La
sera prima mi ero promessa e ripromessa che
sarei andata a dormire ad un orario decente, ma mio padre mi aveva
appena
regalato un libro nuovo: mi ero infilata sotto le coperte alle tre di
notte e
di conseguenza quella mattina ero in un ritardo senza precedenti.
Non
avevo nessuna scusa; arrivare in ritardo il
primo giorno di scuola dopo le vacanze natalizie era troppo persino per
i
ritardatari più incalliti della mia classe. Ero quasi certa
che i professori mi
avrebbero appeso al portone della scuola come monito per i
più riottosi non
appena avessi varcato l’odiata soglia.
Mi
fiondai letteralmente in bagno per sistemarmi e
vestirmi nel modo più consono e veloce possibile: in cinque
minuti riuscii a
legare i miei capelli rossicci in una lunga treccia laterale e ad
abbinare un
semplice maglione blu con i miei jeans più comodi e le
sneakers. Truccarsi a
quell’ora e con gli autobus che facevano i capricci non aveva
senso, perciò
corsi verso la cucina senza nemmeno ricontrollare il mio riflesso nello
specchio. Attraversando il corridoio incrociai mio padre, intento a
sfogliare
il giornale mattutino. –Sei forse in ritardo Anna?- Mi
chiese, alzando gli
occhi scuri da Il Corriere della Sera per un secondo e scompigliandosi
i
capelli. Mio padre era un bell’uomo, con gli occhiali da
vista e un fisico
asciutto per la sua età, tuttavia si ostinava a fumare una
sigaretta dietro
l’altra, cosa che faceva imbestialire a tal punto mia madre,
che, attraversata
da un attacco di rabbia, una sera aveva preso armi e bagagli e aveva
dormito
dai nonni. Mio padre, preso dai sensi di colpa, aveva smesso per una
settimana,
e poi aveva ricominciato spargendo cattivi odori nel suo studio e in
cucina. Da
parte mia, ritenevo che il tabacco sciolto avesse un sapore migliore.
-Si,
ma se mi sbrigo forse riesco a entrare!- Gli
risposi sorpassandolo, mentre si dirigeva sovrappensiero verso il
bagno. In
cucina mia madre stava addentando una mela: era già
perfettamente truccata e
vestita alle otto meno dieci del mattino (Sei in ritardo Annaaaa), con
un
tailleur sobrio ed elegante e un vertiginoso tacco a spillo da far
invidia ad
una top model. –Hai un processo oggi?- Chiesi
frettolosamente, afferrando una
manciata di mandarini e lanciandoli nella mia borsa per portarli a
scuola. –Oh,
una cosa da niente. Vincerò sicuramente.-
Affermò, facendo oscillare i suoi
chilometrici capelli biondi di qua e di là. Ecco, la vera
ingiustizia della mia
vita era non solo quella di essere perennemente in ritardo, ma anche di
non
avere nemmeno un briciolo dell’eleganza e della bellezza da
femme fatale di mia
madre.
-Buona
fortuna!- Esclamai precipitando verso
l’ingresso e infilandomi senza nemmeno sapere come il
cappotto. –Stai attenta
ai semafori e ricorda che stasera ceniamo dai Cetti!- Sentii trillare
mia madre
mentre correvo giù per le scale.
Accidenti!
Non ci voleva proprio una cena il primo
giorno di scuola, non quando nelle prossime settimane avremmo avuto
tutte le
verifiche di tutte le materie concentrate in pochi giorni.
Per
la prima volta in cinque anni corsi come se non
vi fosse un domani per arrivare a scuola. Fortunatamente il tram
passò
nell’attimo stesso in cui arrivai alla fermata e a quel punto
potei trarre un
sospiro di sollievo. Tirai fuori il cellulare dalla tasca per
controllare
l’ora: otto e cinque. Perfetto, ero ufficialmente chiusa
fuori fino alle nove.
Il liceo classico in cui andavo era uno tra i più rinomati
della città ed
effettivamente i professori avevano ottime credenziali e gli studenti
erano
tutti più o meno contenti di frequentarla ( con le numerose
eccezioni del
caso), ma nessuno, e ripeto nessuno
sopportava il bidello delle otto e cinque. Ci si poteva mettere in
ginocchio,
scongiurare, piangere ed implorare: non si poteva passare nemmeno se ne
dipendeva la salvezza del mondo.
Mi
accasciai su un sedile libero e ripresi a poco a
poco il fiato: non ci voleva un ritardo del genere in quel momento
dell’anno,
anche perché in prima ora c’era biologia, e la
professoressa di scienze non
perdeva mai un’occasione per darmi filo da torcere e farmi
passare numerosi
guai.
Tirai
fuori l’ipod e il tabacco e mi rollai una sigaretta.
Il
tram per miracolo del Signore riuscì ad arrivare
alla mia fermata in ben nove minuti, al che io scesi e tirando fuori i
fiammiferi mi accesi la mia sigaretta. Aspirando di tanto in tanto e
con una camminata
assolutamente rilassata rotolai fino a scuola, sentendo tutto
d’un tratto la
stanchezza che fino a quel momento era stata soffocata
dall’adrenalina della
fretta. Attraversai la strada e il mio liceo apparve in tutta la sua
magnificenza, se non per quel Dux Me Lo Sux che si stagliava netto su
un angolo
della facciata. Non che avessi nulla in contrario riguardo al concetto,
ma
ritenevo che l’arte dei graffiti si potesse concepire in
maniere più… consone. I
motorini e le bici degli studenti erano tutti parcheggiati in fila sul
marciapiede opposto in un’area apposita, ma nonostante la
grande quantità di
veicoli non c’era nessuno ad attendere che la campanella
suonasse di fronte a
scuola con quel freddo polare: come sospettavo. Sospirando e
già a conoscenza
del mio prossimo futuro di punizioni e ramanzine mi sedetti sui gradini
di
fronte al portone della scuola, attendendo che il tempo scorresse
velocemente,
cosa che il tempo, in certi momenti, non fa mai.
