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Autore: Medea00    17/12/2012    13 recensioni
Blaine è un pianista, Sebastian un violinista, entrambi studenti al conservatorio Franz Liszt di New York. Si ritrovano costretti a suonare insieme per un concorso importantissimo che, lo sanno bene, se vinto determinerà la loro carriera.
Ma chi lo dice che non determinerà anche qualcos'altro tra loro due?
Tratto dal capitolo 9:
"Per questo Liszt ammirava molto Chopin. Per questo Liszt era l'unico in grado di suonare i brani di Chopin, come diceva lui stesso. Si capivano. Forse erano gli unici in grado di farlo.”
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 23

 


 

"Nessuno può essere paragonato a lui. Risplende unico e solitario nei paradisi dell'arte."
--Liszt su Chopin, in una lettera alla principessa Wittgenstein







Sebastian era l’ultimo di quattro fratelli.
Suo padre, George Smythe, era un grande imprenditore nel ramo bio-medico, possessore di case farmaceutiche e azionista di ospedali. La sua ricchezza era tale da spianare facilmente la strada ai figli, che diventarono persone importanti: medici, capi reparto, ricercatori. Erano la punta di diamante della famiglia. Odiati e lodati da tutto il resto del mondo, per il loro intelletto fine e una bellezza invidiabile.
Nelle poche volte in cui tutta la famiglia si riuniva, una buona parte del tempo veniva spesa in favore del quartetto Smythe, di cui se ne vantavano le lodi con la speranza di riuscire a ottenere qualche favore dai genitori; negli ultimi anni, però, le cose erano cambiate.
Sebastian non era più il giovane violinista con il sogno di inseguire le orme di sua madre: era diventato un ragazzo svogliato, disattento, sempre meno partecipe alle riunioni e, soprattutto, mancante di quel tatto e garbo che lo aveva contraddistinto da quando era nato. Aveva perso la voglia di fingersi interessato al resto della sua famiglia, dal momento che loro non si erano mai interessati a lui; non era un dottore, non era un ragazzo prodigio e, quindi, se ne stava in disparte a contemplare il quadro che i suoi genitori gli avevano scelto. Il suo compito era soltanto quello di tracciare le linee, riempire gli spazi vuoti, ma senza mai uscire dai bordi.
Ultimamente, però, era diventato un pittore molto distratto.
“A che stai pensando?”
La voce calda e rassicurante di Blaine, come tante altre volte, lo fece trasalire. Si voltò appena per scorgere un paio di occhi chiari che lo studiavano con discrezione, mentre le labbra leggermente incurvate all’insù tentavano di infondergli una briciola di coraggio. Erano seduti a quella caffetteria da più di mezz’ora, dovevano incontrarsi con Eliane Deneuve, come stabilito al concerto la sera prima; eppure, più la lancetta dei minuti scorreva inesorabile, e più il caffè diventava freddo, ospitando un posto vuoto.
“Niente”, mentì lui, perchè non voleva ancora dar voce ai suoi pensieri troppo complicati. Però, alla fine, non riuscì a trattenersi e aggiunse: “Se non arriva entro cinque minuti ce ne andiamo.”
“Avrà trovato traffico”, sussurrò lui, “Non biasimarla.”
E Sebastian per un momento pensò che sarebbe scoppiato a ridere, perchè lo sapeva. Ci avrebbe scommesso.
“Blaine, non hai la più pallida idea di che tipo sia mia madre.”
“E’ tua madre?” Tentò di indovinare lui, un po’ confuso. “Sarà venuta per augurarci in bocca al lupo per il concorso e passare un po’ di tempo con suo figlio... magari potremmo farle vedere il conservatorio, presentarla al professore e-“
Ma la risata nervosa di Sebastian lo fece ammutolire. Non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire essere figlio di Eliane Deneuve.
“Magari tua madre sarebbe così.” Cercò di non sembrare più teso di quanto fosse in realtà: “Magari se ci fosse lei potremmo passare una giornata rilassante per le vie di New York, con una passeggiata a Central Park mentre racconta tutti gli aneddoti imbarazzanti su te e i tuoi fratelli.”
