Credeva
di non dover più vedere quell'ufficio.
Credeva che quella sedia nera in pelle e quella poltroncina scomoda e
sbiadita
non l'avrebbero più perseguitato.
Credeva che la voce cadenzata e a tratti irritante della Morrell la
avrebbe
ascoltata distrattamente per i corridoi.
Credeva tante cose, ma la realtà era ben diversa.
Si fissavano da interminabili minuti ormai. I fiochi raggi solari, che
entravano dalle finestre malconce, avevano fatto in tempo a
riscaldargli appena
la pelle del viso. Strinse di poco la presa sui lacci bianco
sporco della
mazza da lacrosse e abbassò appena lo sguardo su le mani
nervose. Era lì per un
motivo, lo sapevano entrambi, in fondo il ritrovamento del cadavere di
Matt non
aveva portato altro che guai, o meglio Matt non aveva fatto altro che
portare
guai. All'interno di quel gruppo già male assortito che
veniva chiamato branco
non si riusciva più a distinguere una persona sana, neppure
lui, che decantava
tanto l'amore per la normalità e il non volere il morso da
nessuno, in quel
momento avrebbe voluto qualche super potere per mettersi al riparo
dallo
sguardo della donna dinanzi a lui. Le parole fuoriuscirono senza che se
ne
rendesse nemmeno conto, mentre la presa su quei lacci, che sembravano
la sua
salvezza, aumentava di poco "Sa che quando affoghi non inali realmente
fin
quando non svieni? è chiamata apnea volontaria. Non importa
quanto tu sia
spaventato l'istinto di non far entrare l'acqua è
così forte che non apri la
bocca fin quando non senti che la testa ti sta esplodendo. Poi quando
espiri
smette di far male. Non hai più paura, è una
sorta di pace in realtà".
Quel discorso enorme, la finta di star davvero parlando del modo in cui
Matt
era morto, tutto pur di distogliere l'attenzione dal vero problema.
Erano
tornati, erano tornati più forti e subdoli di prima; in
realtà aveva la
sensazione di essere un cucciolo di foca che viene braccato dai
cacciatori che
ne vogliono la pelliccia. Era dalla sera del compleanno di Lydia, da
quando in
quella specie di visione suo padre l'aveva accusato della morte di sua
madre
che c'era qualcosa che non andava. Perché il problema, il
vero problema era che
stava inesorabilmente affogando e non c'erano vie di fuga da quello che
sarebbe
successo di lì a pochi istanti. Portò i lacci
della mazza alla bocca cercando
un contatto con la realtà che lo circondava, qualcosa,
qualsiasi cosa, che lo
trattenesse dal socchiudere gli occhi e cominciare a vedere tutto
offuscato,
dal perdere le forze, la vitalità, la loquacità,
la vita stessa che gli faceva
brillare gli occhi di una luce che solo lui aveva. Stava lì,
davanti a quella
donna che fece la domanda sbagliata un istante prima che sprofondasse
nell'oblio
del nulla assoluto. "Ma perché non torniamo a parlare di
te?", perché
forse sto cercando tutte le scuse possibili per evitare di farlo?
pensò
distrattamente il ragazzo avvertendo, però, un brivido lungo
la schiena; segno
che la crisi era superata, per il momento. "Sto bene" rispose
guardandola negli occhi "Si, sto bene, a parte che non dormo, che salto
per ogni cosa e che ho sempre questa costante, irrefrenabile e
schiacciante
paura che qualcosa di terribile stia per accadere" "Ѐ chiamata
ipervigilanza..." la voce arrivava sfocata, a lui non importava come
venisse chiamata sapeva solo che faceva male e che lo stava
distruggendo
mentalmente, lo comprometteva emotivamente, come se non avesse
già il suo bel
da fare ad essere costantemente ignorato da
Lydia. “…la sensazione di
essere costantemente in pericolo” “Ma non
è solo una sensazione, è...” non
aveva voglia di concludere quella frase, non aveva la forza per farlo
ma lo
sguardo penetrante della donna lo spronò a continuare dopo
un attimo di
esitazione “è come un attacco di panico. Come se
non riuscissi nemmeno a
respirare” conosceva la sensazione a menadito, si ricordava,
per quel che
poteva, quando da piccolo si ritrovava in mezzo alla strada sulla bici
a tenersi
il petto, a sperare che quei dannati polmoni riprendessero a fare il
loro
lavoro. Ricordava le voci, quelle voci ovattate, offuscate come fossero
immagini. Ricordava i visi informi, incolore delle persone, che
preoccupate si
avvicinavano senza fare realmente niente per aiutarlo. Ma
più di tutto si
ricordava la velocità, la velocità con cui le
cose si muovevano attorno a lui,
la velocità con cui l’aria tornava traditrice e
gli occhi lucidi riuscivano di
nuovo a distinguere le forme del mondo. “Come se stessi
affogando?” “Si”
conciso, senza sbavature, senza emozioni, freddo, glaciale insomma.
“ Cosa
accadrebbe se scegliessi di non aprire la bocca, se tu stessi affogando
e
provassi a tenere le labbra serrate fino all’ultimo momento,
cosa accadrebbe?”.
La guardò stranito, forse non aveva ben capito il concetto
di involontaria “Beh,
si fa comunque. È un riflesso”, la Morrell sorrise
appena “Ma se tieni duro
fino a quando il riflesso non si manifesta, avresti più
tempo no?”. Non aveva
idea di dove volesse andare a parare così, alzando un
sopracciglio, rispose
confusamente “Non molto tempo” “Ma
più tempo” continuò ad insistere lei
“più
tempo per combattere per risalire in superficie?”
“Credo di si” Stiles sbatté
appena le lunghe ciglia tornando con lo sguardo fisso su di lei,
“Più tempo per
essere salvato?”. La voce si fece dura, lo sguardo
imperscrutabile “Più tempo
per stare in agonia. E si è forse dimenticata della parte in
cui senti la testa
esplodere?”. La professoressa appoggiò mollemente
le mani sulla cattedra
continuando a guardare il ragazzo negli occhi “Se
è per sopravvivere non vale
la pena soffrire un po’?”. A quel punto entrambi
sapevano che quella
conversazione stava per concludersi, erano alle battute finali e chi
avesse
avuto l’ultima parola l’avrebbe spuntata in quella
battaglia platonica. “E se
peggiorasse e basta? E se è sofferenza adesso e
poi…” di nuovo quel senso di
inadeguatezza, di nuovo gli occhi lucidi e la pelle umida. Di nuovo la
paura di
quello che sarebbe successo se avesse davvero concluso quella frase, ma
come
era successo prima lo sguardo della donna lo invitò ad
andare avanti e così lui
fece “poi inferno dopo?”. Era finito, aveva vinto o
almeno così credeva fin
quando la professoressa non schiuse le labbra per la battuta finale,
per quella
frase unica che avrebbe dato un senso a tutto quello che stava facendo
nella
sua vita in quel periodo “Allora pensa a quello che disse una
volta Winston
Churchill: ‘Se stai attraversando l’inferno,
continua a camminare’”. Il fiato
gli si bloccò in gola per un istante, un istante a
sufficienza per far
sorridere la donna e per far quasi cadere a terra la mazza da
lacrosse.
Stava
affogando nell’inferno e non sapeva se alla fine gli sarebbe
mancata l’aria
oppure si sarebbe bruciato.