriverà tra poco” e riprese il corridoio e tornò indietro,
lasciando il giovane da solo ed in attesa.
Erano già trascorsi più di quindici minuti, ma dell’Uji no Kami non vi era
ancora traccia.
A lui era concesso di farsi attendere, mentre agli altri ovviamente no. Nessuno
doveva permettersi di giungere in ritardo se aveva appuntamento.
L’attesa stava diventando una tortura.
Non sapeva che fare, non sapeva che dire. Ancora poco ed avrebbe potuto
conoscerlo.
Non sapeva se sentirsi lusingato o meno. Non erano in molti quelli che potevano
vantarsi di aver avuto il piacere ed il privilegio di incontrarlo; molti dei
suoi uomini non avevano nemmeno la più pallida idea di che faccia avesse.
Era un personaggio troppo importante e meno persone sapevano e meglio era. L’Uji
no Kami era come una sorta di burattinaio che, nell’ombra, tirava le fila della
società nipponica.
Lui sì, che aveva potere.
Anche soltanto il sentir pronunciare il suo nome incuteva rispetto e paura. Era
a capo della più grande organizzazione criminale giapponese ed aveva rapporti e
contatti con i più grandi organismi mafiosi del mondo tra cui la famosa Triade
di Hong Kong. Addirittura la nota ikka dei Kishuu di Kyoto non osava andare
contro all’Uji no Kami. Le sue ritorsioni ed i suoi regolamenti di conti
restavano alla memoria come tra i più cruenti ed i più dolorosi. Nessuno la
faceva franca e questo anche grazie al suo fidato braccio destro, abile sopra
ogni misura nelle torture e nelle morti lente, molto lente.
Ren si trovava a testa china, seduto su quel divanetto, con le mani appoggiate
alla fronte mentre tamburellava i piedi a causa del nervosismo crescente.
Dei passi. Un leggero vociferare.
L’Uji no Kami stava sicuramente percorrendo il corridoio con il suo seguito;
ancora qualche metro ed il momento della verità sarebbe giunto.
Lo sentì vicino. Dei piedi accanto ai suoi. Smise di agitarsi. Alzò lo sguardo e
fu in quel attimo che si trovò davanti in tutta la sua figura il tanto
famigerato Uji no Kami, colui che nelle mani possedeva il suo destino e la sua
vita.
Rimase sconvolto.