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Autore: e m m e    17/12/2012    12 recensioni
È opinione comune che, dopo il suo finto suicidio, Sherlock torni da John nel giro di tre anni.
La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
[Per il Big Bang Italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo V

Ha contato le crepe sul soffitto, misurato la loro ampiezza, calcolato quanti altri inverni saranno necessari perché si allarghino più del dovuto e notato una piccola perdita in un tubo che ha generato un’infiltrazione d’acqua nell’angolo alla sua destra.
Si è annoiato a morte durante tutta l’operazione – che comunque ha riempito solo quattro minuti e ventisette secondi del suo tempo – e adesso si sente ancora più annoiato di prima.
Ha mentito pesantemente a John, dicendogli di avere per le mani un caso, prima di tutto perché Lestrade ce l’ha con lui per qualche motivo e gli ha detto chiaro e tondo che non lo consulterà mai più per una delle sue indagini, e poi perché il suo modo di fare tiene alla larga i clienti.
In quel momento Sherlock si è reso conto di quanto la presenza di John sia fondamentale per il suo lavoro. Così gli ha mandato un sms.
Non è servito a molto, perché John l’ha ignorato ed è andato al parco con il marmocchio.
Forse non è stata una buona mossa avvicinarsi a lui dopo un così breve lasso di tempo dallo shock che gli aveva causato comparendo all’improvviso, ma la verità è che Sherlock non ce la fa più.
Si è occupato silenziosamente di lui per cinque anni quattro mesi e due giorni e adesso vuole avere qualcosa in cambio.
Non ha mai dovuto fare i conti con niente di fisico per tutta la sua vita, ma adesso il desiderio di avere John è diventato talmente forte da essersi infiltrato anche in quel territorio inesplorato che Sherlock ha sempre trovato privo di interesse.
In ogni caso si trova spiazzato da molte strane cose: prima di tutto John è palesemente curioso di sapere come sia sopravvissuto alla caduta dal tetto del Barts, curioso di scoprire che cosa abbia fatto per tutto quel tempo e ancora di più vuole sapere perché non sia tornato prima. Ma allo stesso tempo non vuole chiederlo.
Per Sherlock è un comportamento illogico: John non si è mai fatto scrupolo di palesare la propria incompetenza e di fare continue domande anche quando le risposte erano molto più che ovvie.
E allora perché in questo caso si limita a non fare domande, a guardarlo con quella faccia storta, gli occhi arrabbiati e delusi?
Sherlock si è già scusato, e non ha alcuna intenzione di farlo una seconda volta. E perché, poi? Quello che ha fatto lo ha fatto perché era necessario, intelligente e giusto farlo e John deve capirlo.
Il telefono al piano di sotto squilla e Sherlock si volta con la faccia contro lo schienale del divano.
Deve trovare il modo di farsi accettare di nuovo da John.
Il fatto che lo abbia colpito in quel modo davanti a tutta quella gente deve avere un significato nascosto: John non è il tipo da colpire qualcuno così all’improvviso. C’era rabbia nei suoi lineamenti, ma anche una certa soddisfazione.
Per la prima volta in vita sua Sherlock non è sicuro di qualcosa: se si dovesse presentare a casa di John riceverebbe un identico benvenuto oppure no?
« Sherlock, caro! » irrompe la signora Hudson in quel momento.
Sorride con tutta la faccia, le sue rughe sembrano sparire dietro a quel sorriso e lei ringiovanisce. Da quando Sherlock è tornato a vivere lì la signora Hudson non fa altro che sorridere.
« Mmm. »
« Ho bisogno del tuo aiuto. »
« No. »
« Si tratta di John. »
Scatta a sedere, come se qualcuno avesse premuto un interruttore, e la guarda aspettando che continui.
« Mi ha appena telefonato... dice che sarà trattenuto in ambulatorio per un altro paio d’ore e che qualcuno deve andare a prendere il bambino a scuola. Gli ho detto che ci avrei pensato io perché la sua baby-sitter è in vacanza, Harriet è impegnata e Molly è al lavoro... ma mi sono appena ricordata che tra venti minuti ho il parrucchiere e non posso proprio rimandare. Non è che potresti...? »
« L’ho vista andare dal parrucchiere solo ieri mattina, signora Hudson » risponde Sherlock.
Per un po’ cala il silenzio tra i due.
« È un bambino tanto caro, sai... ha lui le chiavi di casa. Devi solo stare attento che non combini qualche disastro. »
Sherlock la guarda e il sorriso della signora Hudson si amplia ancora di più. Nota una punta di malizia negli occhi della donna e le sue labbra che si piegano verso l’alto, in automatico.
« Devo aspettare che John torni a casa? »
« Sarebbe meglio, è ancora un bambino troppo piccolo per rimanere tanto tempo da solo. »
Sherlock afferra il cappotto ed è già fuori di casa.
Soltanto un pazzo gli affiderebbe la custodia di un bambino. I bambini sono stupidi, creduloni e piangono per cose inutili. In verità sono inutili di per sé.
Ma la scusa è buona e la signora Hudson ha ancora parecchi assi nella manica, a quanto sembra.

