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Autore: sickgirlpen    16/12/2012    2 recensioni
Anna è all'ultimo anno di Liceo: vanta una folta chioma rossa e un carattere forte e determinato. Tra amiche del cuore, rivali in amore, un ex fidanzato che si fa dimenticare con troppe difficoltà, un nuovo stranissimo compagno di classe, bello e manipolatore, vacanze esotiche e mille avventure, Anna cercherà di superare la maturità e di trovare l'amore.
-Nervosa?- Mi chiese.
-Ho dei compagni di classe piuttosto chiacchieroni.- Deglutii cercando di essere il più silenziosa possibile.
-E perché dovrebbero chiacchierare?- Chiese, stringendomi di più il braccio e avvicinandomi a lui.
-Perché siamo a braccetto e…-
-E?-
Effettivamente non potevo continuare la frase: avrebbe significato ammettere che sembrava stessimo insieme, il che era anche stupido da pensare dato che di solito i fidanzati si tengono per mano.
Ammutolii, evitando accuratamente di rispondergli, al che lui puntò i piedi bloccandomi sul posto e sciogliendo la stretta dal mio braccio.
-Cosa…?- Stavo per chiedergli, ma lui mi interruppe. –Dammi la mano.- Disse, completamente serio.
Fu lì che iniziai a dubitare della sua natura umana e/o mentalmente sana.
Genere: Avventura, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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La sera prima mi ero promessa e ripromessa che sarei andata a dormire ad un orario decente, ma mio padre mi aveva appena regalato un libro nuovo: mi ero infilata sotto le coperte alle tre di notte e di conseguenza quella mattina ero in un ritardo senza precedenti.

Non avevo nessuna scusa; arrivare in ritardo il primo giorno di scuola dopo le vacanze natalizie era troppo persino per i ritardatari più incalliti della mia classe. Ero quasi certa che i professori mi avrebbero appeso al portone della scuola come monito per i più riottosi non appena avessi varcato l’odiata soglia.

Mi fiondai letteralmente in bagno per sistemarmi e vestirmi nel modo più consono e veloce possibile: in cinque minuti riuscii a legare i miei capelli rossicci in una lunga treccia laterale e ad abbinare un semplice maglione blu con i miei jeans più comodi e le sneakers. Truccarsi a quell’ora e con gli autobus che facevano i capricci non aveva senso, perciò corsi verso la cucina senza nemmeno ricontrollare il mio riflesso nello specchio. Attraversando il corridoio incrociai mio padre, intento a sfogliare il giornale mattutino. –Sei forse in ritardo Anna?- Mi chiese, alzando gli occhi scuri da Il Corriere della Sera per un secondo e scompigliandosi i capelli. Mio padre era un bell’uomo, con gli occhiali da vista e un fisico asciutto per la sua età, tuttavia si ostinava a fumare una sigaretta dietro l’altra, cosa che faceva imbestialire a tal punto mia madre, che, attraversata da un attacco di rabbia, una sera aveva preso armi e bagagli e aveva dormito dai nonni. Mio padre, preso dai sensi di colpa, aveva smesso per una settimana, e poi aveva ricominciato spargendo cattivi odori nel suo studio e in cucina. Da parte mia, ritenevo che il tabacco sciolto avesse un sapore migliore.

-Si, ma se mi sbrigo forse riesco a entrare!- Gli risposi sorpassandolo, mentre si dirigeva sovrappensiero verso il bagno. In cucina mia madre stava addentando una mela: era già perfettamente truccata e vestita alle otto meno dieci del mattino (Sei in ritardo Annaaaa), con un tailleur sobrio ed elegante e un vertiginoso tacco a spillo da far invidia ad una top model. –Hai un processo oggi?- Chiesi frettolosamente, afferrando una manciata di mandarini e lanciandoli nella mia borsa per portarli a scuola. –Oh, una cosa da niente. Vincerò sicuramente.- Affermò, facendo oscillare i suoi chilometrici capelli biondi di qua e di là. Ecco, la vera ingiustizia della mia vita era non solo quella di essere perennemente in ritardo, ma anche di non avere nemmeno un briciolo dell’eleganza e della bellezza da femme fatale di mia madre.

-Buona fortuna!- Esclamai precipitando verso l’ingresso e infilandomi senza nemmeno sapere come il cappotto. –Stai attenta ai semafori e ricorda che stasera ceniamo dai Cetti!- Sentii trillare mia madre mentre correvo giù per le scale.

Accidenti! Non ci voleva proprio una cena il primo giorno di scuola, non quando nelle prossime settimane avremmo avuto tutte le verifiche di tutte le materie concentrate in pochi giorni.

Per la prima volta in cinque anni corsi come se non vi fosse un domani per arrivare a scuola. Fortunatamente il tram passò nell’attimo stesso in cui arrivai alla fermata e a quel punto potei trarre un sospiro di sollievo. Tirai fuori il cellulare dalla tasca per controllare l’ora: otto e cinque. Perfetto, ero ufficialmente chiusa fuori fino alle nove. Il liceo classico in cui andavo era uno tra i più rinomati della città ed effettivamente i professori avevano ottime credenziali e gli studenti erano tutti più o meno contenti di frequentarla ( con le numerose eccezioni del caso), ma nessuno, e ripeto nessuno sopportava il bidello delle otto e cinque. Ci si poteva mettere in ginocchio, scongiurare, piangere ed implorare: non si poteva passare nemmeno se ne dipendeva la salvezza del mondo.

Mi accasciai su un sedile libero e ripresi a poco a poco il fiato: non ci voleva un ritardo del genere in quel momento dell’anno, anche perché in prima ora c’era biologia, e la professoressa di scienze non perdeva mai un’occasione per darmi filo da torcere e farmi passare numerosi guai.

Tirai fuori l’ipod e il tabacco e mi rollai una sigaretta.