“Ne ho solo uno”, sussurrò sempre più cauto Blaine, riuscendo a intuire il fulcro del suo discorso.
“E’ la stessa cosa. Quello che voglio dirti, è che con me sarebbe un po’ difficile farlo, dal momento che ho passato l’infanzia in compagnia dei miei fratelli e delle tate, mentre la grande violinista era in giro per l’Europa a fare concerti.”
Ma quel dialogo passò in secondo piano, quando la porta-vetri del piccolo locale si aprì introducendo una signora vestita con un tailleur chiaro e i capelli perfettamente raccolti. L’età le era scivolata addosso come pioggia, ma si riuscivano a scorgere i segni di chirurgia estetica e tintura di capelli.
Si sedette senza dire una parola, i suoi occhi freddi vagarono lungo il menù mentre una giovane ragazzina con le lentiggini chiedeva se desiderasse qualcosa. Sebastian riuscì a scorgere per un attimo la sua smorfia di disappunto, e poi, la vide richiudere il foglio plastificato.
“Un tè, grazie. E porti via questa miscela da camionisti.”
Blaine impallidì un poco, a quella frase. La ragazza balbettò qualcosa, intimidita, e portò via il caffè freddo e scuro.
“Potevi anche fingerti gentile.”
“Queste ragazzine vengono a New York con grandi sogni e con il vizio di poterli esaudire”, commentò incolore. “Sto solo facendo capire loro che non diventeranno mai delle stelle e passeranno la vita esattamente in questo modo, con un bar e gente più importante a darle ordini.”
Fu solo in quel momento che, evidentemente, si accorse della presenza di Blaine.
“Ah. Ci sei anche tu.”
“Suoniamo insieme”, specificò Sebastian, scandendo ogni sillaba con forza: “Mi sembrava giusto che venisse.”
“Sebastian, ti sei portato la scorta perchè hai paura di tua madre?” Sibilò con un impercettibile ghigno; dovette resistere all’impulso di alzarsi e andarsene via. Oppure, gettarle in faccia quel poco di caffè che le era rimasto, e poi alzarsi e andarsene via, trascinando Blaine con sè e facendogli dimenticare tutto quello. Non avrebbe mai voluto che assistesse a una scena del genere; non avrebbe mai voluto che vedesse il modo con cui era cresciuto.
“Io... forse sono di troppo”, lo sentì bisbigliare, con le guance arrossate e gli occhi diretti verso il pavimento. “Posso-dovrei lasciarvi soli...”
“Dovresti”, rimarcò la madre. Ma Sebastian lo prese per una mano costringendolo a restare seduto.
“Lui non va da nessuna parte. Se hai qualcosa da dire riguardo al concorso, allora parla. Altrimenti possiamo andarcene entrambi.”
La madre restò in silenzio per lungo tempo; chissà, forse, non si aspettava da uno Smythe così tanta schiettezza, che rasentava la maleducazione. Ma, d’altronde, era pur sempre suo figlio.
“Molto bene.” Si sistemò meglio sulla sedia, costringendo Blaine a fare altrettanto mentre, inconsciamente, lanciò un’occhiata perplessa a Sebastian che ricambiò in modo deciso. Voleva dirgli di stare calmo; voleva dirgli che, nonostante fosse una persona famosa e brava nel suo lavoro, il suo giudizio non contasse niente.
Ma sapevano entrambi che non fosse così.
“Dovrete lasciare il concorso.”
E se Blaine spalancò gli occhi, preso completamente alla sprovvista e trattenendo il fiato, Sebastian restò del tutto impassibile a quella frase, perchè aveva intuito che fosse venuta fino a New York per un motivo tanto futile. Era da lei.
“Fiato sprecato”, disse allora, “Il concorso si tiene tra qualche giorno e noi ci andremo.”
“Non lo farei.”
Era ancora più testarda di quanto ricordasse. Ma Blaine in quel momento prese la parola, interrompendo quel mini dialogo che si era formato e mormorando, con voce leggermente titubante: “Posso chiedere il motivo?”