Avevo
David Bowie che mi cantava nelle orecchie ed
ero molto concentrata a sconfiggere il mio record personale di un gioco
sul
cellulare, quindi non sentii subito quando lui cercò di
richiamare la mia
attenzione; fu quando un’ ombra molto lunga mi
oscurò la visuale che mi accorsi
di lui e quando sollevai lo sguardo mi sembrò di essere in
uno di quei film
d’amore tipo Cinderella Story, in cui un figo pazzesco, il
più figo
pazzescamente figo che si sia mai visto viene a parlare con te, capito?
Con te.
Ed
effettivamente, con chi altro avrebbe potuto
parlare? C’ero solo io… Lo osservai con molta
attenzione in pochissimi secondi,
perché probabilmente era stufo di essere sottoposto a
radiografie continue da
tutte le ragazze che incontrava: quello che saltava subito
all’occhio erano i
suoi occhi di un azzurro brillante, molto grandi e incoronati da lunghe
ciglia
folte. Non appena incrociai il suo sguardo lui mi sorrise, passandosi
una mano
tra i lunghi capelli biondi che, sfidando le leggi della fisica,
stavano tutti
in piedi, in un perfetto disordine. Non avevo mai rimirato due occhi
così
intensi e mi vergognai nel sentire il mio stomaco in subbuglio.
Abbassai lo
sguardo e poi mi resi conto che sarebbe stato più educato
togliermi le cuffie
dalle orecchie.
-Ciao-
Disse, sorridendo ancora di più. Aveva un
bel sorriso.
-Ciao-
Risposi, spegnendo il mio cellulare senza
salvare e riponendolo nella tasca del mio cappotto. Poi presi
l’ipod e senza
neanche mettere in pausa aggrovigliai le cuffie e lo spinsi in fondo
alla
borsa.
-Tu
sei di questa scuola?- Chiese imbarazzato,
probabilmente pensava che la risposta fosse ovvia, dato che stavo
seduta lì
davanti.
-Effettivamente
si. Ho fatto tardi ieri sera e
svegliarsi stamattina è stato un problema.-
-Non
dirlo a me- Disse, con sguardo comprensivo.
–Ehm, scusa se te lo chiedo: posso sedermi qui con te?-
Lo
guardai come se fosse un alieno, perché che
fosse figo era già qualcosa, ma che fosse anche un
gentiluomo… sembrava
impossibile.
Presi
la borsa e la appoggiai sulle mie gambe
incrociate per fargli posto. -Certo
che
puoi. –
Mi
impegnai nel sorriso più bello del mio repertorio,
nella speranza che potesse vedere in me qualcosa di più che
l’estranea con cui
conversare per far passare il tempo.
-Io
non ti ho mai visto a scuola.- Dissi,
constatando che effettivamente sembrava strano che fosse lì,
con quel viso da
modello, i vestiti firmati e lo skateboard alla mano.
-Sono
nuovo. Oggi sarebbe il primo giorno.-
-Ahi,
ahi, ahi, parti male ad arrivare il primo
giorno in ritardo.- Risi io.
-Sono
una causa persa con i ritardi. Inoltre ci ho
messo un sacco per trovare la strada. Questa non è
esattamente la mia zona.-
-Dove
abiti?- Gli chiesi, senza pensare che era una
domanda decisamente troppo intima da fare ad uno sconosciuto. Ma lui
non ne
sembrò affatto turbato.
-Zona
Sempione.- Disse con un tono che mi sembrò
terribilmente amareggiato, il che mi sembrò strano,
perché vivere in zona
Sempione era una vera chiccheria.
-Ah
io ci vado molto spesso. Ci abitano delle mie
amiche.-
Mi
guardò con un’intensità difficile da
sostenere.
-E
com’è possibile che non ti abbia mai
incontrato?- Lo disse più a sé stesso che a me.
–In fondo sono perennemente in
giro- Aggiunse con fare scherzoso.
Forse
lui non se n’era accorto ma io avevo appena
perso dieci anni di vita per il tono in cui aveva espresso la prima
parte della
frase. Feci un respiro profondo.
-Adesso
che studierai qui dubito che tu possa stare
in giro perennemente.- Mi tirai un ceffone mentale: il mio tentativo di
sembrare sciolta e spiritosa era penoso.
-Non
lo so, sai, in fondo io vengo dal Beccaria.-
-Scherzi?-
Gli chiesi sbalordita: il Beccaria era
uno dei licei più duri e impegnativi di Milano.
-No.
Ma è per questo che sono stato bocciato.-
Ridemmo
entrambi e la trovai una sensazione
piacevole.
-Allora,
sai già in che sezione sarai?- Gli chiesi.
Mi sembrava di essere una di quelle conduttrici di The Club:
decisamente
invadente e falsa, che intavolava la conversazione su discorsi base,
che
sapevano di plastica.
Rimproverai
mentalmente anche la mia scarsa
nonchalance.
-Nella
F. Ultimo anno.- Disse. -Com’è?Difficile?-
Lo
guardai con tanto d’occhi: stavo veramente
sognando. Non poteva essere in classe con me. Era assolutamente
impossibile!
Nessuno aveva avvisato che sarebbe arrivato un nuovo studente proprio
l’ultimo
anno, quello della maturità. Okay, dovevo stare calma.
Magari era anche vero;
magari lui era veramente in classe con me, ma il fatto che mi stesse
parlando e
che stesse dicendo tutte quelle cose… strane, non
significava niente. Magari
lui stesso era un po’ strano; in fondo almeno un difetto
doveva averlo.
E
poi non appena avesse visto le mie compagne di
classe, con il loro fisico scolpito e i vestiti della stessa marca dei
suoi si
sarebbe ben presto dimenticato della ragazza con la treccia rossa e il
vestiario sobrio.
-Io
sono nella F.- Gli annunciai, un po’ come se
fosse una sentenza, un po’ come se fossi in un sogno.
Mi
guardò in una maniera indecifrabile e poi
sorrise. -Questa è una fortuna.- Esclamò,
visibilmente contento.