Il bambino è seduto sul marciapiede davanti alla scuola quando Sherlock arriva in taxi nell’ora di punta.
È l’ultimo bambino rimasto e la maestra sta in piedi accanto a lui, in attesa che il padre o qualcuno che conosce si faccia vivo.
« Lei chi è? » domanda la donna – tra i trenta e i trentacinque, sposata da poco, matrimonio infelice, marito alcolista, a volte violento – non appena lo vede avvicinarsi.
« Sherlock Holmes, sono qui per lui » dice, indicando il bambino che lo ha degnato appena di uno sguardo.
« Sherry, lo conosci? »
« No » risponde il bambino con tutta calma.
« Sono un amico di suo padre. »
La donna appare dubbiosa, ma evidentemente è avvezza alle bugie del marmocchio.
« È vero, Sherry? »
« No, mio padre lo odia e non vuole più avere niente a che fare con lui. »
« Mi ha mandato a prenderti perché non c’era nessun altro che lo potesse fare. »
« Non lo avrebbe mai fatto. Piuttosto mi avrebbe fatto aspettare fuori al freddo. »
« John non farebbe mai aspettare fuori al freddo un bambino! »
« Papà ti ha detto di andartene via! Sei stato cattivo con lui! »
« Non sono stato affatto cattivo con lui. Ho fatto quello che dovevo fare! »
Il bambino è sull’orlo delle lacrime e Sherlock ha l’immediato impulso di prenderlo, calargli i pantaloni e sculacciarlo, quando all’improvviso la sua faccia si trasforma in una intensa espressione di curiosità.
« E che cosa dovevi fare? »
Sherlock sbatte le palpebre e aggrotta le sopracciglia, ma la sua attenzione è catturata di nuovo dalla maestra del bambino. « Ci credo che vi conoscete. E se non conoscessi anche il padre potrei quasi dire di averlo davanti. »
Si allontana impettita, zoppicando, e li lascia al loro destino. Non molto professionale, pensa Sherlock.
« Il marito la picchia » spiega Sherry guardandola allontanarsi. « Ora è sempre triste. »
« È irrilevante » commenta Sherlock.
Il bambino si alza e si spazzola il retro dei pantaloni con i palmi delle mani. « Cosa? »
« Che sia triste. È irrilevante. »
« No che non lo è! » sbotta il bambino piegando la testa di lato e fissandolo incuriosito. « A me dispiace che sia sempre triste. È molto buona con me da quanto la mamma è morta. Andiamo a casa? Non mi hai ancora detto che cosa dovevi fare. »
« È irrilevante. Se lei sta male non devi stare male anche tu. Sarebbe una cosa stupida da fare e distoglierebbe la tua attenzione dalle cose davvero importanti. Andiamo a casa. E non sono cose che ti devono interessare. »
Il bambino allunga una mano e prende quella di Sherlock che ha già iniziato a camminare verso il taxi, ancora fermo ad attenderli.
« Che cosa fai? »
« I bambini non possono camminare da soli per la strada. Devi tenermi la mano. A papà quelle cose interessano. »
È in quel momento che a Sherlock il bambino inizia a piacere: da molto tempo non trovava qualcuno con cui conversare su più livelli contemporaneamente e la cosa lo diverte.
« Tu non sei un bambino normale » risponde, ma non fa niente per allontanare quella manina calda e sporca di polvere che stringe il suo indice con forza.
« Se a John quelle cose interessano dovrà essere lui a chiedermele. »
« È troppo arrabbiato per chiedertele, credevo che fossi uno intelligente » replica lui, altezzosamente. « Papà mi ha raccontato molte cose di te... ha letto delle storie dal suo blog. Ti piacciono gli indiani? Io da grande sarò un indiano. »
« Sono molto intelligente. A dirtela tutta sono un genio e dovresti averlo capito anche tu dalle cose che John ti ha raccontato. E preferisco i pirati. »
« I pirati sono stupidi » risponde Sherry arrampicandosi sul sedile posteriore del taxi.
« I pirati non sono affatto stupidi! » replica Sherlock a sua volta, punto sul vivo.
« Gli indiani comunicavano con la natura, niente nel mondo che li circondava era un mistero per loro. Quando uccidevano un bufalo usavano tutto di lui, anche i peli della coda. Avevano grandi sciamani che curavano le persone con le piante e non facendo stupide magie. Si dipingevano il corpo per fare paura ai propri avversari e con gli archi e le frecce potevano colpire qualsiasi bersaglio. Avevano grande rispetto per ogni cosa esistente, erano- »
« I pirati sono molto più interessanti: loro- »
« Ehi, mi dispiace interrompere questa conversazione di alta cultura, ma mi deve venticinque sterline più spiccioli! » si intromette il tassista voltando la testa verso di loro.
Sherlock estrae un biglietto da cinquanta sterline dalla tasca e lo caccia in mano all’uomo.
Scendono entrambi e sono talmente immersi nella conversazione che nessuno dei due sente il richiamo l’uomo che cerca di dare il resto a Sherlock.

