"Guarda, Chobi, guarda."
Non era una finestra grande, nemmeno troppo pulita. Il vetro era chiazzato da puntini argentei figli delle bianche nuvole e del cielo. Ho imparato che gli umani, come la mia padrona, li chiamano "pioggia" e ne hanno paura. Da quell'angolo trasparente ritagliato nel rosso dell'edificio potevo vedere strani cerchi multicolori correre ovunque mano per mano con gente diversa per ognuno, o anche due persone a volta. Solo qualche temerario affrontava la tempesta coprendosi la testa con vestiti, mezzi di fortuna o senza proteggersi.
E io guardavo. Non mi è mai importato troppo dell'esterno, felice già solo con la presenza di lei. Ma il suo profumo, la costante lotta tra l'inanimato e la natura, lo spettacolo vivace sotto una distesa indaco macchiata solo dal panna scuro mi faceva amare quei minuti ormai impressi nella memoria. Voleva dirmi di avere a cuore il mondo con tutto me stesso, l'odore di erba appena tagliata e il suono del treno che prende ogni mattina, o rivelarmi il contrario?
Riuscì a trovare risposta solo dopo la sua morte.
La padrona morì in Gennaio. Era una giornata fredda e scura, ma quella volta non pioveva. Non pioveva da molto tempo nonostante fosse inverno. L'universo aveva voluto regalarci un ultimo, distante momento di intima tenerezza e gioia prima di portarmela via. Non ricordo se sorridesse o mormorasse qualcosa, prima di addormentarsi, so solo che non potrò vedere le sue labbra sottili muoversi o sentire la sua voce mai più, e qualsiasi cosa avesse detto sarebbe comunque stato così. Il mondo gira sul suo asse. Crudelmente, instancabilmente. Io con lui.
Poi, dopo un'attesa interminabile, qualcosa cominciò a colpire con forza la nostra, mia, finestra. Una dopo l'altra quelle perle lucenti come ghiaccio alla luce nascente del mattino erano tornate per noi. Per me. Non riuscivo a crederci, osservavo il meraviglioso scenario ripetersi ancora una volta. Soltanto ammirando il paesaggio cambiare rapidamente, mi trovai proprio lì, dove lei voleva fossi quel giorno. L'aria correva insieme alle mie zampe, portandomi il fresco della pioggia ovunque sul corpo. Continuai ad andare avanti, un passo per quei ricordi preziosi, un altro per il futuro che non volevo arrivasse mai, ora umido di pozzanghera. Una volta mi riparai sotto un po' di giallo, accanto ad una bambina; altra con un ragazzo a cui piaceva il nero, saltando ovunque sull'infinito grigio del marciapiede o rotolandomi nel fango di un'aiuola. Quelle bianche linee sulle strada, mi erano sempre piaciute. Questo mondo, io-
Non so di preciso cosa fosse. Dolore. Si, doveva essere questo. Dolore. Alla coda, alla schiena, dolore ovunque. La luce accecante che sta scappando via da me, devo rincorrerla? È questo che devo fare? Così, con le ultime forze, provai a muovermi ma soltanto gli occhi si socchiusero. L'indaco sopra di me, i fiori, la gente che correva, la mia vita, lei, furono più veloci e svanirono nel fulgore.



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Uhm, salve! È una fic che scrissi molto, molto tempo fa, ma di cui non mi sono mai liberata, per così dire. Non importa quante volte la rilegga, c'è sempre qualcosa che mi sembra manchi, e nulla che mi sembra poter aggiungere. Lascio a voi il giudizio. Soprattutto, spero abbia incuriosito qualcuno e l'abbia spinto a guardare Kanojo no Neko; sono pochi minuti che meritano c: