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Autore: Eterocromia    12/12/2012    4 recensioni
(( 6927 - alternate universe ))
Tsunayoshi Sawada quando racconta raramente fa pause; eppure ne fa un’altra ancora. E ce ne saranno delle altre. Così tante e così mute che mi faranno provare una parte del dolore sinistro che ha vissuto Tsunayoshi.
“Fu l’unica volta che ascoltai la sua voce prima della Caduta.”
Pausa.
“Recitava l’Ave Maria in tedesco.”
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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The Wall

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“We don't need no education
We don’t need no thought control
No dark sarcasm in the classroom
Teachers leave them kids alone
Hey! Teachers! Leave them kids alone!
All in all it's just another brick in the wall.
All in all you're just another brick in the wall.”


-

9 novembre 2001

Sai che giorno è oggi?
Tsunayoshi alza il volto e il corpo dalla scrivania e mi guarda al di sopra dei suoi occhiali da lettura. Sta per fare una cosa che fa molto raramente; si avvicina alla mia scrivania con la sua sedia, con un lieve sospiro – che non si sente neanche, schiude le labbra e basta–toglie gli occhiali e li appoggia sulle gambe.
Sta per parlarmi di lui.
Strofina gli occhi ed accende una sigaretta; il display segna le 01:22. Nel campo dell’editoria si lavora tanto e passare la notte in ufficio è una routine quotidiana: non mi sorprendo e abbandono il mio lavoro, col cuore in fibrillazione.
Tsunayoshi Sawada ha trent’anni e non ne dimostra più di venti: ha tante storie da raccontare che avrebbe potuto fare lo scrittore, ed invece si limita a raccontarle a me, un suo misero compagno di lavoro. Sono qui da un paio d’anni e Tsunayoshi c’era già e fu il primo a darmi il benvenuto, con i suoi occhi nocciola e il monroe sopra le labbra. E’ un mondo pieno di pregiudizi e non nascondo di averli avuti anch’io quando vidi quel piercing;
eppure quest’uomo è la bontà fatta persona.
Sorride appena e lascia fuoriuscire il fumo con un’eleganza che pochi hanno.
12 anni fa cadeva il Muro di Berlino.
Il mio sguardo scivola al vinile incorniciato alle sue spalle, se ne accorge e ride alzandosi. In un attimo solo il mio sguardo vaga in svariati punti che attirano la mia attenzione: il vinile, la sua risata e la sigaretta spenta a metà.
Il primo per istinto al sol nominare il Muro di Berlino, la seconda perché la sua risata è incredibilmente attraente e la terza perché non ha mai lasciato una sigaretta in quel modo.
Svuoto il mio cuore da ogni pensiero e mi preparo a questa storia, che si vede, è più importante delle altre.
“Non lo aprivo da tempo.” mi sussurra, e i suoi occhi si illuminano spostando il vetro della cornice. Prima di avvicinarsi toglie dalla copertina alcune polaroid e le appoggia sulle scrivania, con il dorso in alto. Non è ancora tempo di vederle, mi ripeto, se Tsunayoshi non le gira. Poco a poco ho imparato le sue abitudini quando racconta; e sembrerà strano ma nonostante ci dividano 10 anni di differenza quest’uomo è per me un padre, con le sue storie e i suoi tanti vinili sembra aver vissuto cent’anni in più.
Si avvicina, si siede di nuovo e più vicino, facendo sfiorare le sue ginocchia con le mie, come se stesse per raccontarmi un segreto. E poi lo appoggia sulle mie e sulle sue gambe, quel vinile, e tutto d’un tratto mi sento pesante.
The Wall, Pink Floyd.
E non indossa gli occhiali – quando legge nei suoi ricordi non ne ha bisogno.
Nel frattempo che volta la copertina – impiega contemporaneamente tanto e poco tempo – ne continua a parlare. “Quando uscì avevo solo 8 anni e fu un regalo di mio nonno, che guidò fino in città per comprarlo. Da mio padre mai avevo ricevuto regali – per questo motivo mio nonno decise di farmene uno. Mi disse che i bambini cresciuti durante la Seconda Guerra Mondiale non dimenticano mai  la privazione del loro tutto, assieme alla paura.
Una volta finita quella incredibilmente lenta operazione –senza staccare i miei occhi acquosi da quelli tanto espressivi di Tsunayoshi  mostra il retro e la sua voce si dipinge di un filo di fierezza.
“Ed il 21 luglio 1990, nella miafantomatica Berlino, lo feci autografare. Eccoli qui: David Gilmour, Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright.”
Appoggia la schiena sulla sedia e capisco che ora inizia tutto, e anche senza parlare mostro attenzione ai suo occhi.
Sorride d’un sorriso antico e mi guarda con gli occhi lucidi.
“Berlino. 9 novembre 1989.
Ho staccato parte del muro con le mie stesse mani.”
Non abbasso gli occhi per non mostrarmi indiscreto ma ricordo benissimo le sue mani piene di cicatrici – e si apre una nuova risposta ai miei occhi.
Perché, ti chiederai. Perché eri a Berlino, perché hai staccato parti del muro. E io aggiungerei: perché ti sei innamorato?” guardando il suo volto ed ascoltando le sue parole comprendo che non è solo la storia che inizia, ma che è anche l’inizio della sua vita. L’inizio del suo tutto.
“A 18 anni con quei pochi spiccioli che avevo scappai in Germania.” Si ferma per un secondo e riprende. “No, non è esattamente corretto. La mia meta era Gerusalemme ed invece mi ritrovai in Germania, in un modo o in un altro.
The Wall mi spinse a cambiare all’ultimo e a dirigermi verso Il Muro.
Una volta arrivato lì avevo con me solo uno zaino, pochi soldi, una Polaroid, una conoscenza quasi assente del tedesco e The Wall.”
Mi fissa e ride, nonostante io non ne comprenda il perché. “Beh, non so se te lo stia chiedendo, ma in tal caso fosse così…le sigarette arrivarono dopo. Strano ma vero, non fumavo ancora, quindi non rientrano nella mia lista da italiano sbarcato a Berlino.”
Questa volta si ferma per un bel po’, e ancora non capisco se lo fa per trovare le parole o solo per godersi il ricordo che ritorna in vita, lentamente.
“Il vizio del fumo è stato un dono della persona che più ho amato. Mukuro Rokudo.”
Si ferma di nuovo e questa volta il perché mi è chiaro: nominare il nome di una persona dopo tanto tempo fa uno strano effetto; Tsunayoshi continua a tenere gli occhi nei miei ed è uno sguardo tanto intriso di tristezza che non ho la forza di tenere il confronto. Continua ad essere tanto vicino da sfiorarmi le ginocchia eppure sento che il suo corpo sta tornando alla Berlino del 1989, assieme al suo cuore.
“Oggi come oggi potrà sembrarti una cosa strana, ma all’epoca ero un vagabondo. Non avevo casa né albergo e per sopravvivere vendevo ritratti inchiostrati. Dormivo appoggiato al Muro.
Per una serie di coincidenze decisi che il posto ‘ideale’ per riposare sarebbe stato una parte remota di Berlino Ovest, dove c’era un piccolo taglio al di sotto del muro. Davvero, era proprio un taglio. Sottile e fragile ma che portava, in un certo senso, alla Berlino Est. Era per me un simbolo di libertà ed è stato proprio in quel punto che incontrai Mukuro Rokudo.
O meglio, incontrai la sua voce.”
Tsunayoshi Sawada quando racconta raramente fa pause; eppure ne fa un’altra ancora. E ce ne saranno delle altre. Così tante e così mute che mi faranno provare una parte del dolore sinistro che ha vissuto Tsunayoshi.
“Fu l’unica volta che ascoltai la sua voce prima della Caduta.”
Pausa.
“Recitava l’Ave Maria in tedesco.”