“E’ molto semplice, ragazzo. Non vincerete mai”, lo fulminò lei, guadagnandosi il nervosismo di Sebastian: nemmeno si era scomodata a ricordarsi il suo nome.
“Con tutto il rispetto...” Blaine aveva alzato leggermente le spalle, ricambiando lo sguardo penetrante e rendendo il tono di voce un po’ più sicuro: “Non lo può sapere questo. Io e Sebastian ci siamo esercitati tanto e lei non ci ha mai sentito suonare.”
Parole gettate al vento, voleva dirgli Sebastian; apprezzava quello che stava facendo ma, allo stesso tempo, voleva soltanto che la piantasse e ignorasse tutto ciò che uscisse dalla bocca di quella donna. Quest’ultima, visibilmente infastidita dalla presunzione di quel ragazzino, aspettò pazientemente che la ragazza le consegnasse la tazza di tè e lo zucchero, per poi riparlare quando era certa che nessun altro potesse sentirli.
“Tutti uguali, voi pianisti.”
Blaine fece un’espressione accigliata: “Prego?”
“Avete l’illusione di sapere più cose degli altri.”
“Adesso smettila.”
Sebastian strinse la mano di Blaine quasi fino a farsi male.
“Potrai anche offendere me, ma non ti permetto di insultare Blaine. Noi suoneremo a quel concorso, che ti piaccia o no. Se sei venuta soltanto per farci cambiare idea puoi tornare a casa.”
Blaine si morse un labbro, resistendo all’impulso di far notare a Sebastian le sue nocche bianche o, peggio ancora, di dire qualcosa di inappropriato rivolto a sua madre. Ma quella situazione stava diventando sempre più tesa, e nemmeno nelle sue fantasie più terribili si era immaginato un incontro del genere; lei era Eliane Deneuve: si era immaginato una donna compita, elegante, dal sorriso facile e molto saggia. Una specie di Robert al femminile, con il vantaggio della fama e l’amore verso un figlio pieno di talento.
Non vedeva niente di tutto ciò nella donna che gli era seduta davanti.
“Io lo dico per voi. Voglio risparmiarvi una figuraccia.”
Figuraccia? Ma di che stava parlando?
“Potremmo anche non vincere”, si permise di dire Blaine, “Insomma, sappiamo benissimo che è molto difficile. Ma anche se fosse, questo concorso ci ha insegnato tante cose. Siamo migliorati molto.”
“Immagino”, sentenziò lei, “Ma a conti fatti sul curriculum vanno le vittorie, non le sconfitte. E mio figlio non è pronto.”
“Non lo può sapere.”
“Sono sua madre.”
“E io sono il suo ragazzo.”
Blaine ed Eliane si fissarono per una manciata di secondi, senza mai distogliere lo sguardo; forse lei si era immaginata una cosa simile, ma sentirla ad alta voce toglieva anche quell’inesistente margine di errore. Si tolse il fazzoletto dalle gambe, appoggiando il cucchiaino accanto al bicchiere.
“Sebastian, posso parlarti in privato?”
Oh. Ecco. Era il suo modo carino per lasciar intendere che Blaine dovesse togliersi dai piedi. Senza indugiare oltre, accartocciò un paio di dollari sul tavolo e fece per alzarsi, trattenuto soltanto dallo sguardo di Sebastian e dal modo con cui aveva chiamato il suo nome. Serio, freddo; eppure, con una punta celata di scuse, come se volesse dire ‘mi dispiace per tutto questo, ma non sei tu quello che deve andarsene’.
E gran parte della rabbia di Blaine svanì in quel secondo.
“Passi da me dopo?” Gli lasciò un bacio a fior di labbra, gustandosi quel retrogusto amaro del caffè di poco prima, beandosi della morbidezza delle sue labbra che si erano leggermente increspate in un sorriso.
“Come sempre.”
Le loro mani s’intrecciarono ancora una volta.
E poi, a malincuore, Blaine si allontanò dal tavolo, uscendo dal locale.