-Perché?-
Gli chiesi, contagiata dalla sua
allegria.
-Beh
perché ci siamo conosciuti fuori
dalla scuola e fuori dalla classe,
quindi non dovrò
disperarmi per trovare qualcuno da cui copiare, visto che siamo
diventati
amici.- Sembrava molto ironico questo suo discorsetto, ma non potei
fare a meno
di intravederci un qualcosa di vero.
-Frena,
frena, frena- Lo bloccai. –prima di tutto
noi ci siamo appena conosciuti e in secondo luogo io non sono proprio
la
persona adatta da cui copiare.-
Sorrise,
raggiante.
–Sono Aaron- Si presentò porgendomi
la mano. Aveva una stretta salda e
la pelle morbida ma segnata sui polpastrelli dai calli tipici dei
chitarristi.
–Anna- Sussurrai.
Improvvisamente
mi resi conto che le nostre
ginocchia si stavano sfiorando e che eravamo molto, molto vicini.
-Sono
molto contento di essere in classe con te,
Anna e non
perché mi lascerai copiare,
ma perché stranamente in questi dieci minuti mi sono sentito
come a casa, e
questo non succedeva da molto tempo.-
Mi
sembrò una rivelazione così pura e intima e
segreta che trattenni il respiro. Come si poteva rispondere o anche
solo
reagire ad una dichiarazione come quella?
Strano
a dirsi, ma anche io mi sentivo
piacevolmente a mio agio con lui, sorvolando sulle reazioni che il mio
corpo
aveva alle sue occhiate intense.
Non
mi sembrava il caso di farglielo presente.
-Aaron
è un nome strano. Tu non sei italiano.-
-Questa
non è una domanda.- Affermò divertito e un
po’ confuso dal mio cambio piuttosto brusco di argomento.
Alzai
un sopracciglio, perplessa. –Effettivamente
no.-
-Beh,
io sono Inglese.- Annunciò, ricordandomi di
annotare che a tutta la sua perfezione andavano
aggiunte le sue origini anglosassone.
Gli
sorrisi. -Tu, non ci crederai, Aaron, ma io ho
vissuto in Inghilterra.-
I
suoi occhi si illuminarono. -Se mi dici che hai
vissuto a Bristol ti sposo seduta stante.- Esclamò quasi
balzando in piedi.
Risi
come una matta, e mi sentii stupidamente
lusingata quando lo vidi inginocchiarsi di fronte a me in attesa di una
risposta.
Lo
guardai e mi resi conto che in un quarto d’ora
mi ero presa una bella cotta: - Mi dispiace deluderti, mio rispettabile
cavaliere, ma ho vissuto a Londra.-
Si
portò teatralmente una mano al petto. –Per
quanti anni?-
-Una
decina- Affermai, facendo un calcolo
approssimativo.
-Perdonata.-
Concluse, pensandoci per qualche
secondo. –A questo punto potremo parlare in codice per non
farci capire nel
caso ci sia qualche segreto segretissimo che nessun altro
può sapere.-
-Certamente
più sicuro del codice Mors.-
Acconsentii.
Per
la prima volta fu lui a distogliere lo sguardo,
passando una mano in mezzo a quei capelli biondissimi che sembravano
anche molto
morbidi.
Rise.
–Mi dispiace se ti sono sembrato un po’
strano. O invadente. O esageratamente… espansivo.
È che mi hai sorpreso in un
momento molto strano della mia vita.-
-Fight
Club.-
-Come?-
Lo
guardai, sentendomi incredibilmente stupida.
-Fight
Club. Hai citato esattamente l’ultima frase
del film.-
Mi
guardò come se avesse appena incontrato una
nuova specie che doveva assolutamente conoscere e classificare.
-Hai…
ragione.- Ci guardammo.
La
campanella suonò e io distolsi lo sguardo,
scattando in piedi, neanche avessi una molla nelle scarpe.
-Ci
conviene entrare. Adesso abbiamo inglese e la
prof non tollera molto i ritardi.-
-Oh,
imparerà ad apprezzarli, non preoccuparti.-
Disse in tono ironico.
Si
alzò in piedi e per la prima volta mi ritrovai
accanto a lui in tutta la sua altezza. Accanto al suo metro e ottanta
io
sembravo un tappo di sughero andato a male.
Guardò
il portone e il bidello che stava aprendo le
porte e fece un enorme respiro per trovare coraggio.
-Paura?-
Gli chiesi.
-Non
sai quanta.- Rispose in un sussurro. Mi lanciò
un’occhiata di sbieco. –Credo che il Karma mi sia
favorevole.-
-Perché?-
-Beh,
prima di entrare mi ha fatto incontrare te.-
Gli
lanciai uno sguardo scombussolato che lui
accolse con un sorriso.
-Forza,-
Esclamò. -Andiamo a compiere questa grande
impresa. Madame?-E così dicendo, con un terribile accento
francese, mi porse il
braccio. Lo guardai con tanto d’occhi.
-Facciamo
un’entrata in scena con stile. Però
guidami tu.- Disse facendomi l’occhiolino.
Deglutii
e con il cuore a mille, non affatto degno
di una diciottene come me, incastrai il braccio attorno al suo e gli
feci
strada.
Non
appena varcammo l’entrata mi sentii ridicola
così appesa al braccio di un emerito sconosciuto, e
l’imbarazzo crebbe quando
gli studenti inziarono ad uscire dalle classi per il cambio
dell’ora.
Mi
sentivo osservata, sotto i riflettori ed era una
sensazione bruttissima, che si aggiungeva però a quella
piacevole di lui che
ogni tanto abbassava lo sguardo verso di me e mi faceva
l’occhiolino.
Comunque
a fare scalpore ero certamente io, così
bassa e banale accanto alla sua statuaria bellezza, perché
solitamente tipi
come lui giravano con ragazze alla moda, alte, con le gambe lunghe e
flessuose.
