1- GOODMORNIG
WORLD
Tutt'intorno a me si
stagliavano i meravigliosi campi che avevo visto quel pomeriggio in un
quadro
del libro di storia dell'arte.
Non sapevo perché fossi finita in un posto del genere, ma mi
piaceva. La
natura, il cielo che si allungava verso l'orizzonte infinito, il
vociare di
bambini allegri mi trasmetteva pace e
tranquillità.
Mi sedetti sotto un grosso albero e puntai lo sguardo verso il cielo.
Non mi
ero mai soffermata a guardarlo così a lungo e di sicuro in
città non si poteva
avere una vista così eccezionale. E solo dopo quasi diciotto
anni di vita, mi
accorsi che il cielo d’inizio settembre era davvero stupendo.
Era terso, senza
una nuvola, e il sole rendeva l'azzurro acceso e brillante. C'erano
davvero una
quiete e una pace senza precedenti, almeno per me.
Sarebbe stato perfetto poter condividere quel momento con qualche
amica, o
anche con un cane. Ma, come mi ricordò una vocina fastidiosa
che avrei
volentieri soppresso, io non avevo nessun amico. E come potevo, dopo
l'ennesimo
trasloco da una città che era stata la mia solo per nove
mesi? E,
sfortunatamente, non avevo neanche un cane: mia madre era allergica a
qualunque
forma non umana di essere vivente. Odiava anche i pesci, quindi anche
solo
l'idea di avere un cane in casa la faceva rabbrividire.
Sbuffai, incrociando le braccia e cercando dei pensieri positivi. Non
potevo
rovinarmi un sogno così bello con certi pensieri!
Mi alzai e m’incamminai verso il bosco. Presi il primo
sentiero che trovai e
rimasi subito incantata da quello che mi circondava. La luce del sole
che
filtrava attraverso le foglie creava un'atmosfera quasi magica,
surreale. Il
rumore dei rami mossi dal vento era un suono veramente rilassante e
pensai che
mi sarebbe piaciuto visitare un posto simile anche nella
realtà.
Continuai a camminare con la testa per aria, ammirando ogni piccolo
dettaglio a
bocca aperta. Mi fermai quando, tra i rami, vidi una piccola
costruzione di
legno, probabilmente un vecchio rifugio per i cacciatori. Curiosa,
cercai un
passaggio tra gli arbusti e in poco tempo la raggiunsi, rendendomi
conto di
come fosse veramente ridotta male. Doveva essere abbandonata da molto
tempo
perché il tetto era praticamente distrutto e il legno quasi
tutto marcio.
Tuttavia, l'atmosfera che creava con il bosco intorno mi piacque
tantissimo.
Sembrava la casetta dei sette nani.
Lentamente e cercando di non distruggere nulla, aprii la porta
sgangherata ed
entrai. L'interno era quasi del tutto spoglio. C'erano solo un paio di
sedie di
legno in mezzo alla stanza, qualche ceppo di legno abbandonato accanto
alla
parete e un camino.
Feci un passo avanti ma un suono continuo e fastidioso
incominciò a rimbombarmi
nelle orecchie e, guardandomi intorno, realizzai come le cose fossero
diverse.
Il bosco con la casetta era sparito, lontano centinaia, migliaia di
chilometri
così come i campi, il cortile e i bambini. Tutto il verde
scomparve, rivelando
il grigiore della città, i palazzi alti quasi quanto il
cielo, i pochi alberi
uccisi dallo smog e macchine, tantissime macchine. Quel cambiamento
repentino
mi aveva lasciato senza fiato e, cercando di ignorare quel rumore che
si era
fatto assordante, incominciai a correre alla ricerca di uno spazio
verde come
quello che avevo abbandonato prima di entrare nel bosco. Mi sarei
accontentata
anche di un parchetto per bambini.
E invece, più correvo, più tutto diventava grigio
e triste. La strada davanti a
me sembrava infinita e piena di mezzi di ogni tipo.
Mi voltai a destra e vedendo un qualcosa di verde, iniziai a correre.