***

Quando John tornò a casa era in ritardo di un’ora rispetto a quanto aveva detto alla signora Hudson.
Si sentiva un po’ in colpa verso la vecchia amica, ma adesso che c’era solo lui a portare a casa qualche soldo ogni straordinario era importante.
Il silenzio che lo accolse lo prese alla sprovvista: di solito Sherry quando si trovava in compagnia di Molly o Harriet si comportava come un terremoto a due gambe; con la signora Hudson le cose andavano meglio, ma non ricordava una sola volta in cui aveva trovato la casa in quella perfetta tranquillità.
« Signora Hudson! » chiamò, posando la sua borsa nell’ingresso. « La prego, mi dica che questa volta ha mangiato qualcosa. »
La voce di Sherlock lo raggiunse dal salotto: « Nessuno di noi due aveva fame. »
Il tono di voce era basso, molto più basso di quanto John era abituato a sentire, e si chiese perché.
Subito dopo realizzò che Sherlock non aveva alcuna ragione di trovarsi in casa sua e spalancò la porta del salotto con rabbia improvvisa.
La stanza era buia e John ebbe l’improvvisa, orrenda visione di suo figlio utilizzato per qualche esperimento scientifico.
« Sta dormendo » spiegò Sherlock.
« Che diavolo ci fai tu qui?! » sbottò John, cercando a tentoni l’interruttore e inondando la stanza di luce.
Sherlock se ne stava seduto sul divano, immobile; la testa rossa di Sherry posava sulla sua coscia, gli occhi chiusi e il respiro regolare. Aveva le ginocchia strette al petto e con una mano stringeva la stoffa della camicia di Sherlock.
John sbatté le palpebre, tanto quella scena gli parve anomala e priva di senso.
« La signora Hudson aveva un impegno improrogabile, così ha mandato me. »
« Ha mandato te » ripeté John, senza comprendere il senso della frase. « Ha completamente perso il cervello? Tu che badi ad un bambino! »
Il tono di voce di John probabilmente era molto vicino all’isterico, perché Sherry aprì un occhio assonnato e si svegliò, un po’ per la luce, un po’ per il suono della voce del padre.
« Papà! » esclamò, portandosi a sedere e strusciandosi gli occhi con i pugni. « Mi sono divertito tanto oggi! »
John deglutì e si guardò intorno nella stanza, certo di trovare qualche cosa di strano in giro – un cadavere magari, o segni di varie esplosioni. Ma la stanza era perfetta, così come l’aveva lasciata quella mattina.
« Puoi anche andare adesso, Sherlock » disse John senza degnarlo di uno sguardo. Perché non si decideva ad uscire dalla sua vita? Perché doveva sempre ritrovarselo tra i piedi?
« Oh papà... non può rimanere a cena? »
« No. Non può. »
Sherlock si alzò e raccolse il cappotto che aveva lasciato appoggiato alla spalliera del divano, poi, mentre ancora stava indossando la sciarpa, superò John senza aggiungere una parola e si incamminò verso l’uscita.
John chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. Si accorse solo in quel momento di aver stretto i pugni tanto forte da farsi quasi male.
« Rimani seduto lì, tu » ordinò, rivolto al bambino, poi seguì Sherlock e lo raggiunse proprio quando aveva le dita strette sul pomello della porta, pronto ad uscire.
« Perché mi stai facendo questo, Sherlock? » chiese alla sua schiena.
Lo osservò voltarsi piano e spostare la sua attenzione dalla maniglia al volto di John.
« Non sto facendo niente. »
« Perché vuoi a tutti i costi tornare a far parte della mia vita? Dio, non ti ho chiesto mai niente, mai, nemmeno una volta. Ho sempre fatto quello che mi chiedevi, senza domandare spiegazioni, senza protestare. Perché hai voluto farmi questo? Per cinque anni, Sherlock! »
Lo vide deglutire e scorse sul suo volto qualcosa di improvviso e rapido che mai aveva visto prima, senso di colpa e dolore e tristezza, forse.
« Non mi aspetto che tu capisca » disse Sherlock.
« No. Certo. Come potrei capire, io, il normale, l’ordinario John Watson? Cristo! Ti credi ancora al di sopra di tutto il resto del mondo... almeno certe cose non cambiano mai. »
Probabilmente le delusione e il disgusto erano dipinti a grandi tratti sul suo volto, perché gli occhi addolorati di Sherlock non lo mollarono nemmeno per un secondo.
John capì che non c’era niente che potesse fare, niente che potesse dire, per allontanare quell’uomo dalla sua vita. E allo stesso tempo che non c’era niente che potesse fare Sherlock, per ricostruire quel rapporto interrotto cinque anni prima.
Non sarebbero mai più stati coinquilini, o amici. Certe cose, quando sono rotte, rimangono rotte per sempre.
« Vattene, per favore. »
« John- »
« Vattene. Soltanto... vattene. »
E Sherlock se ne andò chiudendo piano la porta alle proprie spalle. John tornò ad occuparsi di suo figlio, con un nuovo pesante macigno sul petto, e scorse gli intelligenti occhi di Sherry che avevano spiato tutta la scena da uno spiraglio della porta.

***

John non era tipo da portare rancore, o almeno non così a lungo, e proprio per questo dopo un solo mese dall’ultima volta che aveva visto e sentito Sherlock iniziava a smaniare dal desiderio di rincontrarlo.
Non era normale, naturalmente – non dopo quello che gli aveva fatto passare – e tratteneva questo suo impulso con tutta la forza della sua determinazione.
Non c’era motivo alcuno per cui dovesse perdonarlo. Nessun motivo logico, almeno.
E oltretutto non riusciva a cancellare quel senso di colpa latente che portava costantemente i suoi pensieri verso Mary.
Aveva chiesto il suo permesso per- per qualcosa, una sera in cui nelle sue vene circolava molto più alcool rispetto al sangue, e lei certo non aveva risposto.
E quale domanda aveva fatto John?
Certo, finché non fosse stato in grado di porla anche a se stesso non poteva certo sperare che sua moglie morta gli rispondesse.
Prima di andarsene Mary gli aveva fatto promettere di rifarsi una vita.
Ma John era abbastanza sicuro che la frase non implicasse “rifatti una vita a partire dal giorno del mio funerale quando il tuo pazzo ex-coinquilino tornerà in vita come per magia”. Decisamente no.
E come se non bastasse, Sherlock continuava a inviargli sms.
John li cancellava tutti. All’inizio nemmeno li leggeva, poi aveva ceduto alla sua stramaledetta curiosità e li cancellava solo dopo averli scorsi velocemente.
Sherry ad ogni squillo di cellulare sollevava lo sguardo sul padre con occhi speranzosi, ma lo riabbassava immediatamente quando capiva che Sherlock non era stato perdonato.
John era ancora sconvolto dalla velocità con cui suo figlio si era affezionato a Sherlock.
Oggettivamente erano molto simili, ma se avesse dovuto decidere tra “si ameranno a prima vista” e “litigheranno per tutto il tempo” avrebbe scelto la seconda opzione.
Invece così non era accaduto e, dopo quelle prime tre ore che Sherry aveva passato in compagnia del suo omonimo adulto, per qualche giorno aveva continuato a chiedere quando avrebbe rivisto Sherlock.
John lo aveva pregato di smettere, ma come c’era da aspettarsi Sherry non aveva obbedito e una sera lo aveva scoperto a curiosare nel suo cellulare.
Lo aveva mandato a letto senza cena ma dubitava che quella fosse una punizione adeguata, dato che suo figlio mangiava come un uccellino.
Nonostante questi primi momenti di confusione, dopo una settimana le cose sembravano essere tornate alla normalità e Sherry aveva smesso di fare continue richieste.
Quello che non aveva smesso tuttavia era il cervello di John, che non accennava a placarsi nemmeno un attimo, inserendo Sherlock quasi in ogni singolo pensiero che formulava.