Il tram per miracolo del Signore riuscì ad arrivare alla mia fermata in ben nove minuti, al che io scesi e tirando fuori i fiammiferi mi accesi la mia sigaretta. Aspirando di tanto in tanto e con una camminata assolutamente rilassata rotolai fino a scuola, sentendo tutto d’un tratto la stanchezza che fino a quel momento era stata soffocata dall’adrenalina della fretta. Attraversai la strada e il mio liceo apparve in tutta la sua magnificenza, se non per quel Dux Me Lo Sux che si stagliava netto su un angolo della facciata. Non che avessi nulla in contrario riguardo al concetto, ma ritenevo che l’arte dei graffiti si potesse concepire in maniere più… consone. I motorini e le bici degli studenti erano tutti parcheggiati in fila sul marciapiede opposto in un’area apposita, ma nonostante la grande quantità di veicoli non c’era nessuno ad attendere che la campanella suonasse di fronte a scuola con quel freddo polare: come sospettavo. Sospirando e già a conoscenza del mio prossimo futuro di punizioni e ramanzine mi sedetti sui gradini di fronte al portone della scuola, attendendo che il tempo scorresse velocemente, cosa che il tempo, in certi momenti, non fa mai.

Avevo David Bowie che mi cantava nelle orecchie ed ero molto concentrata a sconfiggere il mio record personale di un gioco sul cellulare, quindi non sentii subito quando lui cercò di richiamare la mia attenzione; fu quando un’ ombra molto lunga mi oscurò la visuale che mi accorsi di lui e quando sollevai lo sguardo mi sembrò di essere in uno di quei film d’amore tipo Cinderella Story, in cui un figo pazzesco, il più figo pazzescamente figo che si sia mai visto viene a parlare con te, capito? Con te.

Ed effettivamente, con chi altro avrebbe potuto parlare? C’ero solo io… Lo osservai con molta attenzione in pochissimi secondi, perché probabilmente era stufo di essere sottoposto a radiografie continue da tutte le ragazze che incontrava: quello che saltava subito all’occhio erano i suoi occhi di un azzurro brillante, molto grandi e incoronati da lunghe ciglia folte. Non appena incrociai il suo sguardo lui mi sorrise, passandosi una mano tra i lunghi capelli biondi che, sfidando le leggi della fisica, stavano tutti in piedi, in un perfetto disordine. Non avevo mai rimirato due occhi così intensi e mi vergognai nel sentire il mio stomaco in subbuglio. Abbassai lo sguardo e poi mi resi conto che sarebbe stato più educato togliermi le cuffie dalle orecchie.

-Ciao- Disse, sorridendo ancora di più. Aveva un bel sorriso.

-Ciao- Risposi, spegnendo il mio cellulare senza salvare e riponendolo nella tasca del mio cappotto. Poi presi l’ipod e senza neanche mettere in pausa aggrovigliai le cuffie e lo spinsi in fondo alla borsa.

-Tu sei di questa scuola?- Chiese imbarazzato, probabilmente pensava che la risposta fosse ovvia, dato che stavo seduta lì davanti.

-Effettivamente si. Ho fatto tardi ieri sera e svegliarsi stamattina è stato un problema.-

-Non dirlo a me- Disse, con sguardo comprensivo. –Ehm, scusa se te lo chiedo: posso sedermi qui con te?-

Lo guardai come se fosse un alieno, perché che fosse figo era già qualcosa, ma che fosse anche un gentiluomo… sembrava impossibile.

Presi la borsa e la appoggiai sulle mie gambe incrociate per fargli posto.  -Certo che puoi. –

Mi impegnai nel sorriso più bello del mio repertorio, nella speranza che potesse vedere in me qualcosa di più che l’estranea con cui conversare per far passare il tempo.

-Io non ti ho mai visto a scuola.- Dissi, constatando che effettivamente sembrava strano che fosse lì, con quel viso da modello, i vestiti firmati e lo skateboard alla mano.

-Sono nuovo. Oggi sarebbe il primo giorno.-

-Ahi, ahi, ahi, parti male ad arrivare il primo giorno in ritardo.- Risi io.

-Sono una causa persa con i ritardi. Inoltre ci ho messo un sacco per trovare la strada. Questa non è esattamente la mia zona.-

-Dove abiti?- Gli chiesi, senza pensare che era una domanda decisamente troppo intima da fare ad uno sconosciuto. Ma lui non ne sembrò affatto turbato.

-Zona Sempione.- Disse con un tono che mi sembrò terribilmente amareggiato, il che mi sembrò strano, perché vivere in zona Sempione era una vera chiccheria.

-Ah io ci vado molto spesso. Ci abitano delle mie amiche.-

Mi guardò con un’intensità difficile da sostenere.

-E com’è possibile che non ti abbia mai incontrato?- Lo disse più a sé stesso che a me. –In fondo sono perennemente in giro- Aggiunse con fare scherzoso.

Forse lui non se n’era accorto ma io avevo appena perso dieci anni di vita per il tono in cui aveva espresso la prima parte della frase. Feci un respiro profondo.

-Adesso che studierai qui dubito che tu possa stare in giro perennemente.- Mi tirai un ceffone mentale: il mio tentativo di sembrare sciolta e spiritosa era penoso.

-Non lo so, sai, in fondo io vengo dal Beccaria.-

-Scherzi?- Gli chiesi sbalordita: il Beccaria era uno dei licei più duri e impegnativi di Milano.

-No. Ma è per questo che sono stato bocciato.-

Ridemmo entrambi e la trovai una sensazione piacevole.

-Allora, sai già in che sezione sarai?- Gli chiesi. Mi sembrava di essere una di quelle conduttrici di The Club: decisamente invadente e falsa, che intavolava la conversazione su discorsi base, che sapevano di plastica.

Rimproverai mentalmente anche la mia scarsa nonchalance.