Tipe
come mia madre, o come Bianca: quanto odiavo
quella ragazza. Fin dal primo giorno non aveva fatto altro se non
commentare
come mi vestivo, giudicare i voti che prendevo e in generale mi
trattava
malissimo, sentendosi la diva più acclamata del mondo solo
per qualche Mi Piace su facebook.
Mio padre diceva
che ce l’aveva con me perché mi percepiva come una
minaccia, ma lui non aveva
mai visto Bianca Bai: come poteva la ragazza più bella della
scuola vedere me
come minaccia? In generale ero piuttosto graziosa ma non potevo vantare
certo
un grande stile o una grande spavalderia nel portare un abito. Bianca,
d’altro
canto sarebbe stata bene anche con un sacchetto
dell’immondizia addosso; e di
questo ero terribilmente gelosa, anche se non lo ammettevo.
Con
tutti quegli sguardi puntati addosso iniziai a
sentire molto caldo sotto il cappotto; lanciai uno sguardo al mio
improvvisato
cavaliere: se aveva paura come aveva detto di avere non si vedeva, dato
che
camminava tranquillamente sorridendo a tutti quelli che passavano.
Improvvisamente
mi sembrò falso e costruito.
-Passiamo
dal cortile.- Gli annunciai, riflettendo
che probabilmente se aveva una facciata ben costruita per nascondersi ce l’aveva per un
motivo che non mi era dato
sapere.
-Non
vedo l’ora.- Rispose, vagamente ammicante.
Ci
dirigemmo verso la porta che dava sul cortile
della scuola e automaticamente mi irrigidii, stringendogli
convulsamente il
braccio.
-Nervosa?-
Mi chiese.
-Ho
dei compagni di classe piuttosto chiacchieroni.-
Deglutii cercando di essere il più silenziosa possibile.
-E
perché dovrebbero chiacchierare?- Chiese,
stringendomi di più il braccio e avvicinandomi a lui.
-Perché
siamo a braccetto e…-
-E?-
Effettivamente
non
potevo continuare la frase: avrebbe significato ammettere che sembrava
stessimo
insieme, il che era anche stupido da pensare dato che di solito i
fidanzati si
tengono per mano.
Ammutolii,
evitando accuratamente di rispondergli,
al che lui puntò i piedi bloccandomi sul posto e sciogliendo
la stretta dal mio
braccio.
-Cosa…?-
Stavo per chiedergli, ma lui mi
interruppe. –Dammi la mano.- Disse, completamente serio.
Fu
lì che iniziai a dubitare della sua natura umana
e/o mentalmente sana.
-Dammi
la mano.- Ripetè con più insistenza,
porgendomela. La gente che passava ci guardava come se fossimo la scena
ultima
di un romanzo d’amore. Avrei voluto rifiutare, fuggire e
sprofondare nelle
viscere della terra per sempre, ma questo sarebbe risultato molto
maleducato e
avrei fatto anche una gran brutta figura. Titubante gli porsi la mia
mano, che
lui strinse avvolgendola completamente: in quella stretta possente mi
sentii
minuscola e fremetti quando lui sorrise soddisfatto.
-Perché?-
Borbottai, guardandomi le scarpe, mentre
scendevamo i pochi gradini che si affacciavano sul cortile. Sentii
troppi,
troppi occhi voltarsi dalla nostra parte e guardare con insistenza e
senza un
minimo di dignità: mi sentii privata della mia privacy e
terribilmente nuda.
Più
in là intravidi i miei compagni di classe che
ci osservavano come tutti gli altri, e mi venne quasi un attacco di
cuore.
Tra
di loro c’era sicuramente…
Aaron
rise forte e rapita, mi girai a guardarlo. Mi
lanciò un’occhiata che pareva proprio
malintenzionata e sorrise di sbieco: -Se
devono chiacchierare lasciamoglielo fare su qualcosa di più
che un’entrata con
stile.-
E
così dicendo mi baciò la guancia sinistra in modo
così poco casto che avrei voluto censurare tutta la scena
per poi dileguarmi
nel nulla per il resto della mia vita.
Non
ci potevo credere: uno sconosciuto di cui
sapevo a malapena il nome mi si era presentato venti minuti prima, mi
aveva
fatto una semi dichiarazione e ora fingeva di essere il mio ragazzo
davanti a
tutta la scuola.
Arrossii,
senza riuscire ad impedire che le mie
viscere prendessero vita con la voglia di aggrovigliarsi.
-Questo
è stato molto sleale da parte tua.- Riuscii
a dire. Volevo suonare ironica o almeno autoironica ma era venuto fuori
solo un
nodino di suoni poco udibili.
-Non
sai nemmeno quanto io possa essere baro e
sleale.- Mi confessò, e il modo in cui lo disse mi
turbò non poco.
-Ora
penseranno di tutto.- Mi lamentai,
tormentandomi la treccia con le dita della mano libera.
Si
strinse nelle spalle: -Lasciaglielo pensare. In
fondo come fanno a sapere che ci conosciamo solo da mezz’ora?-
-Da
come ti comporti non ci crederebbe nessuno.- Lo
rimbeccai, guardandolo storto.
-La
cosa ti da fastidio?- Mi chiese con un
sorrisetto che di angelico aveva ben poco.
-Hai
presente quando prima mi hai detto che forse
eri troppo espansivo? Avevi ragione.- Soffocò una risata e
io gli lanciai uno
sguardo di rimprovero.
-Magari
è perché mi piaci.- Buttò
lì
improvvisamente con voce roca, e io mi proclamai ufficialmente colpita
e
affondata, anche se qualcosa in lui non mi convinceva. Non potei
rispondergli
per le rime, dato che quella era un’evidente provocazione,
perché eravamo
appena arrivati dall’altro lato del cortile dove i miei
compagni di classe
stavano chiaramente spettegolando.