Le cose cambiarono – non per merito di Sherlock, né per merito di John – una mattina di inizio ottobre, quando l’uomo, dirigendosi al lavoro dopo aver portato Sherry a scuola, si rese conto di aver lasciato il portafoglio sul tavolo della cucina.
Sospirando afflitto si diresse verso casa, ben sapendo che anche quella mattina sarebbe arrivato in ritardo e che per una volta non avrebbe potuto dare la colpa alla sua scalmanata prole.
Entrando nell’appartamento però ebbe una bella sorpresa, perché comodamente seduta nell’ingresso se ne stava una donna di circa settant’anni, elegantissima e curata, che aspettava con pazienza il suo ritorno.
« Lei chi diavolo è?! » sbottò John, anche se ne aveva già una vaga idea.
« Ha dimenticato il portafoglio, John. Questa mattina la tasca del suo cappotto sembrava più leggera del solito, non le pare? »
I suoi timori furono confermati da quella frase. Cristo, ma perché a lui?
« Che cosa vuole? »
« Oh, ha capito chi sono. È molto più intelligente di quanto Mycroft ha cercato di farmi credere. »
« Devo prenderlo per un complimento? »
« Come preferisce. »
John la superò e andò a cercare il proprio portafoglio, decidendo immediatamente che quella conversazione avrebbe avuto fine prima di iniziare.
La signora lo seguì, sollevandosi dalla sedia in cui si era accomodata con innata eleganza.
« Non mi riconosce, John? »
John sospirò, annoiato. « Dovrei? »
« In verità sì. »
« Senta » sbottò all’improvviso, voltandosi e trovandosela a pochi centimetri di distanza. Ignorò quanto i suoi occhi somigliassero a quelli di Sherlock e continuò: « Ne ho abbastanza di tutto questo! Passi quella storia dell’orso di peluche, non voglio neanche parlarne, ma io la conosco solo sotto il nome di “mamma”, non so assolutamente niente di lei e non sono interessato a sapere niente, né ora, né mai.. »
John non aveva mai avuto paura di una donna – nemmeno di Irene Adler, che forse era la donna più spaventosa che avesse mai conosciuto – ma quando la signora Holmes strinse le labbra e aggrottò le sopracciglia abilmente disegnate in quella che era una palese smorfia di disapprovazione, gli parve di tornare bambino, con sua madre che lo guardava dall’alto in basso pronta a punirlo per qualche marachella.
« Solitamente sono una donna molto paziente, John Watson » disse con un tono di voce glaciale che fino a pochi secondi prima non aveva avuto. « Ma non le consiglio di scoprire quello di cui sono capace quando si tratta della felicità dei miei figli. Si sieda. »
John obbedì, suo malgrado affascinato dalla trasformazione che i lineamenti di quella donna avevano subito nel giro di qualche secondo.
Quella metamorfosi gli ricordò Sherlock e le sue mirabili interpretazioni di fronte a perfetti estranei.
La signora Holmes si sedette a sua volta dopo qualche secondo, posando le mani in grembo, una sopra l’altra, e togliendosi il soprabito.
Indossava un vestito blu scuro, rifinito con un ricamo sottile lungo le braccia. Era magra come un’acciuga e – John non avrebbe saputo usare un’altra parola per descriverla – spigolosa.
« Ora! » esordì. « Parliamo un po’. »
« Non si è nemmeno presentata » replicò John, un po’ per prendere tempo e un po’ perché era curioso di conoscere finalmente il nome della madre di Sherlock.
« Naturalmente, le buone maniere avanti tutto. Il mio nome è Daralis Holmes ed è un piacere rivederla, sebbene le circostanze non siano delle migliori. »
« Signora » la avvertì John, « le assicuro che io non ho mai avuto il piacere, prima che lei decidesse di introdursi in casa mia. »
« Evidentemente non ha buona memoria » rispose Daralis Holmes, incrociando le braccia e accomodandosi nella poltrona. « Certo, quel giorno non avevo questo nome, ma sono abbastanza sicura che con un piccolo sforzo la sua mente sarà in grado di ricollegarmi alla gentile signora che le diede il numero di telefono del dottor Dawson. »
Ci fu qualche attimo di silenzio. Una nuvola andò a coprire il leggero sole autunnale che quel mattino aveva stranamente invaso la City e il volto della signora Holmes fu coperto dalla penombra calata nella stanza.
John boccheggiò, troppo sconvolto per dire qualcosa di concreto.
« Che- Che cosa significa? »
« Significa che io e lei ci siamo già incontrati, cos’altro? Ma non perdiamo tempo, John. Io sono qui per Sherlock, non per fare due chiacchiere. Quello che voglio sapere è: per quanto tempo ancora ha intenzione di tenere il broncio al mio bambino? »
Se l’affermazione precedente aveva lasciato John sconvolto, questa lo lasciò completamente allibito.
« Tenere il cosa al suo cosa?! »
« Ha capito alla perfezione. »
« Credo che lei sia un attimo confusa: io ho quarantadue anni, Sherlock... non lo so con precisione, ma di sicuro più di cinque. E nessuno di noi due sta tenendo il broncio a nessuno. »
Daralis fece un ampio sorriso. « E come lo spiega il fatto che lei stia ignorando completamente mio figlio nonostante lui abbia fatto di tutto per tornare nelle sue grazie? »
« Nelle mie...? Santo Dio... » John si portò una mano al volto, fregandosi gli occhi. « Non c’è modo di evitare questa conversazione? »
« Temo di no. »
« Allora cominci a spiegarmi perché si è travestita per darmi il numero di una clinica privata. »
Daralis sospirò, come se la cosa la stesse annoiando a morte. « Non è ovvio? »