Voltai l'angolo e...
"Bit,
bit. Bit, bit. Bit, bit".
"Stupida sveglia", sbottai spegnendola con un
pugno e sospirando
al ricordo del sogno. Forse era meglio che fosse finito: si stava
trasformando
decisamente in un incubo e la mia vita era abbastanza disastrata per
aggiungerci anche quello.
Sbuffando scostai il lenzuolo e mi sedetti sul letto, accendendo la
luce.
Non erano neanche le sette del mattino ma, se non mi fossi sbrigata,
avrei
perso il pullman il primo giorno di scuola.
Sbadigliando, mi alzai dal letto e, mentre m’incamminavo
verso il bagno,
inciampai in uno scatolone messo in mezzo al corridoio. Nonostante ci
fossimo
trasferiti da quasi due settimane, la casa era ancora un disastro.
Scatoloni di
dappertutto, oggetti messi alla rinfusa in posti dove non dovevano
stare e, ma
quella non era una novità, il frigo vuoto.
Sospirai, annotandomi mentalmente che, tornata da scuola, sarei dovuta
andare a
fare la spesa, prima di ricordarmi che non sapevo nemmeno dove fosse il
supermercato in quel posto. In realtà, non sapevo nemmeno se
ci fosse. Era un
piccolo paesino di campagna, circondato dai campi come quelli del mio
sogno e
accanto all'autostrada che portava in città. Effettivamente,
c'era quasi tutto.
Negozi, un benzinaio,
piccoli bar, scuola elementare e media. Ovviamente, il liceo era in
città e per
arrivarci avrei dovuto prendere uno stupidissimo pullman affollato e
lento che,
se non mi fossi data una mossa, avrei perso di sicuro. Non che l'idea
di andare
a scuola mi entusiasmasse: certo, mi piaceva studiare e avevo buoni
voti in
tutto -tranne che in matematica-, ma odiavo il dovermi relazionare con
gli
altri.
Mentre mi lavavo i denti, pensai che fino a qualche anno prima ero la
ragazza
più solare ed estroversa che questo mondo. Poi erano
incominciati i traslochi,
i continui cambiamenti e anche quelli che prima consideravo amici alla
fine mi
avevano dimenticata.
Scesi in cucina per preparare la colazione e, sbuffando, pensai a
quanto tempo
mia madre avrebbe resistito in quel posto. Nell'ultimo ci eravamo
rimasti nove
mesi, in quello prima sei, in quello prima solo quattro e gli altri
ormai non
li ricordavo più. Scossi la testa, cercando di cancellare
quei pensieri.
Era un nuovo inizio, ma non riuscivo a essere ottimista.
Avrei cominciato la quarta liceo in un paese nuovo, con persone nuove e
in una
classe che si conosceva da quattro anni. Nonostante sapessi quanto
fosse
autolesionista, non volevo farmi nessun vero amico: sarebbe stato
ancora più
difficile doverlo lasciare se avessimo di nuovo traslocato.
Però sarebbe stato
difficile evitare di avere dei contatti con loro ed era questo che
m’innervosiva. Ormai non riuscivo più a fare
amicizia con nessuno. Tendevo ad
allontanare chiunque mi si avvicinasse e, alla fine, dopo un po' di
rifiuti,
anche quello smetteva di provarci. Ma solo io sapevo quanto questo mi
desse
fastidio.
L'arrivo di mio fratello in cucina mi distolse dai miei pensieri e mi
affrettai
a mettergli davanti la colazione per andare a prepararmi.
Tutti quei pensieri mi stavano facendo fare tardi e, continuando in
quel modo,
avrei perso di sicuro il pullman.
Infilai velocemente un paio di jeans, una camicia a maniche corte e la
felpa,
presi lo zaino e corsi fuori di casa. La fermata non era lontana e
avevo ancora
quasi dieci minuti, ma era meglio arrivare in anticipo che in ritardo.