 
 
 
Quando Sebastian bussò era ormai notte fonda. Blaine stava quasi per crollare sul divano, con la tv praticamente priva di audio da quanto lo tenesse basso: aveva paura di perdersi il rumore del campanello, così, quasi sobbalzando, accorse ad aprire, riuscendo a scorgere il volto del suo ragazzo nascosto dalla sciarpa, i suoi occhi verdi, adesso, incredibilmente spenti.
“Ciao.”
Quella parola, anzi, quel tono di voce, bastò a spiegare tutto.
“Ne vuoi parlare?” Propose Blaine mentre lo trascinava delicatamente sul divano, facendolo sedere accanto a lui, non smettendo nemmeno per un secondo di lasciargli le mani e guardarlo preoccupato.
“No.”
Si era immaginato una reazione del genere, certo. Ma non la rendeva meno dolorosa; cercando un qualche gesto di conforto, gli passò un bicchiere d’acqua precedentemente preparato sul tavolino e, fortunatamente, non lo rifiutò.
“Sebastian, dovresti...”
“Sto bene.”
Senza neanche degnarlo di un’occhiata, si alzò e bevve tutto d’un sorso come se fosse alcool, camminando con passo lento e calibrato. Blaine lo seguì con lo sguardo per tutto il tempo: osservò come le sue mani tremassero leggermente, mentre si stringevano intorno al bicchiere di vetro; riuscì a scorgere un respiro particolarmente intenso attraverso l’ondeggiare del cappotto.
Non ce la faceva a vedere Sebastian così, e allora decise che avrebbe fatto qualcosa.
All’inizio aspettò. Attese che finisse di bere, che sistemasse il cappotto sull’attaccapanni, che restasse qualche secondo intento a contemplare il vuoto, come ricordandosi dei momenti avuti con sua madre.
Poi, semplicemente, chiamò di nuovo il suo nome, e gli fece cenno di venire a sedersi di nuovo. Con sua grande sorpresa, lo vide muoversi qualche secondo dopo, sempre con un’espressione assorta, concentrata a ricordare cose note soltanto a lui. Ma, nonostante tutto, era rimasto. Non aveva chiesto a Blaine di lasciarlo da solo; non aveva respinto la sua mano che lo cercò con impazienza.
“Parlami.” Fu come una supplica.
“Dì qualcosa, insultami, o-o insulta lei, se ti fa stare meglio. Ma ti prego Sebastian, ti prego.”
“Blaine, hai mai sbagliato un esercizio di solfeggio?”
Colto completamente alla sprovvista, spalancò gli occhi, esitando per tutto il tempo necessario a formulare: “Sì, certo che sì. Soprattutto quand’ero piccolo.”
“Ecco. Ipotizziamo allora che tu hai grosso modo cinque, sei anni, e che ti sei fissato di voler diventare un musicista.”
“Non è un’ipotesi.” L’espressione di Blaine si addolcì un poco: “Stai descrivendo la realtà. Ero veramente così.”
E forse Sebastian lo sapeva, a giudicare da come la sua mascella si serrò in una smorfia agrodolce, come malinconica.
“Volevo soltanto fare bella figura con mia madre.”
“Come?”
Blaine non riusciva a seguire il filo dei suoi pensieri, perchè Sebastian era troppo vago, troppo confusionario. Era come se, piuttosto che parlare a lui, stesse dicendo quelle cose a se stesso, in uno sfogo che, però, non sembrava affatto liberatorio.
“Ero un bambino. Sapevo ben poco di cosa volesse dire fare il musicista. Ma i miei fratelli si occupavano già dell’azienda di mio padre, e così, mia madre scelse per me la musica. Decise che avrei fatto il musicista.”
Blaine avrebbe voluto chiedergli tante cose. Ma si può scegliere di essere un musicista? Si può scegliere di amare un particolare genere musicale? E, soprattutto, cominciava a chiedersi quale razza di madre creava un futuro prestabilito per suo figlio, fatto a sua immagine e somiglianza. Se prima aveva pensato a lei come a una donna elegante, con un certo portamento ma probabilmente intelligente, beh, adesso altre idee si facevano largo tra le sue considerazioni.