-Nella F. Ultimo anno.- Disse. -Com’è?Difficile?-

Lo guardai con tanto d’occhi: stavo veramente sognando. Non poteva essere in classe con me. Era assolutamente impossibile! Nessuno aveva avvisato che sarebbe arrivato un nuovo studente proprio l’ultimo anno, quello della maturità. Okay, dovevo stare calma. Magari era anche vero; magari lui era veramente in classe con me, ma il fatto che mi stesse parlando e che stesse dicendo tutte quelle cose… strane, non significava niente. Magari lui stesso era un po’ strano; in fondo almeno un difetto doveva averlo.

E poi non appena avesse visto le mie compagne di classe, con il loro fisico scolpito e i vestiti della stessa marca dei suoi si sarebbe ben presto dimenticato della ragazza con la treccia rossa e il vestiario sobrio.

-Io sono nella F.- Gli annunciai, un po’ come se fosse una sentenza, un po’ come se fossi in un sogno.

Mi guardò in una maniera indecifrabile e poi sorrise. -Questa è una fortuna.- Esclamò, visibilmente contento.

-Perché?- Gli chiesi, contagiata dalla sua allegria.

-Beh perché ci siamo conosciuti fuori dalla scuola e fuori dalla classe, quindi non dovrò disperarmi per trovare qualcuno da cui copiare, visto che siamo diventati amici.- Sembrava molto ironico questo suo discorsetto, ma non potei fare a meno di intravederci un qualcosa di vero.

-Frena, frena, frena- Lo bloccai. –prima di tutto noi ci siamo appena conosciuti e in secondo luogo io non sono proprio la persona adatta da cui copiare.-

Sorrise, raggiante.  –Sono Aaron- Si presentò porgendomi la mano. Aveva una stretta salda e la pelle morbida ma segnata sui polpastrelli dai calli tipici dei chitarristi. –Anna- Sussurrai.

Improvvisamente mi resi conto che le nostre ginocchia si stavano sfiorando e che eravamo molto, molto vicini.

-Sono molto contento di essere in classe con te, Anna e  non perché mi lascerai copiare, ma perché stranamente in questi dieci minuti mi sono sentito come a casa, e questo non succedeva da molto tempo.-

Mi sembrò una rivelazione così pura e intima e segreta che trattenni il respiro. Come si poteva rispondere o anche solo reagire ad una dichiarazione come quella?

Strano a dirsi, ma anche io mi sentivo piacevolmente a mio agio con lui, sorvolando sulle reazioni che il mio corpo aveva alle sue occhiate intense.

Non mi sembrava il caso di farglielo presente.

-Aaron è un nome strano. Tu non sei italiano.-

-Questa non è una domanda.- Affermò divertito e un po’ confuso dal mio cambio piuttosto brusco di argomento.

Alzai un sopracciglio, perplessa. –Effettivamente no.-

-Beh, io sono Inglese.- Annunciò, ricordandomi di annotare che a tutta la sua perfezione andavano  aggiunte le sue origini anglosassone.

Gli sorrisi. -Tu, non ci crederai, Aaron, ma io ho vissuto in Inghilterra.-

I suoi occhi si illuminarono. -Se mi dici che hai vissuto a Bristol ti sposo seduta stante.- Esclamò quasi balzando in piedi.

Risi come una matta, e mi sentii stupidamente lusingata quando lo vidi inginocchiarsi di fronte a me in attesa di una risposta.

Lo guardai e mi resi conto che in un quarto d’ora mi ero presa una bella cotta: - Mi dispiace deluderti, mio rispettabile cavaliere, ma ho vissuto a Londra.-

Si portò teatralmente una mano al petto. –Per quanti anni?-

-Una decina- Affermai, facendo un calcolo approssimativo.

-Perdonata.- Concluse, pensandoci per qualche secondo. –A questo punto potremo parlare in codice per non farci capire nel caso ci sia qualche segreto segretissimo che nessun altro può sapere.-

-Certamente più sicuro del codice Mors.- Acconsentii.

Per la prima volta fu lui a distogliere lo sguardo, passando una mano in mezzo a quei capelli biondissimi che sembravano anche molto morbidi.

Rise. –Mi dispiace se ti sono sembrato un po’ strano. O invadente. O esageratamente… espansivo. È che mi hai sorpreso in un momento molto strano della mia vita.-

-Fight Club.-

-Come?-

Lo guardai, sentendomi incredibilmente stupida.

-Fight Club. Hai citato esattamente l’ultima frase del film.-

Mi guardò come se avesse appena incontrato una nuova specie che doveva assolutamente conoscere e classificare.

-Hai… ragione.- Ci guardammo.

La campanella suonò e io distolsi lo sguardo, scattando in piedi, neanche avessi una molla nelle scarpe.

-Ci conviene entrare. Adesso abbiamo inglese e la prof non tollera molto i ritardi.-

-Oh, imparerà ad apprezzarli, non preoccuparti.- Disse in tono ironico.

Si alzò in piedi e per la prima volta mi ritrovai accanto a lui in tutta la sua altezza. Accanto al suo metro e ottanta io sembravo un tappo di sughero andato a male.

Guardò il portone e il bidello che stava aprendo le porte e fece un enorme respiro per trovare coraggio.

-Paura?- Gli chiesi.

-Non sai quanta.- Rispose in un sussurro. Mi lanciò un’occhiata di sbieco. –Credo che il Karma mi sia favorevole.-

-Perché?-

-Beh, prima di entrare mi ha fatto incontrare te.-

Gli lanciai uno sguardo scombussolato che lui accolse con un sorriso.

-Forza,- Esclamò. -Andiamo a compiere questa grande impresa. Madame?-E così dicendo, con un terribile accento francese, mi porse il braccio. Lo guardai con tanto d’occhi.

-Facciamo un’entrata in scena con stile. Però guidami tu.- Disse facendomi l’occhiolino.

Deglutii e con il cuore a mille, non affatto degno di una diciottene come me, incastrai il braccio attorno al suo e gli feci strada.