Mio fratello, che avrebbe frequentato il secondo anno di
università, avrebbe
iniziato la scuola ad ottobre ma, per pagarsi quel rottame di
automobile che si
era comprato, era costretto a cercarsi un lavoro e presumevo che
avrebbe
iniziato il suo giro proprio quel mattino. Evitai di pensare a mia
madre: non
sapevo se era in casa, ma sinceramente non m'interessava. Se l'avessi
incontrata, avremmo litigato per l'ennesima volta e non ero dell'umore
giusto
per discutere con lei.
Il pullman arrivò in perfetto orario e alla mia fermata
salirono una ragazza e
un paio di ragazzi, che si sedettero in fondo con i loro amici. Io
occupai il
primo posto libero che trovai, presi l'I-pod e accesi la musica,
estraniandomi
dal mondo. Avevo più di mezz'ora di viaggio e tutto il tempo
per ripetermi quel
poco che sapevo su quella scuola.
Avrei frequentato lo stesso indirizzo di quella vecchia, socio
psicopedagogico
ed ero nella classe 4SC. In classe eravamo in ventidue, di cui cinque
ragazzi,
una vera rarità per questo indirizzo ma cercai di non darci
troppo peso.
L'ultimo vero ragazzo risaliva a
tre
anni prima e mi aveva lasciata dopo aver conosciuto per caso mia madre,
dicendomi che non gli piacevo più ma che saremmo potuti
rimanere amici.
Ovviamente, non mi aveva più richiamata e non lo avevo fatto
nemmeno io. Non ne
valeva la pena e, dopo di lui, Mattew si chiamava, non avevo cercato
più
nessuno: sapevo che avrei dovuto troncare entro poco e sarebbe
equivalso a
soffrire per niente.
Arrivammo a scuola che mancavano venti minuti all'inizio delle lezioni
e mi
fermai un attimo davanti al cancello prima di entrare. La scuola era
veramente
grande ed era costruita all'interno di un grosso parco di una villa,
dalla
quale prendeva il nome. I muri erano grigio chiaro, coperti qua e
là da
graffiti colorati e, almeno per la maggior parte, senza senso.
Entrai nell'istituto e mi guardai intorno. Nonostante mancasse ancora
tempo al
suono della campana, i corridoi erano pieni di ragazzi che parlavano e
ridevano, creando un'atmosfera accogliente.
Senza sapere dove andare, presi il primo corridoio e iniziai a
percorrerlo,
sicura che avrei trovato la classe, prima o poi. Invece quella scuola
era un
vero labirinto. C'erano scale su scale e corridoi su corridoi e, dieci
minuti
dopo, mi ritrovai a passare per l'ennesima volta davanti all'entrata.
Possibile
che non avessi ancora trovato quella stupida classe?
Mancavano cinque minuti al suono della campana e stavo iniziando a
innervosirmi. Quella giornata non era iniziata per niente bene, tra lo
scatolone, la fretta e il sogno. E adesso rischiavo di arrivare in
ritardo
perché continuavo a perdermi.
Decisi di provare un’altra volta a cercarla da sola,
prendendo i corridoi dalla
parte opposta rispetto a dov'ero venuta ma, voltandomi, andai a
sbattere contro
qualcuno che ebbe i riflessi abbastanza pronti da afferrarmi per un
braccio
prima che cadessi per terra.
"Tutto bene?".
Alzai la testa e mi trovai davanti un ragazzo davvero alto, biondo e
con gli
occhi castani. Era molto carino e, solo quando registrai questo
dettaglio, mi
accorsi di essermi spalmata addosso a lui per evitare di cadere.
"Sì, sì, scusa", mormorai allontanandomi. Non ero
più abituata ad
avere a che fare con ragazzi a una distanza così ravvicinata
e mi sentivo
parecchio imbarazzata, soprattutto per il fatto di averlo quasi
investito.
Il ragazzo mi sorrise e mi porse una mano. "Io sono David. Sei nuova?
Non
ti ho mai vista".
Annuii e feci un mezzo sorriso, stringendogli la mano. "Mi sono appena
trasferita".