“A cinque anni sapevo già suonare il pianoforte con entrambe le mani”, Continuò incolore Sebastian: “Il maestro di musica della mia scuola privata era fiero di me, mi vantava sempre davanti a tutti.”
“... E poi?” Lo incitò, dopo un silenzio particolarmente lungo. Stava iniziando a capire dove volesse arrivare a parare.
“E poi è arrivata lei. Era la giornata genitori figli, sai, una di quelle cose così, per far vedere quanto fossero tutti belli e bravi. E io volevo fare bella figura con lei. Mi ero esercitato per giorni. E ho fatto tutto benissimo, ma all’esercizio di solfeggio, invece di leggere un mi lessi un la.”
“Non mi sembra niente di traumatico”, mormorò Blaine, sentendosi quasi in colpa per quel commento, tanto da aggiungere con tono dolce: “Eri piccolo, Sebastian, questi errori capitano a tutti.”
“No Blaine.” Disse quelle parole come se volesse tagliare il suono che avevano prodotto.
“Io non posso sbagliare. Non posso. Sono il figlio della grande Eliane Deneuve, e sai cosa mi disse lei, quella volta? Disse che non dovevo essere un musicista. Dovevo essere il migliore. Migliore perfino di lei.”
E lui prendeva sempre molto seriamente il peso delle parole; era una caratteristica che aveva ereditato da lei.
“Va bene, è un po’ severa”, mormorò Blaine, “Ma non ha senso fare dei paragoni. Siete entrambi degli ottimi musicisti.”
"Tu non capisci."
E dal tono di voce, Sebastian apparve così tormentato, così fragile, che l'unica cosa che fece Blaine fu stringere la sua mano ancora di più, aspettando tutto il tempo necessario. Perchè aveva capito che doveva fare così con Sebastian, aspettare con calma che parlasse, senza forzarlo.
"Ogni volta che suono, lei è lì. E' lì con il suo violino e il suo talento di fama mondiale che mi dice dove sbaglio, dove faccio schifo, dove non potrei mai migliorare neanche con anni e anni di allenamento. E poi mi guarda e mi dice che è contenta che io non abbia il suo cognome perchè si vergognerebbe a passare per mia madre."
"Che cosa?" Non riuscì proprio a trattenersi. Sperò che Sebastian stesse solo esagerando; ma a giudicare dai suoi occhi arrossati che desideravano così tanto poter piangere, dedusse che non era così.
"Per questo sei così fissato con la tecnica?" Sussurrò Blaine. Il violino con cui si esercitavano ogni giorno era ancora lì, appoggiato accanto al pianoforte: lo aveva lasciato dalla volta scorsa consapevole che, prima o poi sarebbe dovuto tornare a riprenderlo per provare.
"Per questo sei sempre teso quando suoni, perchè pensi a lei?"
Sebastian non disse niente. E fu allora che Blaine lo baciò dolce, con passione.
"Ehi. Ehi, guardami.” Afferrò delicatamente il suo viso tra le mani, facendo combaciare le loro fronti: “Tu... non ti rendi conto del tuo talento."
"Disse quello con l'orecchio assoluto", sbuffò.
"No, stammi bene a sentire: il tuo, è qualcosa che ti sei guadagnato. Non è un dono piombato dal cielo, non è qualcosa che deriva da tua madre. L'hai costruito con le tue mani Sebastian, con impegno e con passione. Riesci a fare dei veri e propri miracoli con quel violino, cose che dei musicisti per farle ci mettono anni."
"Non è niente di chè", lo interruppe brusco, distogliendo per un attimo lo sguardo: "Si tratta solo di allenamento. E non sono così bravo."
"Ma cosa stai dicendo?"
"Non riesco a suonarlo, Blaine. Quel pezzo."
Oh.
Il pezzo per cui sua madre era diventata così famosa.