Non appena varcammo l’entrata mi sentii ridicola così appesa al braccio di un emerito sconosciuto, e l’imbarazzo crebbe quando gli studenti inziarono ad uscire dalle classi per il cambio dell’ora.

Mi sentivo osservata, sotto i riflettori ed era una sensazione bruttissima, che si aggiungeva però a quella piacevole di lui che ogni tanto abbassava lo sguardo verso di me e mi faceva l’occhiolino.

Comunque a fare scalpore ero certamente io, così bassa e banale accanto alla sua statuaria bellezza, perché solitamente tipi come lui giravano con ragazze alla moda, alte, con le gambe lunghe e flessuose.

Tipe come mia madre, o come Bianca: quanto odiavo quella ragazza. Fin dal primo giorno non aveva fatto altro se non commentare come mi vestivo, giudicare i voti che prendevo e in generale mi trattava malissimo, sentendosi la diva più acclamata del mondo solo per qualche Mi Piace su facebook. Mio padre diceva che ce l’aveva con me perché mi percepiva come una minaccia, ma lui non aveva mai visto Bianca Bai: come poteva la ragazza più bella della scuola vedere me come minaccia? In generale ero piuttosto graziosa ma non potevo vantare certo un grande stile o una grande spavalderia nel portare un abito. Bianca, d’altro canto sarebbe stata bene anche con un sacchetto dell’immondizia addosso; e di questo ero terribilmente gelosa, anche se non lo ammettevo.

Con tutti quegli sguardi puntati addosso iniziai a sentire molto caldo sotto il cappotto; lanciai uno sguardo al mio improvvisato cavaliere: se aveva paura come aveva detto di avere non si vedeva, dato che camminava tranquillamente sorridendo a tutti quelli che passavano.

Improvvisamente mi sembrò falso e costruito.

-Passiamo dal cortile.- Gli annunciai, riflettendo che probabilmente se aveva una facciata ben costruita per nascondersi  ce l’aveva per un motivo che non mi era dato sapere.

-Non vedo l’ora.- Rispose, vagamente ammicante.

Ci dirigemmo verso la porta che dava sul cortile della scuola e automaticamente mi irrigidii, stringendogli convulsamente il braccio.

-Nervosa?-  Mi chiese.

-Ho dei compagni di classe piuttosto chiacchieroni.- Deglutii cercando di essere il più silenziosa possibile.

-E perché dovrebbero chiacchierare?- Chiese, stringendomi di più il braccio e avvicinandomi a lui.

-Perché siamo a braccetto e…-

-E?-

Effettivamente non potevo continuare la frase: avrebbe significato ammettere che sembrava stessimo insieme, il che era anche stupido da pensare dato che di solito i fidanzati si tengono per mano.

Ammutolii, evitando accuratamente di rispondergli, al che lui puntò i piedi bloccandomi sul posto e sciogliendo la stretta dal mio braccio.

-Cosa…?- Stavo per chiedergli, ma lui mi interruppe. –Dammi la mano.- Disse, completamente serio.

Fu lì che iniziai a dubitare della sua natura umana e/o mentalmente sana.

-Dammi la mano.- Ripetè con più insistenza, porgendomela. La gente che passava ci guardava come se fossimo la scena ultima di un romanzo d’amore. Avrei voluto rifiutare, fuggire e sprofondare nelle viscere della terra per sempre, ma questo sarebbe risultato molto maleducato e avrei fatto anche una gran brutta figura. Titubante gli porsi la mia mano, che lui strinse avvolgendola completamente: in quella stretta possente mi sentii minuscola e fremetti quando lui sorrise soddisfatto.

-Perché?- Borbottai, guardandomi le scarpe, mentre scendevamo i pochi gradini che si affacciavano sul cortile. Sentii troppi, troppi occhi voltarsi dalla nostra parte e guardare con insistenza e senza un minimo di dignità: mi sentii privata della mia privacy e terribilmente nuda.

Più in là intravidi i miei compagni di classe che ci osservavano come tutti gli altri, e mi venne quasi un attacco di cuore.

Tra di loro c’era sicuramente…

Aaron rise forte e rapita, mi girai a guardarlo. Mi lanciò un’occhiata che pareva proprio malintenzionata e sorrise di sbieco: -Se devono chiacchierare lasciamoglielo fare su qualcosa di più che un’entrata con stile.-

E così dicendo mi baciò la guancia sinistra in modo così poco casto che avrei voluto censurare tutta la scena per poi dileguarmi nel nulla per il resto della mia vita.

Non ci potevo credere: uno sconosciuto di cui sapevo a malapena il nome mi si era presentato venti minuti prima, mi aveva fatto una semi dichiarazione e ora fingeva di essere il mio ragazzo davanti a tutta la scuola.

Arrossii, senza riuscire ad impedire che le mie viscere prendessero vita con la voglia di aggrovigliarsi.

-Questo è stato molto sleale da parte tua.- Riuscii a dire. Volevo suonare ironica o almeno autoironica ma era venuto fuori solo un nodino di suoni poco udibili.

-Non sai nemmeno quanto io possa essere baro e sleale.- Mi confessò, e il modo in cui lo disse mi turbò non poco.

-Ora penseranno di tutto.- Mi lamentai, tormentandomi la treccia con le dita della mano libera.

Si strinse nelle spalle: -Lasciaglielo pensare. In fondo come fanno a sapere che ci conosciamo solo da mezz’ora?-

-Da come ti comporti non ci crederebbe nessuno.- Lo rimbeccai, guardandolo storto.

-La cosa ti da fastidio?- Mi chiese con un sorrisetto che di angelico aveva ben poco.

-Hai presente quando prima mi hai detto che forse eri troppo espansivo? Avevi ragione.- Soffocò una risata e io gli lanciai uno sguardo di rimprovero.