David continuò a sorridere, come se aspettasse qualcosa.
Lo guardai interrogativa. Non toccava a lui fare una domanda, adesso?
"Non mi hai detto come ti chiami", mi ricordò.
Mi diedi mentalmente della stupida. "Amanda".
"Piacere, Amanda".
Il mio nome pronunciato dalla sua voce aveva un bel suono. Anzi, David
aveva
una bella voce, oltre che a essere carino.
La campanella suonò e David si guardò intorno.
"Ci vediamo in giro”,
disse facendomi l'occhiolino.
Annuii e gli sorrisi, ricordandomi solo quando ebbe girato l'angolo che
io
ancora non sapevo dove fosse la mia classe. M’insultai di
nuovo, dandomi della
stupida per non averglielo chiesto.
Sbuffai e mi diressi verso la segreteria, sperando almeno di trovarla.
Ci arrivai dopo aver sbagliato strada due volte e, finalmente, scoprii
che la
mia classe era la prima appena girato l'angolo.
Cercai di ignorare il pensiero di esserci passata davanti almeno tre
volte e
m'incamminai subito, trovando la porta già chiusa.
"Merda", sbottai, preparandomi a bussare, quando qualcuno mi
scostò
malamente dalla porta, bussando una volta e aprendola senza aspettare.
"Colpa del pullman", disse appena entrato in classe. Era un ragazzo
alto, moro e decisamente stupido, visto che non si era nemmeno accorto
di me.
Mi feci coraggio ed entrai, bussando di nuovo per attirare l'attenzione
del
professore, un uomo sui cinquant'anni, alto e abbastanza robusto che
era seduto
sulla cattedra.
"Salve", dissi entrando.
Il professore mi squadrò, poi mi sorrise. "Tu devi essere
Amanda, la nuova
ragazza. Ti stavamo aspettando".
Sorrisi e annuii. "Scusi per il ritardo ma non riuscivo a trovare la
classe".
L'uomo annuì, facendomi segno di sedermi.
C'era solo un posto libero ed era in prima fila, accanto a una ragazza
bionda,
con due occhi azzurrissimi e un sorriso veramente dolce.
"Ciao, io sono Elisabeth, ma puoi chiamarmi Liz", mi disse quando mi
sedetti, porgendomi la mano.
Le sorrisi e gliela strinsi. Va bene che non dovevo sbilanciarmi troppo
con
nessuno, ma almeno con la mia compagna di banco dovevo scambiare
qualche
parola. "Amanda", risposi, cercando di non sembrare troppo fredda.
Il professore, che poi era l'insegnante di storia e filosofia, riprese
l'attenzione della classe e, dopo aver parlato delle vacanze,
iniziò a farmi le
solite domande.
"Vieni dallo stesso indirizzo?".
Annuii e spiegai brevemente del trasloco e del cambiamento.
Fortunatamente non
mi chiese nulla di personale e, dopo qualche altra curiosità
sulle sue materie,
decise di iniziare a spiegare. Avevamo due ore con lui quel giorno e
non potevamo
di certo passarle a fare niente.
Iniziò con filosofia e riprese un autore che avevo
già studiato. Mi piacque
subito come spiegava e come interagiva con la classe, rendendo la
lezione
interessante. Alla fine delle due ore scoprii che per quel giorno
avremmo avuto
matematica, inglese e psicologia.
Inglese e psicologia non mi preoccupavano. Era matematica a
terrorizzarmi e mi
terrorizzò ancora di più l'insegnante che
entrò dalla porta quando suonò la
campanella.
Era una donna di mezza età, bassa, bionda e con due occhi
talmente azzurri e
penetranti da far paura. Al suo ingresso, la classe si zittì
e tutti si
alzarono in piedi. Li imitai, pentendomi di essermi messa in prima
fila.
La donna prese delle schede dalla borsa e guardò la classe
con sguardo di
sfida.
"Sono convinta che voi abbiate studiato parecchio questa estate,
soprattutto quando siete rimasti a casa, quindi vi ho preparato una
piccola
sorpresa. Separate i banchi".