« Non per me. Deve avere pazienza, a differenza di tutti i membri della sua famiglia io sono una persona normale. »
« D’accordo allora, l’ho fatto perché me lo ha chiesto Sherlock. »
« Sherlock? »
« Esatto. »
« Sherlock le ha chiesto di darmi quel numero. Perché? »
« Per aiutare lei e sua moglie, anche se al tempo vi limitavate a convivere. »
John sbatté le palpebre, sentendosi sempre più confuso. « Ma che cosa ne sapeva Sherlock della malattia di mia moglie? »
La signora Holmes lo guardò, il sincero stupore che si disegnava a grandi tratti sul suo volto. « Ma davvero non ha capito niente? » domandò.
« Capito cosa? »
« Riguardo a Sherlock: lui non se ne è mai andato, non realmente. È sempre stato qui, a controllarla, a vegliare su di lei, se vogliamo. Non l’aveva ancora capito? »
John non rispose. Al suo cervello occorse un discreto lasso di tempo per comprendere quelle parole, per giungere all’inevitabile conclusione a cui nessuno lo aveva preparato.
Cristo santo, come avrebbe potuto anche solo immaginare una cosa del genere?
« Come diavolo avrei dovuto capirlo?! Non sono nemmeno certo di capire quello che sta cercando di dirmi! Dio...! »
La donna si alzò in piedi e iniziò a camminare per la stanza, completamente a suo agio. John la seguì con lo sguardo, sentendosi come quando da ragazzo in classe seguiva il lento passeggiare di un professore mentre questo spiegava una lezione di storia.
« Io e la mia famiglia abbiamo un certo talento per il teatro. Ci sappiamo confondere in mezzo alla folla senza nessun problema: indossando i panni di un qualsiasi personaggio acquisiamo anche la sua personalità, le sue debolezze, le sue paure, e tuttavia non perdiamo mai di vista il progetto finale, l’ultima scena, il calare del sipario.
Oltre a fingere la sua morte per mantenerla in vita, Sherlock le è stato sempre vicino in questi cinque anni, ha spiato le sue mosse, si è preso cura di lei: come crede che sua moglie abbia potuto trovare un lavoro così ben retribuito in così poco tempo? E l’affitto della vostra casa? Non vi è sembrato estremamente vantaggioso quando avete firmato il contratto? Ha perfino cercato il padre biologico di suo figlio, per essere certo che non ricomparisse all’improvviso. Si è rivolto a me, quando per Mary Morstan sembravano non esserci più speranze, pregandomi di parlare con il dottor Dawson – un vecchio amico di famiglia – e di convincerlo ad accettarvi come pazienti. E la sua parcella non è stata così pesante come aveva creduto, non è vero? Ha fatto tutto questo, e molto altro, il mio bambino. »
Si fermò per un attimo, proprio davanti alla finestra, osservando il viavai di macchine all’esterno. John, con i pensieri e i sentimenti che vorticavano dentro di lui come travolti da un improvviso uragano, avrebbe giurato di scorgere un principio di lacrime in quegli occhi.
« Mai » continuò la donna imperterrita, « mai l’ho visto darsi tanta pena per qualcuno, mai l’ho visto legarsi con tanta violenza ad un altro essere umano. Lei non si rende nemmeno conto di quanto sia importante per mio figlio. Lei... un uomo così normale, ordinario, stupido... uno tra tanti. Eppure per qualche motivo deve essersi meritato l’amore di mio figlio. »
Fece una pausa e poi si voltò di nuovo verso John, continuando: « Non mi fraintenda, non posso essere più felice di così: finalmente si è risvegliato in lui qualcosa che credevo perduto per sempre. Quello che non capisco è perché lei si ostini a tenerlo a distanza, a respingerlo. Non le ha forse chiesto scusa? Che cosa dovrebbe fare in più? »
John deglutì, incapace di produrre alcun suono. Si aggrappò ai braccioli della poltrona con forza, perché per qualche attimo gli sembrò che il pavimento stesse per aprirsi e risucchiarlo nel buio.
« Ma perché- perché non è tornato prima? Perché? » la sua voce era un sussurro, tanto che si stupì quando vide la donna incrociare le braccia sul petto, aggrottando le eleganti sopracciglia. Evidentemente trovava la faccenda di un’ovvietà disumana, ma si apprestò a spiegargli anche quell’ultimo interrogativo.
« John, mi dica la verità, lei che cosa farebbe se la persona di cui è innamorato si rifacesse una vita con qualcun altro credendola morto? Se avesse un figlio, una moglie, una bella casa, una vita piena... In tutta coscienza, lei avrebbe il coraggio di distruggere la felicità di quell’unica persona realmente in grado di renderla felice? »
« Ma Sherlock... »
« Sherlock è cambiato » furono le sue ultime, violente parole. « In infiniti, piccoli modi, Sherlock è cambiato. E dopo questa conversazione non riesco a capire come sia possibile che proprio lei tra tutti sia riuscito nel miracolo. »
John provò l’impulso improvviso di darle ragione, in quel caso e negli ulteriori e futuri casi. Quella donna faceva paura. Seriamente.
« Temo di averle rubato fin troppo tempo, John » ecco che ritornava quella voce dolce e suadente che lo aveva accolto una buona mezz’ora prima.
« No, io- devo solo... »
« Spero di rivederla presto » concluse Daralis Holmes, indossando di nuovo il soprabito. « Non si scomodi. Conosco la strada. »
John la osservò uscire dal salotto e dirigersi con passo sicuro verso la porta d’ingresso.
Quando rimase da solo, seduto nella luce di una mattina d’ottobre insolitamente calda, John non seppe se sentirsi sollevato, arrabbiato, commosso o confuso.