-Magari è perché mi piaci.- Buttò lì improvvisamente con voce roca, e io mi proclamai ufficialmente colpita e affondata, anche se qualcosa in lui non mi convinceva. Non potei rispondergli per le rime, dato che quella era un’evidente provocazione, perché eravamo appena arrivati dall’altro lato del cortile dove i miei compagni di classe stavano chiaramente spettegolando.

Se in quel momento non fossi stata completamente assorbita dalle parole di Aaron, avrei sicuramente fotografato la scena: tutte le ragazze presenti  ci guardavano come se Gesù fosse appena apparso in groppa ad un Drago e le mie compagne di classe in particolare avevano la bocca così spalancata mentre guardavano le nostre mani intrecciate, che sembravano un dipinto surrealista. Provai una fitta piacevole all’altezza dello stomaco; probabilmente era la mia autostima che ballava la samba. I ragazzi presenti  mi osservavano come se si fossero accorti solo dopo cinque anni che sì, ero una ragazza e no, non facevo poi così schifo se uno come Aaron mi teneva per mano dispensando baci sexy alle nove del mattino.

Presi un bel respiro e senza guardare nessuno in particolare esclamai: -Buongiorno.-

La prima a reagire, ovviamente fu Bianca: scuotendo i suoi lunghi capelli scuri, fece tre passi avanti, mettendo in mostra il suo corpo atletico.

-Ciao Anna!- Esclamò come se fossimo amiche per la vita. Mi sorrise per mezzo secondo e poi si rivolse ad Aaron sbattendo le lunghe ciglia piene di rimmel.  –Ciao Aaron. Sono settimane che non ci vediamo.-

Secondo i miei gusti aveva calcato un po’ troppo sulla parola “settimane”, e il fatto che gli avesse messo una mano sulla spalla era terribilmente sospetto.

Si conoscevano. Bianca e Aaron si conoscevano. Mi sentii morire: da un momento all’altro mi avrebbe lasciato andare la mano, avrebbe baciato Bianca sulle guance e sarebbero andati a scopare allegramente nel bagno del secondo piano, tutti felici e contenti, amen.

-Ciao Bianca.- Sorrise lui in modo tirato, per niente felice di vederla. Sentendomi un po’ in colpa sghignazzai nel vedere la faccia di Bianca scurirsi e arricciarsi per il disappunto.

Mi lasciò veramente andare la mano, ma solo per aggiungere un –Devo andare in bagno.-

Dentro di me sospirai. – A sinistra in fondo al corridoio.-

Lo osservai mentre saliva i gradini con un ghigno in faccia e un espressione che aveva tutta l’aria di essere un augurio; della serie Buona fortuna, Anna, risolvi come più ti aggrada il casino in cui io ti ho messo.

Nel momento stesso in cui sparì dalla visuale fui letteralmente assalita dalle mie compagne di classe, che iniziarono a farmi domande su domande.

-Oh. Mio. Dio. Anna, chi è quello?-

Bianca alzò gli occhi al cielo: -Dio, quanto sei stupida Monica, quello è Aaron Aderick. Come puoi non conoscerlo?.-

-La domanda è come fai a conoscerlo tu!- Esclamò Teresa rivolta a me.

-Non puoi conoscerlo davvero. Come vi siete incontrati?- Chiese istericamente Monica.

-Vi siete almeno fatti?- Chiese acidamente Bianca.

-Ma state insieme?- Mi chiese Lucia e a quella domanda tutte trattennero il fiato.

Sentii dei ragazzi ridacchiare alle nostre spalle, ma cercai di ignorarli, sperando che tra di loro non ci fosse…

-Certo che no,- Esclamai, stringendomi la borsa sulla spalla destra. –siamo solamente amici.- Dissi, cercando di sembrare sicura di me e sperando di nascondere la mia bugia, visto che era già tanto considerarci conoscenti.

Sorrisero tutte maliziosamente. –Come no.- Annuì Teresa . –Si vede che siete solo amici.-

Grazie a Dio suonò la campanella e mi apprestai a seguire le mie compagne in classe. Nel corridoio incontrai le mie migliori amiche, che erano nel corso C e che conoscevo ormai da una vita.

Mi guardarono perplesse: probabilmente a causa della mia espressione da coniglio ferito.

-Tutto bene, Anna?- Mi chiese Isa, prendendomi per una spalla. –Sembri strana.- Aggiunse Cecilia.

-Vi racconto più tardi. E tanto per la cronaca faticherete a crederci.- Dissi mogiamente superandole. Ludovica mi guardò con espressione visibilmente curiosa. “Dopo dopo” le mimai con le labbra, entrando in classe a testa bassa.

È inutile specificare che non lo vidi, nonostante la sua statura e la sua… massa: sbattei contro una figura muscolosa, fasciata da jeans di marca e una giacca di pelle molto costosa. Sorrisi amaramente; in una giornata surreale come quella ci mancava solo di dover affrontare il mio ex ragazzo.

Edoardo era stato il mio primo amore: eravamo stati insieme per due lunghi anni, ma poi mi aveva lasciata. Avevo sofferto come un cane, finchè poi non avevo scoperto che quel doppiogiochista mi tradiva con una delle mie migliori amiche, Caterina. La cosa peggiore era averli entrambi in classe; erano uno spettacolo insopportabile e squallido da vedere: fingevano di essere amici quando era palese e noto a tutti che c’era di più. Di recente poi Edo aveva deciso che doveva assolutamente rientrare nelle mie grazie.

In tutti i sensi.

-Scusa.- Mi affrettai a dire, lanciandogli un’occhiata seccata, dato che mi aveva afferrato per i fianchi per non farmi cadere. In quelle due settimane di vacanza gli erano cresciuti i capelli, che adesso gli ricadevano sugli occhi chiari in maniera (quanto era difficile ammetterlo), estremamente seducente.

-Di niente.- Soffiò di rimando, lasciandomi andare con molta lentezza e donandomi uno dei suoi sorrisi irritantemente belli.