Il pezzo per cui Sebastian si esercitava ogni giorno, ogni qual volta gli fosse possibile. Lo ascoltava prima di una lezione. Lo suonava prima di andare a dormire. Paganini era il cavallo di battaglia di Eliane Deneuve e, in quel momento, Blaine capì che fosse diventato l’ostacolo da superare di Sebastian.
"Beh... magari devi solo provare e riprovar-"
"Lo provo ogni giorno Blaine. Da anni.” Si prese la testa tra le mani. “Non mi riesce. Continuo a farlo male. Non sono in grado."
"No. Continui a farlo male perchè quando lo suoni non sei libero."
Ma quelle parole arrivarono alle orecchie di Sebastian come una piccola folata di vento. Era stanco di sentire quei discorsi, era stanco del bonario ottimismo di Blaine. Lui sapeva bene quale fosse la verità, ed era ben altra cosa.
"... Forse dovrei soltanto smetterla di illudermi."
Arrendersi, di fronte all’eventualità che lui non sarebbe mai riuscito a soddisfare sua madre; che durante il giorno del concorso, lei sarebbe stata lì, impassibile, mentre il pubblico lo applaudiva per educazione. Era una cosa troppo dolorosa da immaginare.
“Sebastian Smythe.”
Un po’ interdetto, spostò di nuovo lo sguardo su di Blaine, che era teso, quasi infuriato. Prima che potesse chiedergli cosa volesse, lo sentì di nuovo parlare.
“Tu dici che suoni perchè ti ha obbligato lei. Ma veramente riusciresti a dedicare ore intere, la tua intera vita, solo per qualcosa che non ti piace?"
Sebastian lo fissò un po' stupito.
"Potrai anche essere stato indirizzato da tua madre, ma tu ami quel violino. Ami suonare. Ami il palcoscenico, la musica, le persone che ti acclamano e non perchè sei figlio di Eliane Deneuve, ma perchè sei Sebastian Smythe. Perchè sei un grande, un grandissimo musicista. E quando guardano, loro ti invidiano, perchè alla tua età riuscivano a malapena a tenere in mano l'archetto mentre tu... tu fai sembrare tutto così semplice, hai una tecnica che è inimitabile.
Quando sei su quel palco, non è lei che suona. Non è lei che applaudono. Sei tu. Perchè fai qualcosa di unico."
Con calma, attenzione, Blaine si sporse leggermente verso di lui, per lasciargli un piccolo bacio sulle labbra.
“Non devi pensare a come suonerebbe lei. Non devi chiederti se le piacerebbe o no. Sebastian, tu devi suonare nel modo che più ti piace. Devi... devi farlo per te stesso.”
Fece una piccola pausa, durante la quale fu certo di essere inevitabilmente arrossito.
“E... e se non riesci a suonare per te stesso, se proprio non ce la fai... allora suona per me. Suona come se dovessi ascoltare solo io. Come se volessi dirmi qualcosa.”
Non era sicuro che quei discorsi avrebbero sortito l’effetto desiderato. Sebastian era così misterioso, e così imprevedibile nelle sue reazioni. Eppure, intuì di aver centrato le corde giuste della sua armonia personale, nel momento in cui lo vide sorridere; chinarsi, baciarlo, ricambiando tutte le attenzioni ricevute fino ad allora, e ringraziarlo, e sussurrare qualcosa di indefinito che assomigliava vagamente a una melodia.
In breve tempo si ritrovarono entrambi sdraiati su quel divano troppo piccolo per contenere entrambi, ma non importava: Blaine era sdraiato sotto Sebastian, mentre le sue mani scorrevano lungo la camicia chiara, sollevandola appena per sentire il calore invitante della pelle. I baci che si stavano scambiando, adesso, avevano perso gran parte di quella dolcezza per lasciar spazio a un bisogno più impellente.
“Blaine”, sussurrò Sebastian, in un modo che gli fece accaponare la pelle. In risposta, si avvicinarono ancora di più fino a far scontrare i loro bacini.