Lanciai uno sguardo terrorizzato a Liz e pensai per l'ennesima volta
che quella
giornata sarebbe finita male.
Ci dividemmo in silenzio e, quando guardammo la verifica, si
levò un lamento
generale.
Provai a capire il primo esercizio, ma non riuscivo a capire nemmeno di
che
argomento si trattasse. Seno? Coseno? L’Arcoseno
dell’angolo β? Mi veniva da
piangere solo a leggere quelle cose, figurarci con tutti i numeri e i
simboli.
“Ehm, scusi”. Attirai l’attenzione della
donna, che parve accorgersi di me solo
in quel momento, con
un colpo di tosse.
“Sei nuova?”, mi chiese sistemandosi gli occhiali.
Annuii. “Penso di non avere fatto questi
argomenti”, spiegai.
Lei si limitò a guardarmi negli occhi per un paio di
secondi, per poi sbuffare
e prendermi il foglio dalle mani. “Fai altro, ma non
disturbare. In fondo,
questa punizione non è per te”.
Accartocciò il mio compito e, dopo averlo
gettato nel cestino, si sedette alla cattedra e puntò gli
occhi verso la
classe, osservando tutti talmente attentamente che nessuno avrebbe
potuto
nemmeno spostarsi senza che lei lo vedesse.
Al suono della campanella, la tensione in classe si era allentata,
forse anche
grazie all’inizio dell’intervallo.
“Vieni con noi?”, mi chiese Liz, indicando due
ragazzi fermi sulla porta.
Riconobbi il moro che mi aveva spinta contro la porta e il suo compagno
di
banco.
Pensai a David e al fatto che non sapevo nemmeno dove trovarlo.
Alzai le spalle e li seguii.
Liz si aggrappò al braccio del compagno di banco del moro,
Charlie, se non mi
ricordavo male, e dalle occhiate che si lanciavano capii subito che
stavano
assieme.
Il moro, Adam, mi camminava a fianco, dietro ai due piccioncini e si
rigirava
tra le dita una cartina e il tabacco. A differenza
dell’amico, che si era
presentato sorridendo, lui mi aveva lanciato uno sguardo arrabbiato,
limitandosi a dirmi il suo nome.
Seguendo Liz e Charlie uscimmo in giardino e ci sedemmo sulle scale.
Adam iniziò a prepararsi il suo drum in silenzio, mentre gli
altri due si
appiccicarono più di prima, ignorandomi. Alla fine, non mi
dispiaceva così
tanto quel distacco. In quel modo non sarebbe stato difficile non farsi
amici e
limitarsi ad essere compagni di classe.
Fui distratta dai miei pensieri da un gesto veloce della mano di Adam,
che mi
mise davanti alla faccia la sigaretta. “Vuoi fare un
tiro?”, mi chiese sputando
fuori il fumo.
Annuii e presi la sigaretta tra due dita. Era da molto che non fumavo e
la cosa
non mi era mai pesata, però quando ero nervosa mi rilassavo
facilmente con una
sigaretta.
“Grazie”, dissi restituendogliela.
Adam fece un altro tiro, poi piegò le labbra in un mezzo
sorriso. “Mi dispiace
di non essere di compagnia, oggi”, disse spegnendo la
sigaretta sotto la
scarpa.
Scossi la testa, ignorando il motivo di quell’
“oggi”. “Non è un
problema”.
Fece per rispondere, quando mi sentii chiamare e voltai la testa
dall’altra
parte, trovandomi davanti David, sorridente e in compagnia di altri
due
ragazzi. Mi bastò un’occhiata veloce per capire
che quei due erano gente da cui
stare alla larga: occhi lucidi e sguardo stralunato, prove perfette per
dire che
quello che avevano fumato non erano semplici sigarette.
“Ciao, Amanda!”, mi salutò David con un
sorrisone. A differenza dei suoi
amici, lui sembrava perfettamente lucido.