Ignorarlo era difficile, anche se ormai era passato un anno dalla grande delusione, perché avendogli dato tutta me stessa  a volte mi veniva ancora automatico salutarlo con un bacio e sussurrargli certe cose nell’orecchio a educazione fisica.

A testa alta percorsi la distanza dalla porta all’ultima fila, dov’erano già sedute le due ragazze più simpatiche della classe, mie compagne di banco.

-Ciao.- Le salutai, appoggiando la borsa sul banco e sfilandomi il cappotto.

Mi guardarono come se avessero appena scoperto che avevo girato un porno.

 Alzai gli occhi al cielo accasciandomi sulla sedia con un tonfo. –Non vi ci mettete anche voi.- Mi lamentai.

-Andiamo, racconta!- Mi spronò Eleonora, sistemandosi la frangia e rivolgendosi completamente a me.

-Non c’è niente da raccontare, ragazze. Sul serio! Ci siamo conosciuti e siamo diventati amici.-

-Pff, non ci crede nessuno.- Disse Serena.

-Bacia bene, vero?- Chiese con un trillo Eleonora.

-Ma che ne so! Ragazze non stiamo insieme! Mettetevelo in testa. Possiamo cambiare argomento? Da quando sono arrivata mi sembra di essere perennemente ad una simulazione della Maturità.-

Ridacchiammo.

-Ma è veramente così figo come nelle foto?.-

Ripensai al suo viso, e al modo in cui mi aveva baciata sulla guancia.

-Il più figo dei fighi.- Confessai, con un sorriso a trentadue denti.

In quel momento entrò la prof. di inglese e ancora prima di sedersi alla cattedra annunciò: -Oggi interrogo.-

Dalle file di banchi si alzò un lamento generale.

-Ma perché ‘sta stronza non spiega mai?- Sibilò tra sé Serena, tirando fuori il quaderno con gli appunti di letteratura.

-Persino il primo giorno dopo le vacanze deve interrogare. Ma guarda questa!- Ringhiò tra i denti Eleonora, riguardando velocemente i contenuti generali della vita di Blake.

Io invece pensavo ad altro, anche perché ero già stata interrogata prima delle vacanze: dov’era finito Aaron?

Per tutta risposta la maniglia della porta si abbassò e lui apparve come una visione. La prof. alzò gli occhi dal registro e lo guardò dall’alto in basso, con una smorfia infastidita: non aveva bussato, sbaglio assoluto.

-Sì?- Chiese scorbuticamente, osservando lo skateboard che teneva in mano come se fosse un sacchetto pieno di scarafaggi.

-Buongiorno, sono uno studente nuovo. Vengo dal Beccaria.-

Un brusio tutto femminile si sparse per la classe e parecchie paia di occhi si voltarono verso di me.

Mi rannicchiai sul banco fingendo di scrivere qualcosa non appena Edo si voltò di scatto verso di me, dopo che Giacomo gli aveva bisbigliato nell’orecchio.

-Zitti.- Esclamò la prof. rivolgendosi a noi. –Ti sembra questa l’ora di arrivare? Sono le nove e dieci.- Lo sgridò aspramente.

-Mi dispiace.-

-Ce l’hai il Nulla Osta?-

-Sì.- Aprì lo zaino e si mise a rovistare tra quello che sembrava un ammasso di scartoffie e ciarpame. Dopo aver spazientito per bene la prof, tirò fuori un documento un po’ stropicciato e lo porse all’odiosa donna, la quale lo lesse velocemente  e glielo riconsegnò.

Sbuffando sonoramente, la prof. scrisse  qualcosa di molto lungo sul registro e poi scrutò l’intera classe in modo pensieroso.

-È davvero figo. – Mi sussurrò Eleonora all’orecchio. Vidi Serena sistemarsi la scollatura e ridacchiai, ricordandomi di fare lo stesso.

Aaron non mi rivolse nemmeno uno sguardo, anche se non era difficile vedermi con la mia treccia rossa in mezzo a tutte quelle capigliature castane o bionde, il che mi deluse un po’, ma non lo diedi assolutamente a vedere.

-Bene Signor Aderick, prenda pure questo banco accanto alla cattedra e lo attacchi alla prima fila. Sono sicura che si troverà bene accanto al Signor Versari.-

Ne dubitai fortemente, osservando Aaron sollevare senza il minimo sforzo il banco e avvicinarlo a quello di un Edoardo visibilmente scocciato.

Aaron gli porse la mano e con mia grande sorpresa Edo gliela strinse. Iniziarono a parlottare sottovoce , mentre la prof. iniziava a chiamare gli interrogati alla lavagna.

Passai le due ore successive a tormentarmi su quello che avrebbero potuto dirsi vicendevolmente; mi sentivo impotente e anche molto stupida, ma forse anche un po’… contesa?

Finii di rollarmi la sigaretta sotto il banco proprio quando suonò la campanella dell’intervallo e decisi che era il caso di sottoporre l’intero caso alle mie sagge amiche: quella giornata, e se fosse andata avanti così anche la mia vita, aveva preso una piega molto strana, troppo stile telefilm d’amore tra teenagers americani.

Tanto per cambiare, mentre mi infilavo il cappotto e mi dirigevo verso la porta, mi sentii afferrare per un braccio. –Mi aspetti?- Mi chiese Aaron, guardandomi dritto negli occhi come se fosse stato pronto ad ipnotizzarmi, se necessario. –C-certo.- Balbettai, abbottonandomi fino alla gola.

-Sai, Edo mi stava offrendo una sigaretta.- Disse, avvicinandosi al mio ex, che gli passò il tabacco, le cartine e i filtri con un certo disprezzo.

-Strano, lui non le offre mai.- Commentai sprezzante.

-Sbagli, Anna: io non le offro a te.- Rispose senza guardarmi, e sorridendo con il filtro tra le labbra.

-Che simpaticone.- Lo rimbeccai.