***

« John! Dove diavolo sei? »
« Arrivo. »
« Accidenti, John! Non puoi mollarci adesso, lo sai che tra tre giorni- »
« Lo so, scusa. Ho avuto un imprevisto. »
Attimo di silenzio dall’altro capo del filo.
« John, è successo qualcosa a Sherry? »
« No! No, niente del genere... solo- che ne dici se pranziamo insieme? »
« Mi stai facendo preoccupare. »
« Non c’è niente di cui preoccuparsi. »

John aspettava, seduto al loro solito tavolo, cercando di dare un senso ai propri pensieri, sentendosi un idiota patentato, desiderando in modo incongruo di parlare con sua sorella, anche se lei si sarebbe limitata a dire “io te l’avevo detto” e sarebbe finita lì.
Sospirò e ordinò un altro bicchiere di vino, nell’attesa. Di solito non beveva mai durante il giorno – soprattutto quando il pomeriggio lo avrebbe passato in ambulatorio – ma aveva davvero bisogno di qualcosa di più forte dell’acqua.
Sarah entrò, trafelata, la stoffa della maglietta che tirava sopra il pancione di cinque mesi. Si era sposata un anno prima e non vedeva l’ora di avere il primo figlio.
Si precipitò al tavolo di John con la faccia da “dimmi che cosa è successo e farò di tutto per aiutarti” che John tanto apprezzava, ma della quale non c’era estrema necessità in quel caso, visto che l’unica cosa che sentiva il bisogno di fare era di parlare con qualcuno che fosse un po’ più addentro a quella faccenda.
« Ciao » esordì lei. « Che cosa è successo? »
John sollevò gli occhi sul suo volto, incredibilmente lieto di averla come amica. « Sherlock » disse, e la sua voce suonò incrinata persino alle sue orecchie.
Sarah si sedette immediatamente, la preoccupazione sostituita dalla rabbia. « Che cosa ha fatto, stavolta? Credevo che fossi stato chiaro con lui. »
« Le cose si sono fatte un po’ più complicate dall’ultima volta che ne abbiamo parlato. »
« Oh, John... »
John sollevò lo sguardo, colpito dal tono improvvisamente pietoso della sua voce.
« Cosa? »
« Dopo tutto quello che ti ha fatto, non credevo possibile che ti innamorassi di lui, di nuovo. »
John la fissò a bocca aperta. « Non sono mai stato- non è questo il punto. Non hai nemmeno sentito quello che ho da dirti. »
Sarah sospirò, spostandosi all’indietro e poggiandosi allo schienale della sedia, quasi come se le parole che John stava per pronunciare le fossero perfettamente chiare.
Be’, in tal caso avrebbe ricevuto una bella sorpresa.

« Che cosa hai da dire adesso? » domandò John, dopo averle spiegato la storia a grandi linee – perché a grandi linee la sapeva – e averla vista sempre più colpita e stupita e indignata man mano che tirava fuori le parole.
« Che sono matti. Tutti, dal primo all’ultimo. E la più matta di tutti è quella donna... Dio, John, mi hai messo i brividi! E quella cosa dell’orsetto di peluche? »
John scrollò le spalle. « Non ne ha parlato, ma sono abbastanza certo che Sherlock non c’entri niente. »
Rimasero entrambi in silenzio per qualche minuto mentre il pranzo che avevano ordinato si freddava nei piatti senza che John lo avesse nemmeno toccato.
« È innamorato di te. E non poco. »
« Non utilizzerei questa parola, Sarah... » replicò John, giocherellando con una patata arrosto.
« Perché? »
John non rispose e scrollò di nuovo le spalle. Avrebbe potuto pensarci seriamente cinque anni prima, quando Mary non esisteva, quando Sherry non era entrato a far parte della storia, quando Sherlock era ancora vivo e non si era tramutato in quell’estraneo tutto da riscoprire.
« Hai paura che sia vero. »
« Cosa?! No! »
« E invece sì, John. Hai paura che sia vero e non vuoi imbarcarti in questa cosa, Dio solo sa perché. »
« Mia moglie è morta da poco più di un mese, Sarah! Non c’è nemmeno da discuterne. »
« E allora perché me l’hai raccontato? Che cosa vuoi che ti dica? »
Si guardarono per un lungo istante, poi John allungò una mano e spostò il piatto lateralmente, con una smorfia di disgusto. « Non lo so... volevo solo dirlo a qualcuno, immagino. »
Sarah gli prese la mano all’improvviso, con una dolcezza nello sguardo che non vedeva rivolta a lui da moltissimo tempo. « Non lasciare che il senso di colpa ti impedisca di vivere la tua vita. »
« Non sono io che dovrei sentirmi in colpa » replicò, ritirando la mano e poggiandosi alla sedia, improvvisamente a disagio.
« John, che cosa avresti fatto se Sherlock fosse tornato... diciamo due anni fa, invece che dopo la morte di Mary? Ci hai pensato? »
Scosse la testa: era un pensiero che si era affacciato molte volte alla sua mente ma ogni volta John lo aveva ricacciato indietro, perché davvero aveva il terrore di scoprire che per Sherlock sarebbe stato in grado di abbandonare una donna morente e un bambino che aveva bisogno di lui.
« Non è tornato per evitarti una scelta. »
« È una tua supposizione. »
« Una supposizione plausibile, visto quello che ha cercato di fare per te e Mary in questi anni. È una cosa folle... voglio dire, travestirsi per poterti pedinare e farti avere dei soldi e tutte quelle cose... completamente fuori da ogni logica! Ma le ha fatte per un motivo, e credo proprio di sapere quale sia. E lo sai anche tu. » Fece una pausa cercando lo sguardo di John, che si perdeva ovunque nel ristorante per evitare di incontrare quello della ragazza. « Era questo che volevi sentirti dire, no? »
John prese un lungo respiro. Era stanco di quella situazione, stanco e stufo. Avrebbe voluto mettere un punto fermo ai suoi sentimenti e alla sua vita, ma c’erano troppe cose in ballo: non era più da solo a giocare la sua partita. Con lui c’era anche Sherry, e non avrebbe permesso che il bambino soffrisse.
« Non so più quello che avrei voluto sentirmi dire. Ad essere sinceri, non so più niente. »