Era come vivere un dejà-vù: non era la prima volta che si baciavano con trasporto. Non era nemmeno la prima volta che si sentisse così eccitato, così desideroso di sentire Sebastian in ogni modo possibile; eppure, era diverso. Gli ricordò la prima volta che si erano baciati in quel giardino. Gli ricordò i minuti passati nella sala prove, nascosti dal resto del mondo, su quel pianoforte terribilmente traballante e il suono dei loro gemiti a riempire l’aria.
Semplicemente, era qualcosa che volevano entrambi. Di cui avevano bisogno. Che non era più possibile trattenere.
Sebastian fece per alzarsi e far sedere Blaine sulle sue gambe, ma le misere dimensioni del divano fecero sì che scivolasse a terra trascinando il ragazzo con sè e ritrovandosi a rotolare sul tappeto nero e grigio. In altre occasioni, probabilmente, avrebbero riso di quella situazione un po’ ridicola e si sarebbero sistemati con tutta calma, ma erano troppo concentrati per farlo. Erano troppo intenti ad assaggiare l’uno la pelle dell’altro, succhiandola avidamente, lasciando dei segni più o meno scuri che sarebbero svaniti soltanto dopo giorni. Blaine si aggrappò alle spalle di Sebastian quando lui approfondì i baci, facendo scorrere le mani lungo i fianchi, fino alle cosce ancora coperte dai jeans.
E in quel momento decisero che i vestiti erano diventati assolutamente un problema.
Non si preoccuparono di recarsi in camera da letto; non si preoccuparono di camuffare i gemiti, il modo con cui chiamavano il nome dell’altro, i respiri spezzati e lo schioccare delle labbra a ogni nuovo bacio. E nonostante l’impellenza, nonostante quel desiderio trattenuto da troppo tempo che fece rabbrividire entrambi con caldi e intensi spasmi, dietro, c’era un qualcosa che esprimeva dolcezza. C’era una sorta di attenzione. C’era il modo con cui aprirono gli occhi quasi insieme, le fronti imperlate di sudore appoggiate l’una contro l’altra, i sorrisi a distanza di un bacio appena socchiusi per gli ansiti.
Sebastian sembrò perdersi negli occhi di Blaine, e in tutti quei dettagli che soltanto lui poteva conoscere, e Blaine si sentì completo come mai era stato nella sua vita.
E fu allora che capì.
Il professor Cage era stato davvero un grande insegnante. Raramente commetteva errori, e le sue parole avevano sempre un significato veritiero e profondo, ma su una cosa si sbagliava: un duetto non era come fare sesso.
Un duetto era fare l’amore.
 
 
Le luci che filtravano dalle tapparelle della finestra investirono il viso e il corpo ancora nudo di Blaine, abbandonato su quel tappeto che adesso sembrava incredibilmente scomodo.
Quando riuscì a connettere il cervello, aprendo gli occhi e richiudendoli più volte prima di riuscire ad abituarsi al sole, cercò con un braccio la presenza di Sebastian da qualche parte, magari accanto a lui, oppure appoggiato contro il divano.
Non c’era.
Al posto suo, però, c’era una coperta che non ricordava nemmeno di avere, raccolta chissà dove nell’armadio, per evidente mano di Sebastian. Lo copriva fino al petto e, alla vista di quei segni, prova della notte passata, fece un piccolo sorriso.
Sorriso che si incuriosì di colpo, non appena udì un suono insolito e, allo stesso tempo, piuttosto familiare. Sul balcone, a qualche metro distante dal lui, c’era Sebastian; si affacciava verso New York, con nient’altro che i vestiti del giorno prima, i capelli scompigliati e il volto rilassato. Un attimo dopo, riuscì a scorgere il corpo del violino che portò sotto al mento, assieme all’archetto sollevato con delicatezza, sfiorando le corde.
Blaine voleva chiedergli cosa stesse facendo, perchè quel brano, perchè lì, proprio in quel momento. Voleva chiedergli se lo stesse suonando per lui.
Si accorse solo allora di essere stato svegliato con il suono dell’Ave Maria di Shubert.
Si accorse solo allora di stare piangendo per l’emozione.






   
 
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