Se
in quel momento non fossi stata completamente
assorbita dalle parole di Aaron, avrei sicuramente fotografato la
scena: tutte
le ragazze presenti ci
guardavano come
se Gesù fosse appena apparso in groppa ad un Drago e le mie
compagne di classe
in particolare avevano la bocca così spalancata mentre
guardavano le nostre
mani intrecciate, che sembravano un dipinto surrealista. Provai una
fitta
piacevole all’altezza dello stomaco; probabilmente era la mia
autostima che
ballava la samba. I ragazzi presenti
mi
osservavano come se si fossero accorti solo dopo cinque anni che
sì, ero una
ragazza e no, non facevo poi così schifo se uno come Aaron
mi teneva per mano
dispensando baci sexy alle nove del mattino.
Presi
un bel respiro e senza guardare nessuno in
particolare esclamai: -Buongiorno.-
La
prima a reagire, ovviamente fu Bianca: scuotendo
i suoi lunghi capelli scuri, fece tre passi avanti, mettendo in mostra
il suo
corpo atletico.
-Ciao
Anna!- Esclamò come se fossimo amiche per la
vita. Mi sorrise per mezzo secondo e poi si rivolse ad Aaron sbattendo
le
lunghe ciglia piene di rimmel. –Ciao
Aaron. Sono settimane che non ci
vediamo.-
Secondo
i miei gusti aveva calcato un po’ troppo
sulla parola “settimane”, e il fatto che gli avesse
messo una mano sulla spalla
era terribilmente sospetto.
Si
conoscevano. Bianca e Aaron si conoscevano. Mi
sentii morire: da un momento all’altro mi avrebbe lasciato
andare la mano,
avrebbe baciato Bianca sulle guance e sarebbero andati a scopare
allegramente
nel bagno del secondo piano, tutti felici e contenti, amen.
-Ciao
Bianca.- Sorrise lui in modo tirato, per
niente felice di vederla. Sentendomi un po’ in colpa
sghignazzai nel vedere la
faccia di Bianca scurirsi e arricciarsi per il disappunto.
Mi
lasciò veramente andare la mano, ma solo per
aggiungere un –Devo andare in bagno.-
Dentro
di me sospirai. – A sinistra in fondo al
corridoio.-
Lo
osservai mentre saliva i gradini con un ghigno
in faccia e un espressione che aveva tutta l’aria di essere
un augurio; della
serie Buona fortuna, Anna, risolvi come
più ti aggrada il casino in cui io
ti ho messo.
Nel
momento stesso in cui sparì dalla visuale fui
letteralmente assalita dalle mie compagne di classe, che iniziarono a
farmi
domande su domande.
-Oh.
Mio. Dio. Anna, chi è quello?-
Bianca
alzò gli occhi al cielo: -Dio, quanto sei
stupida Monica, quello è Aaron Aderick. Come puoi non
conoscerlo?.-
-La
domanda è come fai a conoscerlo tu!- Esclamò
Teresa rivolta a me.
-Non
puoi conoscerlo davvero. Come vi siete
incontrati?- Chiese istericamente Monica.
-Vi
siete almeno fatti?- Chiese acidamente Bianca.
-Ma
state insieme?- Mi chiese Lucia e a quella
domanda tutte trattennero il fiato.
Sentii
dei ragazzi ridacchiare alle nostre spalle,
ma cercai di ignorarli, sperando che tra di loro non ci
fosse…
-Certo
che no,- Esclamai, stringendomi la borsa
sulla spalla destra. –siamo solamente amici.- Dissi, cercando
di sembrare
sicura di me e sperando di nascondere la mia bugia, visto che era
già tanto
considerarci conoscenti.
Sorrisero
tutte maliziosamente. –Come no.- Annuì
Teresa . –Si vede che siete solo amici.-
Grazie
a Dio suonò la campanella e mi apprestai a
seguire le mie compagne in classe. Nel corridoio incontrai le mie
migliori
amiche, che erano nel corso C e che conoscevo ormai da una vita.
Mi
guardarono perplesse: probabilmente a causa
della mia espressione da coniglio ferito.
-Tutto
bene, Anna?- Mi chiese Isa, prendendomi per
una spalla. –Sembri strana.- Aggiunse Cecilia.
-Vi
racconto più tardi. E tanto per la cronaca
faticherete a crederci.- Dissi mogiamente superandole. Ludovica mi
guardò con
espressione visibilmente curiosa. “Dopo dopo” le
mimai con le labbra, entrando
in classe a testa bassa.
È
inutile specificare che non lo vidi, nonostante
la sua statura e la sua… massa: sbattei contro una figura
muscolosa, fasciata
da jeans di marca e una giacca di pelle molto costosa. Sorrisi
amaramente; in
una giornata surreale come quella ci mancava solo di dover affrontare
il mio ex
ragazzo.
Edoardo
era stato il mio primo amore: eravamo stati
insieme per due lunghi anni, ma poi mi aveva lasciata. Avevo sofferto
come un
cane, finchè poi non avevo scoperto che quel doppiogiochista
mi tradiva con una
delle mie migliori amiche, Caterina. La cosa peggiore era averli
entrambi in
classe; erano uno spettacolo insopportabile e squallido da vedere:
fingevano di
essere amici quando era palese e noto a tutti che c’era di
più. Di recente poi
Edo aveva deciso che doveva assolutamente rientrare nelle mie grazie.
In
tutti i sensi.
-Scusa.-
Mi affrettai a dire, lanciandogli
un’occhiata seccata, dato che mi aveva afferrato per i
fianchi per non farmi
cadere. In quelle due settimane di vacanza gli erano cresciuti i
capelli, che
adesso gli ricadevano sugli occhi chiari in maniera (quanto era
difficile
ammetterlo), estremamente seducente.
-Di
niente.- Soffiò di rimando, lasciandomi andare
con molta lentezza e donandomi uno dei suoi sorrisi irritantemente
belli.
Ignorarlo
era difficile, anche se ormai era passato
un anno dalla grande delusione, perché avendogli dato tutta
me stessa a volte
mi veniva ancora automatico salutarlo
con un bacio e sussurrargli certe cose nell’orecchio a
educazione fisica.
A
testa alta percorsi la distanza dalla porta
all’ultima fila, dov’erano già sedute le
due ragazze più simpatiche della
classe, mie compagne di banco.