***

E quel pomeriggio, mentre riportava Sherry a casa dopo un’intensa e proficua giornata di lavoro di cui ricordava ben poco, continuava a non sapere niente.
« Papà, che cosa è successo? » domandò Sherry con l’intelligenza che lo contraddistingueva, o in generale che contraddistingue tutti i bambini quando si tratta di comprendere le preoccupazioni dei genitori.
« Niente. Che cosa hai fatto a scuola? »
Il bambino si strinse nelle spalle e sorrise dicendo: « Niente. »
« Perfetto, oggi abbiamo fatto le stesse cose. »
Rimasero in silenzio, perché quando voleva Sherry sapeva essere un bambino molto silenzioso, fino alla porta di casa, che trovarono aperta.
« Oh, no. Ancora! » sbottò John, francamente disturbato all’idea di trovarsi di nuovo Daralis Holmes seduta sulla sedia dell’ingresso.
Ma sulla sedia dell’ingresso stava invece seduto Sherlock.
Sherry si portò le mani alla bocca per nascondere l’ampio sorriso che sorse spontaneo sul suo volto, ma non disse niente.
« Il mio appartamento mi informa di non farcela più ad essere scassinato dai membri della tua famiglia, Sherlock » esordì John dopo il primo istante di stupore.
Chiuse la porta alle sue spalle e si tolse il cappotto, appendendolo insieme a quello di Sherry all’attaccapanni dietro di lui.
« Che cosa ti ha detto mia madre? » domandò Sherlock, la voce aspra e fredda, gli occhi fissi su di lui come se temesse di vederlo scomparire all’improvviso.
« Niente d’importante » mentì John, ben sapendo che Sherlock poteva scoprirlo in batter d’occhi, poi aggiunse: « Vai in camera tua a giocare, Sherry. »
« Non voglio! » protestò subito il bambino.
« Non ho intenzione di ripetertelo. »
« Voglio stare qui a sentire! »
« Non c’è niente da sentire, prenderemo soltanto un tè e poi Sherlock se ne andrà. »
« Un tè? » domandò Sherlock allora, sollevando lo sguardo che si era momentaneamente spostato sul bambino.
« Se non hai altri impegni... »
« Voglio rimanere anche io a prendere il tè! » continuò Sherry imperterrito, ma nessuno più gli badava.
« Nessun impegno, John. »
« Bene, allora. »
Sherry spostò lo sguardo da suo padre a Sherlock, indignato per essere così spudoratamente ignorato dai due adulti, e infine si aggrappò ai pantaloni di suo padre con le lacrime agli occhi e il moccio al naso: « Papààà! Voglio rimanere anche io! »
John si riscosse, distogliendo lo sguardo dal sorriso sottile che Sherlock gli stava rivolgendo, e afferrò il bambino, sollevandolo da terra.
« Sono mesi che non ti vedo fare più queste scene, hai intenzione di ricominciare adesso? »
Ma Sherry sembrava completamente sordo alle proteste del padre e probabilmente sarebbe scoppiato a piangere se il detective non avesse detto: « Se vai in camera tua, dopo ti darò una cosa che ti piacerà. »
John spostò lo sguardo su di lui, allibito, e così fece anche il bambino, ma con gli occhi brillanti di curiosità. « Che cos’è? »
« Deducilo. »
Sherry smaniò per scendere a terra e John lo lasciò andare, osservando con stupore la dinamica che si stava istaurando tra quei due strani individui.
Sherry strinse gli occhi e li passò una o due volte sulla figura di Sherlock, completamente assorto in chissà quali pensieri, dimentico del capriccio interrotto a metà.
« Lo so! Lo so! » gridò infine, esaltatissimo.
« Bene, lo vedremo quando starò per andarmene » replicò Sherlock con tutta calma e John fu certo di aver notato una punta di divertimento nei suoi tratti.
« Farò il bravo, lo giuro! » si affrettò a promettere il piccolo, aggrappandosi al lungo cappotto di Sherlock.
« I bravi bambini non si aggrappano ai vestiti degli adulti » lo redarguì John a quel punto. « Vai in camera tua, adesso. »
Sherry schizzò al piano di sopra, saltellando come un grillo, e chiuse con forza la porta della propria stanza, come a rimarcare che si stava comportando proprio come suo padre voleva.
Ci fu qualche attimo di silenzio in cui John evitò accuratamente di mostrare il suo sorriso. Avrebbe voluto farcela a non essere improvvisamente felice, ma non riuscì a cancellarsi dalla faccia quella stupida espressione di gioia che non aveva alcun senso di esistere.
Andarono in cucina, dove Sherlock si tolse il cappotto e si sedette al tavolo, guardandosi intorno.
John immaginò che solo guardando l’ambiente ci fossero moltissime conclusioni a cui Sherlock sarebbe giunto riguardo alla sua vita. Poi ricordò che probabilmente Sherlock conosceva tutto riguardo alla sua vita e rischiò di far cadere il barattolo dello zucchero.
« Mi dispiace per mia madre » disse all’improvviso.
« È una donna... particolare. »
« Particolarmente spaventosa. »
John smise di armeggiare ai fornelli e si voltò, mentre il bollitore compiva il suo dovere. « Ti somiglia » disse.
Sherlock roteò gli occhi. « Non posso considerarlo un complimento. Che cosa ti ha detto? »
« Credevo che tu sapessi sempre tutto » replicò John.
La situazione era strana, anomala, come se la stessero vivendo attraverso un vetro o come se le parole giungessero in ritardo all’orecchio, una sorta di eco continua.
Era così strano averlo davanti, in carne ed ossa, così reale.
Sherlock parve punto sul vivo dalla sua ultima affermazione e strinse le labbra. « Non quando si tratta di mia madre. »
« Ha detto, pressappoco: “Voglio che la smetta di tenere il broncio al mio bambino”. »
Sherlock lo guardò sgranando gli occhi e John notò con profondo stupore che le sue guance pallide si stavano colorando di rosso.
« Non è vero. »
« Ti assicuro che è verissimo » replicò John, trattenendo un sorriso.
« È stata qui ventisette minuti. Non può averti detto solo quello. »