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Dopo un lasso di tempo che mi pare pressoché infinito apre un cassetto della sua scrivania e ne tira fuori una scatola di latta che non c’era mai stata. E’ una scatola di caramelle tedesche, verde opaco.  Evidentemente sapeva già che mi avrebbe parlato di questo.
La apre e ci tira fuori un mondo.
Le polaroid contenute sono tantissime e altrettanti sono i fogli – grigi, sporchi, alcuni hanno assunto quel colore di umidità che si ottiene appoggiando fogli al muro per tanto tempo.
Prende la scatola e torna da me.
“A mia volta, recitai l ‘Ave Maria in italiano, come una tacita risposta. Poco dopo, da quella piccola fessura, spuntò un foglio. Mi aveva sentito, e in tedesco stretto aveva chiesto – scrivendolo - in che lingua stessi pregando.”
Mi mostra il primo foglio di una corrispondenza che sembra durata una vita e mi lascia osservare la meravigliosa grafia di quell’uomo. E’ longilinea, elegante, il tratto è leggero ed etereo.
“Per parlarti di tutto il nostro inizio ci vorrebbero ore ed ore” mi sussurra, e capisco che vorrebbe per davvero. “Ma mi limiterò ad apportare dei tagli. In parte mi farà bene, ne sono certo.”
“Non conoscevo il tedesco, non conoscevo quella città, non conoscevo l’amore. Eppure a poco a poco Mukuro mi insegnò tutto, in quella corrispondenza di lettere tra Berlino Est e Berlino Ovest. Nonostante il muro fosse largo circa un metro o qualcosa di simile era una vera e propria corrispondenza tra due mondi diversi, oltre che una città divisa: Italia e Germania, pianeta e universo, omocromia e eterocromia. Io e lui.
Lui mi scrisse che provenivo dal paese del meer, e a sua volta gli scrissi che era lui il mio mare.
A questo punto abbassa lo sguardo che si dirige tra le polaroid e con attenzione trova quella che vuole mostrarmi.
Non le da neanche uno sguardo.
Capisco che ricorda tutto a memoria di quella polaroid, di quell’uomo, del suo mare.
E quando mi lascia tra le mani la polaroid capisco perché è il suo mare e non trattengo lo stupore rappreso nel mio corpo: l’uomo di nome Mukuro è di una bellezza tanto amena da sembrare un Dio. Non un Dio, ma il Dio.
L’effetto quasi sfocato che solo una polaroid può conferire alle sue foto incornicia in modo perfetto i capelli blu come il mare, lunghi, tenuti in un codino a lato. Osservo la polaroid e non riesco a descriverla.
E neanche Tsunayoshi che è uno scrittore nel cuore riesce a farlo.
E’ una bellezza pura ed unica, fredda, elegante. Le parole si aggrovigliano nella mia mente ma non ce n’è una che riesce ad elogiare ciò che quell’uomo rappresenta. Il mare tra i capelli, il viso di una perla. L’occhio rosso come il sangue dei marinai e che si tramuta in blu nell’altro occhio, ritornando alla sua patria, ritornando al mare.
Alle sue spalle il Muro e nel suo volto un sorriso enigmatico – all’orecchio destro una serie di piercing e nient’altro.
E’ difficile staccare gli occhi da quel demonio eppure lo devo fare se voglio ascoltare ancora.
“Quella è la prima polaroid che mi inviò tramite il nostro piccolo servizio postale.
Ce ne inviavamo una al giorno, ed io le ho conservate tutte. Tutte.”
Tiene la testa fissa sulla scatola e non osa tornare a penetrare nel mio sguardo, tutto intorno a lui si fa nero e si dipinge di tristezza.
Tante cose ho capito di Tsunayoshi, eppure non ho ancora capito il perché il destino abbia scelto di donargli una vita di sofferenze. Ed ecco l’ennesima pausa – che dura così tanto da permettermi di ripensare a tutte le sue parole sin dall’inizio. Tsunayoshi conosce l’arte del parlare.
La sua voce è tenue, sussurra quasi: ma quando parla la stanza si riempie della sua voce, del suo essere, e sembra che non ci sia la sua unica voce, ma ce ne siano tantissime.
Per questo mi spavento lievemente ora che ha ripreso, lui non se ne accorge. Né della sua arte del parlare, né del mio sobbalzo. Credo che la sua voce sia così perché parlare tramite un muro è incredibilmente difficile.
E non solo quello di Berlino.
“Iniziammo a scavare con le dita una parte di muro, unicamente per far unire le nostre mani. Quando ci riuscimmo, io ero da quasi un anno a Berlino. Da quando l’avevo conosciuto. Da quando avevamo iniziato questa singolare relazione.
Nonostante non lo scrivessimo in cuor nostro sapevamo di amarci – nonostante il muro linguistico, il muro di singolarità, il Muro di Berlino.
E quando finalmente riuscimmo a creare uno spazio tale da poter unire le nostre mani, quest’ultime erano sporche di sangue, e quel sangue ci rappresentava.”
Guarda le mani e negli occhi vede il sangue su di esse – il suo volto chinato sembra narrarmi questo pensiero.
Sospira e finalmente alza il volto.
Piange.
Si sforza di sorridere e abbozza un sorriso che stona con i suoi occhi.
“Ci sono tante cose di noi che vorrei dire…”
Pausa brevissima.
“Ma non ce la faccio. E’ impossibile per me.
Più ne parlo, più muoio dentro. Mukuro diceva sempre che sarebbe morto per aver vissuto troppo la vita. Per i suoi eccessi. Per l’eccesso di amare e per l’eccesso di fumare.”
“Il 9 novembre 1989 faceva freddo eppure staccai con queste mani i pezzi di quel Muro che ci aveva divisi da sempre.
I muri cadono quando diventano trasparenti e tra me e lui – tra Berlino Est e Berlino Ovest – non c’era più niente da nascondere.”
China il capo e le lacrime si chinano con lui, rotolando per le guance. Rovista ancora in quella scatola che è un mondo e ne tira fuori due foto.
“Ci macchiammo il volto del nostro stesso sangue. Ci baciammo su quelle macerie.”
Si alza asciugandosi le lacrime, va ad aprire un altro cassetto e ne tira fuori una videocassetta che evidentemente non entrava nella scatola di latta. Mentre si avvicina al televisore, la sua voce torna a risplendere.
“Convivemmo per poco - persino l’eternità sarebbe stata troppo breve per noi, per la nostra ingordigia d’amarci.
Mukuro morì pochi anni dopo per il suo eccesso di vivere.
Non l’ho mai superato.”
La sua voce si spezza in quest’ultima frase e come punto c’è il rumore della videocassetta che si ricarica ed è pronta a partire. “Questo è l’ultimo ricordo che ho di lui.”