-Ciao.-
Le salutai, appoggiando la borsa sul banco
e sfilandomi il cappotto.
Mi
guardarono come se avessero appena scoperto che
avevo girato un porno.
Alzai gli
occhi al cielo accasciandomi sulla sedia con un tonfo. –Non
vi ci mettete anche
voi.- Mi lamentai.
-Andiamo,
racconta!- Mi spronò Eleonora,
sistemandosi la frangia e rivolgendosi completamente a me.
-Non
c’è niente da raccontare, ragazze. Sul serio!
Ci siamo conosciuti e siamo diventati amici.-
-Pff,
non ci crede nessuno.- Disse Serena.
-Bacia
bene, vero?- Chiese con un trillo Eleonora.
-Ma
che ne so! Ragazze non stiamo insieme!
Mettetevelo in testa. Possiamo cambiare argomento? Da quando sono
arrivata mi
sembra di essere perennemente ad una simulazione della
Maturità.-
Ridacchiammo.
-Ma
è veramente così figo come nelle foto?.-
Ripensai
al suo viso, e al modo in cui mi aveva
baciata sulla guancia.
-Il
più figo dei fighi.- Confessai, con un sorriso
a trentadue denti.
In
quel momento entrò la prof. di inglese e ancora
prima di sedersi alla cattedra annunciò: -Oggi interrogo.-
Dalle
file di banchi si alzò un lamento generale.
-Ma
perché ‘sta stronza non spiega mai?-
Sibilò tra
sé Serena, tirando fuori il quaderno con gli appunti di
letteratura.
-Persino
il primo giorno dopo le vacanze deve
interrogare. Ma guarda questa!- Ringhiò tra i denti
Eleonora, riguardando
velocemente i contenuti generali della vita di Blake.
Io
invece pensavo ad altro, anche perché ero già
stata interrogata prima delle vacanze: dov’era finito Aaron?
Per
tutta risposta la maniglia della porta si
abbassò e lui apparve come una visione. La prof.
alzò gli occhi dal registro e
lo guardò dall’alto in basso, con una smorfia
infastidita: non aveva bussato,
sbaglio assoluto.
-Sì?-
Chiese scorbuticamente, osservando lo
skateboard che teneva in mano come se fosse un sacchetto pieno di
scarafaggi.
-Buongiorno,
sono uno studente nuovo. Vengo dal
Beccaria.-
Un
brusio tutto femminile si sparse per la classe e
parecchie paia di occhi si voltarono verso di me.
Mi
rannicchiai sul banco fingendo di scrivere
qualcosa non appena Edo si voltò di scatto verso di me, dopo
che Giacomo gli
aveva bisbigliato nell’orecchio.
-Zitti.-
Esclamò la prof. rivolgendosi a noi. –Ti
sembra questa l’ora di arrivare? Sono le nove e dieci.- Lo
sgridò aspramente.
-Mi
dispiace.-
-Ce
l’hai il Nulla Osta?-
-Sì.-
Aprì lo zaino e si mise a rovistare tra
quello che sembrava un ammasso di scartoffie e ciarpame. Dopo aver
spazientito
per bene la prof, tirò fuori un documento un po’
stropicciato e lo porse
all’odiosa donna, la quale lo lesse velocemente e glielo
riconsegnò.
Sbuffando
sonoramente, la prof. scrisse qualcosa
di molto lungo sul registro e poi
scrutò l’intera classe in modo pensieroso.
-È
davvero figo. – Mi sussurrò Eleonora
all’orecchio. Vidi Serena sistemarsi la scollatura e
ridacchiai, ricordandomi
di fare lo stesso.
Aaron
non mi rivolse nemmeno uno sguardo, anche se
non era difficile vedermi con la mia treccia rossa in mezzo a tutte
quelle
capigliature castane o bionde, il che mi deluse un po’, ma
non lo diedi
assolutamente a vedere.
-Bene
Signor Aderick, prenda pure questo banco
accanto alla cattedra e lo attacchi alla prima fila. Sono sicura che si
troverà
bene accanto al Signor Versari.-
Ne
dubitai fortemente, osservando Aaron sollevare
senza il minimo sforzo il banco e avvicinarlo a quello di un Edoardo
visibilmente scocciato.
Aaron
gli porse la mano e con mia grande sorpresa
Edo gliela strinse. Iniziarono a parlottare sottovoce , mentre la prof.
iniziava a chiamare gli interrogati alla lavagna.
Passai
le due ore successive a tormentarmi su
quello che avrebbero potuto dirsi vicendevolmente; mi sentivo impotente
e anche
molto stupida, ma forse anche un po’… contesa?
Finii
di rollarmi la sigaretta sotto il banco
proprio quando suonò la campanella dell’intervallo
e decisi che era il caso di
sottoporre l’intero caso alle mie sagge amiche: quella
giornata, e se fosse
andata avanti così anche la mia vita, aveva preso una piega
molto strana,
troppo stile telefilm d’amore tra teenagers americani.
Tanto
per cambiare, mentre mi infilavo il cappotto
e mi dirigevo verso la porta, mi sentii afferrare per un braccio.
–Mi aspetti?-
Mi chiese Aaron, guardandomi dritto negli occhi come se fosse stato
pronto ad
ipnotizzarmi, se necessario. –C-certo.- Balbettai,
abbottonandomi fino alla
gola.
-Sai,
Edo mi stava offrendo una sigaretta.- Disse,
avvicinandosi al mio ex, che gli passò il tabacco, le
cartine e i filtri con un
certo disprezzo.
-Strano,
lui non le offre mai.- Commentai
sprezzante.
-Sbagli,
Anna: io non le offro a te.- Rispose senza
guardarmi, e sorridendo con il filtro tra le labbra.
-Che
simpaticone.- Lo rimbeccai.
-Vi
conoscete da molto?- Chiese Aaron con tono
innocente, mentre tirava su.
-Ormai
sono quasi sette anni.-
Lo
osservai mentre lo diceva e una dolorosa fitta
al cuore accompagnò il ricordo del nostro ultimo,
appassionato bacio.