-Vi conoscete da molto?- Chiese Aaron con tono innocente, mentre tirava su.

-Ormai sono quasi sette anni.-

Lo osservai mentre lo diceva e una dolorosa fitta al cuore accompagnò il ricordo del nostro ultimo, appassionato bacio.

-E voi invece?- Mi chiese Edo con uno sguardo di sfida.

-Voi cosa?- Chiesi bruscamente.

-Da quanto vi conoscete?-

Io e Aaron ci guardammo e ci scappò inaspettatamente da ridere.

-A dire il vero da poco..- Iniziai io. -…ma è come se ci conoscessimo da sempre.- Concluse Aaron.

Edo non sembrò molto contento di quella risposta, visto che strinse le mani a tal punto che le nocche gli divennero bianche. Io arrossii. –Andiamo.-  Dissi rivolta ad Aaron, e afferrandolo per la giacca lo trascinai fuori in cortile.

-Non dovevi dire quelle cose.- Dissi, appena fummo fuori. Una ventata di freddo mi fece rabbrividire.

-Quello è il tuo ex?- Chiese, ignorandomi.

-La tua domanda ha un non so che di sadico.- Lo rimproverai.

Si accese la sigaretta con un sorrisetto e mi passò l’accendino.

-Abbiamo chiacchierato, ma non credo di stargli simpatico.-  Constatò con un ghigno, e sembrava effettivamente compiaciuto di quella faccenda.

-Avete parlato di me?.- Chiesi, sperando in una risposta negativa.

-Certo che si.- Rispose tranquillamente. –La cosa ti turba?-

Ci pensai su. –A dire il vero si.-

Si strinse nelle spalle: -Non vedo il perché.-

Abbassai lo sguardo: aveva ragione. Con Edo non avevo più niente a che fare di mia spontanea volontà e Aaron era un perfetto sconosciuto. Completamente fuori, tra l’altro.

-Non dovevi dire quelle cose.- Ripetei, guardandolo negli occhi.

-E per quale motivo, di grazia?- Mi chiese, aspirando.

-Le cose sono… complicate.- La mia voce si affievolì in un sussurro.

Calò il silenzio per qualche secondo.

-Ti piace ancora, non è vero?- Chiese, e mi sorprese sentirlo irritato e infastidito.

-Assolutamente no.- Dissi con fermezza, anche se non era proprio tutta la verità. Vidi passare Caterina e ne ebbi la conferma: ci tenevo ancora a lui, e lo capivo dalla rabbia che mi assaliva non appena vedevo lei passare a meno di tre metri di distanza da me.

Improvvisamente ritrovai Aaron a pochi centimetri di distanza dal mio viso:

-Il fatto che io mi stia prendendo un’abbondante porzione di confidenza con te non ti deve spaventare. È solo che, al contrario di ogni mia aspettativa e di ogni logica, mi interessi.- Mi disse, con voce molto bassa.

Deglutii in modo vergognoso, senza curarmene troppo: di nuovo, tutti ci guardavano.

-Il fatto è che questo non ti da il permesso di comportarti in modo arrogante.- Dissi con un tono sorprendentemente fermo.

-Arrogante?- Mi chiese lentamente, lanciando il mozzicone lontano da noi e concentrandosi molto nel farmi cedere le gambe con un suo sguardo seducente.

-S-si.- Balbettai. –Arrogante. E lunatico. E anche un po’fuori di testa, se posso dirla tutta.-

Mi guardò come se avesse appena trovato la combinazione per una cassaforte che aveva in mano da millenni.

Poi si allontanò un po’ da me e si mise una mano tra i capelli, ridendo stancamente.

-Mi sto comportando da matto.- Sussurrò rivolto a me, e io annuii, un po’ dispiaciuta.

Poi alzò lo sguardo e fissò un punto oltre la mia testa. Sorrise in modo palesemente falso e agitò la mano in segno di saluto. Mi voltai e vidi che un ragazzo molto alto ci stava venendo incontro.

-Scusa, ho appena visto un mio amico. Ci vediamo dopo.- Mi comunicò, telegrafico, oltrepassandomi.

Mi lasciò sola come un’allocca in mezzo al cortile, con in mano ciò che rimaneva della mia sigaretta e in testa una confusione tale che per un attimo mi sentii male. Intravidi una compagna di classe di Ludovica, Cecilia e Isa: -Ciao Cami, la Ludo e le altre?- Le chiesi, mentre passava frettolosamente di lì.

-Stanno finendo la versione!- Mi gridò, mentre iniziava a correre per andare chissà dove.

Non potevo nemmeno raccontare alle mie amiche tutta quell’assurda storia.

Avevo un bisogno disperato di caffeina.

 

Alle macchinette c’era come al solito una fila infinita, perché per avere un caffè ci volevano minimo tre minuti abbondanti; in un giorno qualunque avrei rinunciato, limitandomi a scroccare sorsi di qua e di là, ma quella giornata surreale mi aveva buttato addosso una stanchezza che non provavo da quella sera in cui io e Ludo avevamo bevuto un intero barile di birra, quindi se volevo sopravvivere fino all’una il caffè era necessario.

Mi misi in coda, guardandomi intorno per cercare qualche volto conosciuto: stare alle macchinette da sola era una di quelle tante situazioni che mi facevano sentire a disagio, soprattutto se intorno a me la gente era a gruppetti di tre o di quattro.

Sospirai, cercando nelle tasche dei jeans delle monetine e ripensai a quello che era successo in sole tre ore quel giorno.

Più ci riflettevo, più mi rendevo conto che Aaron era veramente una persona strana e che probabilmente si era fatto un’ idea sbagliata su di me, anche se non riuscivo a capire bene come: io non ero certo una che ispirava sesso da una botta e via, ma tutti i suoi comportamenti e le sue parole avevano fatto intendere che ci stesse provando e che ritenesse la  situazione facile da risolvere. Visto che a malapena sapevo scrivere il suo nome, era allucinante che alla luce del sole un ragazzo potesse essere così sfacciato e così manipolatore.