-

Lo schermo s’illumina in un silenzio religioso, e mostra un primo piano di Mukuro Rokudo che sorride – è Tsunayoshi che impugna la videocamera, si sente la sua voce in sottofondo.
E’ allegra, risuona chiara nella stanza come sempre, eppure ha un pizzico di vita in più. Non riesco a staccare gli occhi dal volto di Mukuro, e con la coda dell’occhio osservo la tristezza nel volto di Tsunayoshi.
“Sing für mich, Mukuro! Sing für mich!” gli dice, ridendo. Il mare risponde a sua volta ridendo e assottigliando gli occhi.
“Ja, ja!”
Mukuro Rokudo intona il ritornello di Another Brick in The Wall e lentamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo, piango anche io, in silenzio.

We don't need no education
We don’t need no thought control
No dark sarcasm in the classroom
Teachers leave them kids alone
Hey! Teachers! Leave them kids alone!
All in all it's just another brick in the wall.
All in all you're just another brick in the wall.


“Küss mich, ich verdiene es!”
“Nein, Herr Meer!”

E il mare tira a sé Tsunayoshi Sawada baciandolo, amandolo come se fosse suo figlio.
Nello stesso istante la videocassetta termina e un unico suono riempie la stanza.
Una preghiera.

Gegrüßet seist du, Maria, voll der Gnade,
der Herr ist mit dir.
Du bist gebenedeit unter den Frauen,
und gebenedeit ist die Frucht deines Leibes, Jesus.

Heilige Maria, Mutter Gottes,
bitte für uns Sünder
jetzt und in der Stunde unseres Todes.

Amen.

E le lacrime crollano sul pavimento come quel Muro. Le mie e le sue.
L’alba rischiara i nostri volti e in questo momento capisco che non c’è luce che può rischiarare il cuore nero di Tsunayoshi Sawada.
E non c’è muro che quest’uomo non possa abbattere.
Mi sorride e capisco che è la storia è giunta al suo termine.

“Ricorda.” mi dice.
“A tutto c’è rimedio, tranne che alla morte.”

  
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