“Ciao”, risposi senza scompormi. Non per
cattiveria, ma non ero stupida ed era
ovvio che David non mi cercasse per la mia simpatia e io non volevo
soffrire,
affezionandomi di nuovo a una persona che poi avrei dovuto lasciare.
“Finalmente ti ho trovata!”, disse tutto contento,
sedendosi davanti ad Adam
che scambiò un’occhiata con Charlie.
“Non sapevo dove cercarti”, ammisi.
“Ne vuoi un pezzo?”, mi chiese, offrendomi un pezzo
di cioccolato.
Se c’era una cosa alla quale non sapevo dire di no, quella
era il cioccolato e
annuii, allungando la mano.
David spezzò un generoso pezzo dalla sua barretta e me lo
diede, senza
smettere di sorridere.
“Mi hai detto che sei nuova. Raccontami qualcosa”,
disse dando un morso al
cioccolato.
Mi bloccai con la mano a mezz’aria e indurii lo sguardo. Se
c’era una cosa che
odiavo, invece, erano i ragazzi insistenti e invadenti. Ovviamente
David non
poteva sapere quanto la cosa mi desse fastidio, ma non potei fare a
meno di non
rispondere, sentendo un groppo in gola.
David aprì la bocca per parlare ma il suono della
campanella mi salvò da
quella situazione e, come se mi avesse letto nel pensiero, Liz mi
afferrò per
un braccio e mi fece alzare di forza.
“Ciao”, mi limitai a salutarlo, notando solo in
quel momento che David non
aveva per nulla considerato i miei compagni e che loro si erano fatti
silenziosi
da quando lui era arrivato.
David mi salutò con una mano e sospirai, pensando che, alla
fine, il mio piano
stava andando a buon fine. Avevo già allontanato una persona
scomoda, che di
sicuro avrebbe potuto essere un buon amico, ma allora perché
mi sentivo uno
schifo?
Buttai il resto del cioccolato nel primo cestino che trovai, sentendomi
davvero
un’idiota per come mi ero comportata. David era stato
gentilissimo fin dal
primo momento, mi aveva offerto la sua merenda e aveva cercato di fare
conversazione. Il problema era che sapevo che il suo fine non era solo
conoscermi e diventare mia amica e io mi conoscevo abbastanza da sapere
che se
avessi fatto avvicinare qualcuno fino a quel punto, sarei uscita
bruciata
all’ennesimo trasloco. Di bene in meglio.
Era talmente sovrappensiero che mi accorsi che ci eravamo fermati in
mezzo al
corridoio solo quando Liz lasciò la presa sul mio braccio e
mi guardò seria.
“Lascialo perdere”, mi disse senza mezzi termini
Liz.
La guardai confusa, capendo solo dopo qualche secondo che si stesse
riferendo a
David. Scrollai le spalle. “Non mi interessa”, le
rivelai con una smorfia.
“Meglio”, intervenne Charlie, lanciando
un’occhiata a Adam che sembrò
risvegliarsi solo in quel momento dai suoi pensieri e annuì
debolmente, quasi
disinteressato.
“Torniamo in classe”, disse Liz sospirando, come se
si fosse tolta un enorme
peso.
Mi prese per mano e lasciò indietro il suo ragazzo che, con
la coda
dell’occhio, vidi mentre dava una pacca sulla spalla
all’amico. Per un istante
ripensai a quello che mi aveva detto e giunsi alla conclusione che
doveva
essergli successo qualcosa di brutto, ma fui distratta dalla voce di
Liz, che
commentava sconsolata la verifica di matematica.
“A proposito. Posso sapere perché vi ha fatto una
verifica il primo giorno di
scuola?”.
Liz scoppiò a ridere, seguita da Charlie che ci aveva
raggiunto insieme ad
Adam. “L’anno scorso, abbiamo saltato tutti il
giorno dell’ultima verifica di
matematica”, mi rispose Charlie. “Non ci ha
più detto niente e non pensavamo
che se la fosse legata al dito per tutta l’estate”.