Come avevo potuto accettare che mi prendesse per mano e mi baciasse in quel modo di fronte a tutti? Mi arrabbiai con me stessa, decidendo che non mi sarei più fatta raggirare in quel modo: Aaron doveva capire bene che non ero una di quelle bamboline stupide con le quali probabilmente girava lui.

Dietro di me si erano appostate due ragazzine di quarta ginnasio particolarmente oche, che non facevano altro se non ridere a crepapelle per qualcosa che una delle due aveva detto.

Qualcosa a proposito di un pene.

Alzai gli occhi al cielo, e così facendo notai che Edo era comparso come d’incanto di fianco a me.

Ma che strano, proprio quando ero finalmente la prima della fila alle macchinette.

-Da quando è legale far girare le oche giulive senza il guinzaglio?- Commentai, inserendo le monetine nello spazio apposito e pigiando il tasto del caffè macchiato.

Quando avevo scoperto di lui e di Caterina, mi ero ripromessa di non rivolgergli mai più la parola, ma quando a Settembre lo avevo rivisto dopo tre mesi di vacanza, abbronzato e sorridente, mi ero resa conto che era impossibile, e avevo accantonato le mie promesse nel dimenticatoio, limitandomi alla formale educazione e alle frasi di circostanza.

Quel commento, certo, non faceva parte del nostro classico repertorio, ma ormai quel giorno nulla sembrava andare per il verso giusto, e infatti lui sembrò cogliere la palla al balzo.

-Ma fino all’anno scorso non lo eri anche tu? Accidenti, non riesco proprio a stare al passo ci tempi.- Sghignazzò, appoggiandosi alla macchinetta.

-Forse non riesci a stare al passo coi miei tempi.- Argomentai, irritata, alzando un sopracciglio.

-Sarà perché tu vai a spasso con qualcun altro.- Mi rispose, strafottente.

La macchinetta emise un bip elettronico, avvertendomi che la bevanda era pronta.

Mi chinai per afferrare il mio caffè e lo guardai apertamente, con tutta la neutralità possibile.

-Vaffanculo.- Lo salutai, girando sui tacchi e tornando in cortile.

Come osava fare il geloso con me dopo quello che mi aveva fatto! Era ridicolo e anche abbastanza stupido.

Trattenni un grido di rabbia, strafogandomi di caffè e scendendo i gradini.

-Anna.- Mi sentii chiamare.

Riconobbi la voce di Edo, lo ignorai e accelerai il passo.

Mi superò più veloce del vento e mi sbarrò la strada. Per un attimo mi ero dimenticata che faceva rugby.

Da come mi guardava si capiva perfettamente che era sfacciatamente convinto che io fossi ancora innamorata di lui.

Ebbi all’improvviso la voglia di tirargli un ceffone, oppure che ne so, l’intero bicchierino di caffè bollente nelle mutande.

-Cosa c’è?- Gli chiesi con un sbuffo.

-Aaron è uno stronzo patentato..- Iniziò a dire. Ricominciai a camminare. –Strano,- Dissi. –perché l’unico stronzo che vedo qui intorno sei tu.-

Invece di vederlo andare via incazzato nero me lo ritrovai di nuovo di fronte, a sbarrarmi la strada.

-Anna, non scherzo. Mi ha detto chiaramente che..-

-Edo, a me non potrebbe interessare di meno quello che vi siete detti tu e Aaron, d’accordo?-  Mentii spudoratamente, tormentandomi la treccia per il nervosismo. –Tu non hai il diritto di venirmi a dire chi devo vedere e chi devo evitare. E soprattutto non hai il diritto di dare dello stronzo ad Aaron, quando il vero re degli stronzi sei tu! Mi dispiace, ma non ho la memoria a breve termine. Le cose me le ricordo ancora, e anche molto bene.-  Sibilai, sentendo il mio cuore battere forte e l’adrenalina salire.

Edoardo mi guardò con quella che stupidamente interpretai come sofferenza  e dopo un momento di silenzio mi sfiorò la mano.

-Mi manchi…- Sussurrò.

Avevo ricucito troppo malamente la ferita che mi aveva fatto dentro: sentii i punti saltare e la ferita riaprirsi, insieme al fiume di lacrime che speravo di aver arginato. Trattenni tutto dentro di me, limitandomi ad allontanare la mia mano dalla sua e cercando, e forse trovando, l’odio che per un attimo era stato sepolto sotto la nostalgia.

Mi mancava da morire, e lo trovavo bellissimo e simpaticissimo. A volte mi trovavo a desiderarlo nei momenti più impensabili: al cinema, durante le cene di famiglia, nel mio letto la notte…

Avrei voluto dirgli tante cose, ma effettivamente non avevo dimenticato e il tradimento bruciava come se fossi stata marchiata a fuoco di fresco.

Abbassai gli occhi: -Non è proprio il momento, Edo.- Borbottai con voce spezzata.

-Mi stai dicendo che ci dev’essere un momento particolare per dirti che sono veramente uno stronzo, che sono pentito da morire e che ti amo ancora?-

Trattenni il respiro per un secondo e molto, molto lentamente alzai lo sguardo, furente.

Mi avvicinai a lui, odiandolo, perché non potevo credere che potesse essere così bugiardo.

Non riuscii a trattenere un singhiozzo.

-Come osi dire che mi ami quando sanno tutti che vi scopate ancora adesso?- Lo sorpassai.

-Anna..-

Mi girai a guardarlo. Aveva gli occhi azzurri spalancati e la bocca semiaperta in un sospiro di sorpresa e.. confusione?

Come aveva potuto tradirmi…

 –Non osare seguirmi.- Sibilai.

Corsi in bagno, riuscendo a chiedere al cielo soltanto perché.

 

 

 

  
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