-E
voi invece?- Mi chiese Edo con uno sguardo di
sfida.
-Voi
cosa?- Chiesi bruscamente.
-Da
quanto vi conoscete?-
Io
e Aaron ci guardammo e ci scappò
inaspettatamente da ridere.
-A
dire il vero da poco..- Iniziai io. -…ma è come
se ci conoscessimo da sempre.- Concluse Aaron.
Edo
non sembrò molto contento di quella risposta,
visto che strinse le mani a tal punto che le nocche gli divennero
bianche. Io
arrossii. –Andiamo.- Dissi
rivolta ad
Aaron, e afferrandolo per la giacca lo trascinai fuori in cortile.
-Non
dovevi dire quelle cose.- Dissi, appena fummo
fuori. Una ventata di freddo mi fece rabbrividire.
-Quello
è il tuo ex?- Chiese, ignorandomi.
-La
tua domanda ha un non so che di sadico.- Lo
rimproverai.
Si
accese la sigaretta con un sorrisetto e mi passò
l’accendino.
-Abbiamo
chiacchierato, ma non credo di stargli
simpatico.- Constatò
con un ghigno, e
sembrava effettivamente compiaciuto di quella faccenda.
-Avete
parlato di me?.- Chiesi, sperando in una
risposta negativa.
-Certo
che si.- Rispose tranquillamente. –La cosa
ti turba?-
Ci
pensai su. –A dire il vero si.-
Si
strinse nelle spalle: -Non vedo il perché.-
Abbassai
lo sguardo: aveva ragione. Con Edo non
avevo più niente a che fare di mia spontanea
volontà e Aaron era un perfetto
sconosciuto. Completamente fuori, tra l’altro.
-Non
dovevi dire quelle cose.- Ripetei, guardandolo
negli occhi.
-E
per quale motivo, di grazia?- Mi chiese,
aspirando.
-Le
cose sono… complicate.- La mia voce si
affievolì in un sussurro.
Calò
il silenzio per qualche secondo.
-Ti
piace ancora, non è vero?- Chiese, e mi
sorprese sentirlo irritato e infastidito.
-Assolutamente
no.- Dissi con fermezza, anche se
non era proprio tutta la verità. Vidi passare Caterina e ne
ebbi la conferma:
ci tenevo ancora a lui, e lo capivo dalla rabbia che mi assaliva non
appena vedevo
lei passare a meno di tre metri di
distanza da me.
Improvvisamente
ritrovai Aaron a pochi centimetri
di distanza dal mio viso:
-Il
fatto che io mi stia prendendo un’abbondante
porzione di confidenza con te non ti deve spaventare. È solo
che, al contrario
di ogni mia aspettativa e di ogni logica, mi interessi.- Mi disse, con
voce
molto bassa.
Deglutii
in modo vergognoso, senza curarmene
troppo: di nuovo, tutti ci guardavano.
-Il
fatto è che questo non ti da il permesso di
comportarti in modo arrogante.- Dissi con un tono sorprendentemente
fermo.
-Arrogante?-
Mi chiese lentamente, lanciando il
mozzicone lontano da noi e concentrandosi molto nel farmi cedere le
gambe con
un suo sguardo seducente.
-S-si.-
Balbettai. –Arrogante. E lunatico. E anche
un po’fuori di testa, se posso dirla tutta.-
Mi
guardò come se avesse appena trovato la
combinazione per una cassaforte che aveva in mano da millenni.
Poi
si allontanò un po’ da me e si mise una mano
tra i capelli, ridendo stancamente.
-Mi
sto comportando da matto.- Sussurrò rivolto a
me, e io annuii, un po’ dispiaciuta.
Poi
alzò lo sguardo e fissò un punto oltre la mia
testa. Sorrise in modo palesemente falso e agitò la mano in
segno di saluto. Mi
voltai e vidi che un ragazzo molto alto ci stava venendo incontro.
-Scusa,
ho appena visto un mio amico. Ci vediamo
dopo.- Mi comunicò, telegrafico, oltrepassandomi.
Mi
lasciò sola come un’allocca in mezzo al cortile,
con in mano ciò che rimaneva della mia sigaretta e in testa
una confusione tale
che per un attimo mi sentii male. Intravidi una compagna di classe di
Ludovica,
Cecilia e Isa: -Ciao Cami, la Ludo e le altre?- Le chiesi, mentre
passava
frettolosamente di lì.
-Stanno
finendo la versione!- Mi gridò, mentre
iniziava a correre per andare chissà dove.
Non
potevo nemmeno raccontare alle mie amiche tutta
quell’assurda storia.
Avevo
un bisogno disperato di caffeina.
Alle
macchinette c’era come al solito una fila
infinita, perché per avere un caffè ci volevano
minimo tre minuti abbondanti;
in un giorno qualunque avrei rinunciato, limitandomi a scroccare sorsi
di qua e
di là, ma quella giornata surreale mi aveva buttato addosso
una stanchezza che
non provavo da quella sera in cui io e Ludo avevamo bevuto un intero
barile di
birra, quindi se volevo sopravvivere fino all’una il
caffè era necessario.
Mi
misi in coda, guardandomi intorno per cercare
qualche volto conosciuto: stare alle macchinette da sola era una di
quelle
tante situazioni che mi facevano sentire a disagio, soprattutto se
intorno a me
la gente era a gruppetti di tre o di quattro.
Sospirai,
cercando nelle tasche dei jeans delle
monetine e ripensai a quello che era successo in sole tre ore quel
giorno.
Più
ci riflettevo, più mi rendevo conto che Aaron era
veramente una persona strana e che probabilmente si era fatto
un’ idea sbagliata
su di me, anche se non riuscivo a capire bene come: io non ero certo
una che ispirava
sesso da una botta e via, ma tutti i suoi comportamenti e le sue parole
avevano
fatto intendere che ci stesse provando e che ritenesse la situazione facile
da risolvere. Visto che a malapena sapevo scrivere il suo
nome, era allucinante che alla luce del sole un ragazzo potesse essere
così
sfacciato e così manipolatore.