Risi anch’io, pensando a quello che Charlie mi aveva appena
detto. Doveva
essere davvero bellissimo fare parte di una classe vera, con veri amici
e
persone che ti sostengono in ogni momento. Erano davvero molto
affiatati, lo
dimostrava il fatto che avevano bigiato una giornata tutti assieme,
accettandone le conseguenze.
Sospirai ed entrai in classe.
Quel giorno ero davvero di cattivo umore e dovevo smetterla di pensarci
costantemente. Rimuginare sul passato e su quello che era successo
serviva solo
a ridurmi i nervi a pezzi.
Un tuono lontano mi fece sobbalzare sulla sedia e guardai fuori dalla
finestra,
accorgendomi solo in quel momento che il cielo si era fatto scuro e
minaccioso.
“Fantastico”, mugugnai, pensando che non avevo
l’ombrello e dovevo tornare a
casa a piedi.
Continuò a tuonare fino alla fine delle lezioni e solo
quando uscimmo
dall’edificio si scatenò una vera tempesta, che
rendeva inutili anche gli
ombrelli.
Corsi fino al pullman e dovetti stare in piedi, con i capelli tutti
bagnati e
lo zaino in spalla.
Arrivai a casa con venti minuti di ritardo a causa di un incidente che
ci aveva
costretti a cambiare strada e completamente bagnata. I piedi mi
nuotavano nelle
scarpe allagate e lo zaino era talmente bagnato da avere rovinato
alcuni libri.
Appena entrai, mollai lo zaino per terra e corsi a farmi una doccia
calda.
Uscii dal bagno dopo venti minuti completamente rilassata e soprattutto
riscaldata. Indossai direttamente il pigiama e feci per entrare in
camera ma
una borsa di pelle bianca in bella vista sul tavolo del soggiorno mi
bloccò in
mezzo al corridoio.
Cosa ci faceva a casa mia madre alle tre del pomeriggio?
“Ah, sei qui”, una voce scocciata mi fece voltare
verso la cucina e la trovai
intenta a rovistare nel frigorifero. “Non hai fatto la
spesa”, sbottò chiudendo
con forza la porta e aprendo la dispensa in cerca di qualcosa di
commestibile.
“Sono appena tornata da scuola”, le feci presente
cercando di mantenere un tono
calmo e di non aggredirla subito. Odiavo quando si comportava da
vittima in
quel modo, come se lei non avesse potuto fermarsi in un supermercato e
comprare
qualcosa.
“E sei già in pigiama”, disse
guardandomi e alzando gli occhi al cielo.
“Ho fatto la doccia”, le risposi indicando i
capelli bagnati. Il discorso stava
prendendo davvero una brutta piega e non me la sentivo proprio di
litigare,
sapevo già come sarebbe finita.
“Devo fare sempre tutto io”, esclamò
facendo sbattere l’anta della dispensa e
fulminandomi con lo sguardo. “Ho lavorato fino ad adesso e
devo anche pensare a
voi due. Guarda, quell’idiota di tuo fratello non
è ancora arrivato!”.
Incrociai le braccia e strinsi i pugni. “Alex è
andato a cercarsi un lavoro, te
l’ha detto ieri sera”, sibilai chiedendomi come una
madre potesse addirittura
dimenticarsi gli impegni del figlio. Potevo capire che i suoi orari di
lavoro
erano improponibili, dovendo mantenere me e mio fratello da sola, senza
nemmeno
l’aiuto di mio padre che, di sicuro, in quel momento era da
qualche parte a
divertirsi. Ma non potevo accettare il suo comportamento: avere tanti
impegni
non le permetteva di scordarsi di avere due figli, anche se Alex aveva
quasi
vent’un anni. Mio fratello non si era mai lamentato e cercava
di pagarsi gli
studi lavorando, chiedendo a nostra madre il meno possibile. Ne io ne
mio
fratello sapevamo cosa facesse la sera dopo il lavoro ordinario al
supermercato,
ma portava a casa i soldi per pagare le bollette e se voleva mantenere
il
segreto, era liberissima di farlo. Molte volte avevamo litigato per
questo: lei
non c’era mai e costringeva noi a fare tutto, pretendendo
addirittura più del
normale. Come in quel momento.