Il bollitore scelse quel momento per avvertire che l’acqua era pronta e John poté glissare su quell’affermazione che sottintendeva una domanda ben precisa, preparando le tazze di tè.
Ricordava ancora perfettamente come Sherlock prendesse il tè e la cosa non lo stupì per niente.
« Senti, se sei così interessato, perché non lo chiedi a tua madre? »
« Non- non abbiamo quel che si dice un buon rapporto. Non come quello che hai tu con il bambino, almeno. »
« Ha un nome, Sherlock. »
« Lo so. »
Rimasero in silenzio per qualche attimo, ognuno concentrato sul ruotare il cucchiaino nella propria tazza, poi John si schiarì la gola, incerto. « Non sarà come prima, Sherlock. »
« Chiaramente. »
« E non è solo per via di Sherry... sono passati- »
« Cinque anni e mezzo, lo so. »
Sherlock sollevò lo sguardo su di lui e John per un attimo vi poté leggere tutta una serie di informazioni che mai prima di allora gli era capitato di cogliere in lui: tenerezza, sopra a tutti gli altri sentimenti, ma anche desiderio, paura, affetto.
Si sentì inondato di una responsabilità per la quale non era pronto e deglutì, a disagio, il tè che si freddava nella tazza, il panico che si faceva strada nel suo petto.
Aveva paura di quello che provava per Sherlock, paura di poter soffrire di nuovo, tutto da capo, tutto come una volta.
« In tutto questo tempo- »
« Sherlock, io non- »
Si parlarono sopra, come due ragazzini imbarazzati, e fu quello sguardo complice che si lanciarono dopo – risero come era successo secoli prima, a Buckingham Palace – che fece capire a John che qualsiasi cosa avesse tentato per evitarlo, ormai c’era caduto dentro con tutte le scarpe.
« Vuoi dirmi che cosa hai portato per Sherry? » domandò poi, ancora incredulo che Sherlock potesse pensare di regalare qualcosa a qualcuno.
Lui fece un sorrisetto e lo guardò con quell’aria di superiorità a cui John era così abituato. Dio, se gli era mancato.
« Niente di niente. Solo un gioco. »
« Tu non fai giochi. Non con i bambini almeno... e a proposito, non mi avevi mai detto che ti piacciono i bambini! »
Sherlock sorseggiò il suo tè con tutta calma. « Ma infatti li detesto. Sono inutili. »
« Però Sherry ti piace » replicò John, guadagnandosi un’occhiataccia.
« Non è quel che si dice un bambino normale. È intelligente. »
« Perché i bambini normali sono stupidi » convenne John, una punta di ironia che il compagno non colse, o più probabilmente decise di ignorare.
« Oh, sai, tutte quelle sciocchezze, Babbo Natale, il Coniglio Pasquale, la cicogna, il Topino dei Denti... Chiunque sa che non sono reali, ma i bambini ci credono. »
« Si chiama fantasia, Sherlock. Immaginazione. »
« Io ho molta immaginazione. Nel mio lavoro è essenziale. »
John sorrise, pensando che quella conversazione avrebbe potuto benissimo aver avuto luogo cinque anni prima, a Baker Street, in un giorno di calma piatta. « Non è proprio la stessa cosa... » commentò con tono pacato. « L’immaginazione dei bambini è qualcosa di immenso e incomprensibile. »
Sherlock si bloccò all’improvviso nel gesto di portare la tazza al volto e spostò il suo sguardo su John.
Quasi sentì gli ingranaggi del suo cervello fare “click”: gli occhi brillavano di interesse e aspettativa, per un attimo smisero di guardare John e se ne andarono molto lontano, in un luogo della sua mente che a John sarebbe sempre stato precluso.
« Sherlock- »
« Chiaro. Quasi palese, direi... Vedi, John! Sapevo di aver bisogno di te! » poi si alzò e schizzò via.
Non ci fu altro modo per descrivere la sua precipitosa fuga: afferrò il cappotto e quasi corse verso la porta, uscendo a precipizio dall’appartamento.
John lo fissò a bocca aperta, incredulo, senza avere nemmeno il tempo di alzarsi.
L’unica cosa che trovò intelligente fare fu affacciarsi alla finestra. Sherlock era fermo in mezzo alla strada, cercando di catturare un taxi. Sollevò la testa verso di lui e sorrise, gridando: « Grazie, John! »
Immaginò di avere involontariamente condotto la mente di Sherlock alla risoluzione di un caso in cui era invischiato, grazie ad una serie di parole accidentali, come spesso era successo negli anni precedenti. Il familiare senso di soddisfazione lo colse del tutto impreparato, ma lo fece sorridere.
« Hai promesso di darmi un regalo! » giunse la vocetta acuta di Sherry dal piano di sopra.
Ma Sherlock era già infilato dentro al taxi che stava ripartendo e non rispose.
Nell’ora successiva John fu costretto ad avere a che fare con un bambino capriccioso e arrabbiato, e a nulla valse la spiegazione che diede: “devi farci l’abitudine, lui è fatto così”. Perché in effetti fino ad allora l’unico che era riuscito a fare l’abitudine alle fughe improvvise, ai concerti di violino nel cuore della notte, ai silenzi lunghi e spossanti, alle occhiate di superiorità, era stato – e iniziava a pensare che sarebbe stato per sempre – soltanto John.
Ma c’erano anche i lati positivi: la profonda familiarità, i sorrisi complici, la comprensione pressoché istantanea... tutte cose da riscoprire, in modo diverso, nuovo e affascinante, proprio come Sherlock sapeva essere. E infine quel sentimento nuovo, quel desiderio nato da poco, quel bisogno sottile e costante, tutte cose delle quali John ormai non poteva di più fare a meno.
E pensare che era bastata una chiacchierata con una vecchia madre isterica e preoccupata!

 

 

 

 

Note Finali:
John Watson e il ritorno di Mamma Holmes. Brrrr.
E siccome mi è stato chiesto, confermo che Daralis è un nome realmente esistente, così come sono nomi realmente esistenti quelli di Mycroft e di Sherlock. Un po' antiquati tutti e tre, immagino, ma esistenti.

Gente, manca un solo capitolo. Dio, mi sto commuovendo da sola. Che cosa patetica.

  
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