Come
avevo potuto accettare che mi prendesse per
mano e mi baciasse in quel modo di fronte a tutti? Mi arrabbiai con me
stessa,
decidendo che non mi sarei più fatta raggirare in quel modo:
Aaron doveva
capire bene che non ero una di quelle bamboline stupide con le quali
probabilmente
girava lui.
Dietro
di me si erano appostate due ragazzine di
quarta ginnasio particolarmente oche, che non facevano altro se non
ridere a
crepapelle per qualcosa che una delle due aveva detto.
Qualcosa
a proposito di un pene.
Alzai
gli occhi al cielo, e così facendo notai che
Edo era comparso come d’incanto di fianco a me.
Ma
che strano, proprio quando ero finalmente la
prima della fila alle macchinette.
-Da
quando è legale far girare le oche giulive
senza il guinzaglio?- Commentai, inserendo le monetine nello spazio
apposito e
pigiando il tasto del caffè macchiato.
Quando
avevo scoperto di lui e di Caterina, mi ero
ripromessa di non rivolgergli mai più la parola, ma quando a
Settembre lo avevo
rivisto dopo tre mesi di vacanza, abbronzato e sorridente, mi ero resa
conto
che era impossibile, e avevo accantonato le mie promesse nel
dimenticatoio,
limitandomi alla formale educazione e alle frasi di circostanza.
Quel
commento, certo, non faceva parte del nostro
classico repertorio, ma ormai quel giorno nulla sembrava andare per il
verso
giusto, e infatti lui sembrò cogliere la palla al balzo.
-Ma
fino all’anno scorso non lo eri anche tu?
Accidenti, non riesco proprio a stare al passo ci tempi.-
Sghignazzò,
appoggiandosi alla macchinetta.
-Forse
non riesci a stare al passo coi miei
tempi.- Argomentai, irritata,
alzando un sopracciglio.
-Sarà
perché tu vai a spasso
con qualcun altro.- Mi rispose, strafottente.
La
macchinetta emise un bip elettronico,
avvertendomi che la bevanda era pronta.
Mi
chinai per afferrare il mio caffè e lo guardai
apertamente, con tutta la neutralità possibile.
-Vaffanculo.-
Lo salutai, girando sui tacchi e
tornando in cortile.
Come
osava fare il geloso con me dopo quello che mi
aveva fatto! Era ridicolo e anche abbastanza stupido.
Trattenni
un grido di rabbia, strafogandomi di
caffè e scendendo i gradini.
-Anna.-
Mi sentii chiamare.
Riconobbi
la voce di Edo, lo ignorai e accelerai il
passo.
Mi
superò più veloce del vento e mi
sbarrò la
strada. Per un attimo mi ero dimenticata che faceva rugby.
Da
come mi guardava si capiva perfettamente che era
sfacciatamente convinto che io fossi ancora innamorata di lui.
Ebbi
all’improvviso la voglia di tirargli un
ceffone, oppure che ne so, l’intero bicchierino di
caffè bollente nelle
mutande.
-Cosa
c’è?- Gli chiesi con un sbuffo.
-Aaron
è uno stronzo patentato..- Iniziò a dire.
Ricominciai a camminare. –Strano,- Dissi.
–perché l’unico stronzo che vedo qui
intorno sei tu.-
Invece
di vederlo andare via incazzato nero me lo
ritrovai di nuovo di fronte, a sbarrarmi la strada.
-Anna,
non scherzo. Mi ha detto chiaramente che..-
-Edo,
a me non potrebbe interessare di meno quello
che vi siete detti tu e Aaron, d’accordo?-
Mentii spudoratamente, tormentandomi la treccia per il
nervosismo. –Tu
non hai il diritto di venirmi a dire chi devo vedere e chi devo
evitare. E
soprattutto non hai il diritto di dare dello stronzo ad Aaron, quando
il vero re
degli stronzi sei tu! Mi dispiace, ma non ho la memoria a breve
termine. Le
cose me le ricordo ancora, e anche molto bene.- Sibilai,
sentendo il mio cuore battere forte e
l’adrenalina salire.
Edoardo
mi guardò con quella che stupidamente
interpretai come sofferenza e
dopo un
momento di silenzio mi sfiorò la mano.
-Mi
manchi…- Sussurrò.
Avevo
ricucito troppo malamente la ferita che mi
aveva fatto dentro: sentii i punti saltare e la ferita riaprirsi,
insieme al
fiume di lacrime che speravo di aver arginato. Trattenni tutto dentro
di me,
limitandomi ad allontanare la mia mano dalla sua e cercando, e forse
trovando, l’odio
che per un attimo era stato sepolto sotto la nostalgia.
Mi
mancava da morire, e lo trovavo bellissimo e
simpaticissimo. A volte mi trovavo a desiderarlo nei momenti
più impensabili:
al cinema, durante le cene di famiglia, nel mio letto la
notte…
Avrei
voluto dirgli tante cose, ma effettivamente
non avevo dimenticato e il tradimento bruciava come se fossi stata
marchiata a
fuoco di fresco.
Abbassai
gli occhi: -Non è proprio il momento,
Edo.- Borbottai con voce spezzata.
-Mi
stai dicendo che ci dev’essere un momento
particolare per dirti che sono veramente uno stronzo, che sono pentito
da
morire e che ti amo ancora?-
Trattenni
il respiro per un secondo e molto, molto
lentamente alzai lo sguardo, furente.
Mi
avvicinai a lui, odiandolo, perché non potevo
credere che potesse essere così bugiardo.
Non
riuscii a trattenere un singhiozzo.
-Come
osi dire che mi ami quando sanno tutti che vi
scopate ancora adesso?- Lo sorpassai.
-Anna..-
Mi
girai a guardarlo. Aveva gli occhi azzurri
spalancati e la bocca semiaperta in un sospiro di sorpresa e..
confusione?
Come
aveva potuto tradirmi…
–Non osare
seguirmi.- Sibilai.
Corsi
in bagno, riuscendo a chiedere al cielo
soltanto perché.