“Io vado”, disse ignorando la mia risposta e
infilandosi la giacca di pelle
sopra il vestito. Mia madre era ancora una bella donna, aveva quasi
quarantacinque anni ma aveva un fisico da ventenne, completamente
naturale, due
occhi azzurri stupendi e i capelli neri, lunghi fino alla vita e sempre
perfetti.
“Scommetto che neanche oggi sai a che ora tornerai,
vero?”, chiesi, acida.
Mia madre mi lanciò uno sguardo di sbieco che non seppi
interpretare e mi
allungò una banconota da venti. “Vai a fare un
po’ di spesa”, disse prima di
sparire dietro la porta.
Sbuffai e mi lasciai cadere sul divano, stropicciando nel pugno quei
maledetti
soldi.
Odiavo quella situazione.
Odiavo il fatto che mia madre doveva spaccarsi la schiena di lavoro
ogni giorno
perché mio padre non voleva pagare gli alimenti.
Odiavo quello che era diventata mia madre negli anni, una donna cinica
e
fredda, imperturbabile e sconosciuta a ogni sentimento.
Odiavo quello che per colpa sua stavo diventando io. Non avevo mezzo
amico per
colpa dei continui spostamenti e ogni volta che ci pensavo mi sentivo
più
insicura di quella precedente. Con
il
tempo avevo imparato ad estraniare quell’insicurezza e avevo
creato un muro
invalicabile, esattamente come mia madre e questa era
l’ultima cosa che volevo.
Diventare come lei era l’ultimo dei miei desideri e mi odiavo
perché non
riuscivo ad impedirmelo, nonostante tutto.
Mi rivestii in fretta e uscii sotto la pioggia alla ricerca di un
supermercato.
Mancavano solo sei mesi a marzo e ai miei diciotto anni e finalmente
avrei
potuto fare la patente.
Arrivai a casa ancora completamente bagnata e più irritata
di prima. Sistemai
la spesa in cucina, salutai mio fratello che si era già
piazzato davanti alla
televisione e mi chiusi in camera.
Cuffiette, musica a palla e un romanzo. Questo era l’unico
modo che avevo per
estraniarmi, per non pensare e per rilassarmi.
Dopo un centinaio di pagine mi addormentai sul libro, cullata dalle
note di una
delle mie canzoni preferite e dal desiderio di un futuro diverso. Poco prima di cadere nel
mondo dei sogni,
ripensai al mio primo giorno di scuola, alla mia classe e a David.
Quel
ragazzo mi piaceva. Era carino e simpatico e mi aveva accolto come mai
nessuno
prima d’ora e, per la prima volta dopo anni, sentii i bisogno
di calore umano e
di affetto, qualcosa che i libri non potevano darmi.
Buon pomeriggio!
È la prima storia originale che scrivo, quindi metto subito
le mani avanti,
avvertendovi che non sarà niente di speciale. Una semplice
storia d’amore, con
i suoi problemi, le sue bellezze e la sua quotidianità.
Almeno dal mio punto di
vista.
Un capitolo un po’ lungo, come inizio, ma non mi piace
spezzarli, quindi spero
che non vi abbia annoiato e che abbia almeno un po’
incuriositi. Mi sto
affezionando molto a questi personaggi, e il mio obiettivo e quello di
farvi
conoscere un pezzettino del loro mondo. Per questo vi prego di non
esitare a
lasciarmi commenti, consigli, critiche: accetto qualunque osservazione,
ovviamente nei limiti dell’educazione.
Aspetto con ansia i vostri pareri.
Ah, pubblicherò una volta a settimana, salvo imprevisti
(cioè la scuola), ma
intanto ne approfitto per farvi i più sentiti auguri di Natale, a voi, alle vostre
famiglie, ai vostri amici e, perché no,
ai vostri animali!
A presto
Mikchan