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Autore: mikchan    23/12/2012    2 recensioni
Le favole iniziano nel momento in cui ti addormenti e finiscono quando apri gli occhi. L'età dei sogni, però, presto finisce, e ci si ritrova a vivere in una realtà completamente diversa da quella raccontata nelle storie. E anche Amanda ha imparato a non credere più nelle favole, scoprendo un mondo reale crudele, dal quale ci si deve proteggere. Con una famiglia problematica, continui traslochi, nessun vero amico, Amanda deve vivere la vita con una forza fuori dal comune, per dimostrare agli altri, e a se stessa, che ha in mano le redini della sua vita.
L'ennesimo trasloco, l'ennesima nuova scuola. Amanda è già pronta con la sua corazza per affrontare tutto senza scottarsi. Sa che non deve affezionarsi a nessuno, se non vuole soffrire, e far soffrire. Ma, come in una favola, il destino si mette in mezzo. Perché non si sa mai dove si fermerà la ruota, ma è certo che sarà qualcosa di inaspettato, sconvolgente e che cambierà il presente.
Genere: Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Like a Phoenix'
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Ringrazio davvero di cuore directioner231212 per la stupenda copertina! 

1- GOODMORNIG WORLD

Tutt'intorno a me si stagliavano i meravigliosi campi che avevo visto quel pomeriggio in un quadro del libro di storia dell'arte.
Non sapevo perché fossi finita in un posto del genere, ma mi piaceva. La natura, il cielo che si allungava verso l'orizzonte infinito, il vociare di bambini allegri mi trasmetteva pace  e tranquillità.
Mi sedetti sotto un grosso albero e puntai lo sguardo verso il cielo. Non mi ero mai soffermata a guardarlo così a lungo e di sicuro in città non si poteva avere una vista così eccezionale. E solo dopo quasi diciotto anni di vita, mi accorsi che il cielo d’inizio settembre era davvero stupendo. Era terso, senza una nuvola, e il sole rendeva l'azzurro acceso e brillante. C'erano davvero una quiete e una pace senza precedenti, almeno per me.
Sarebbe stato perfetto poter condividere quel momento con qualche amica, o anche con un cane. Ma, come mi ricordò una vocina fastidiosa che avrei volentieri soppresso, io non avevo nessun amico. E come potevo, dopo l'ennesimo trasloco da una città che era stata la mia solo per nove mesi? E, sfortunatamente, non avevo neanche un cane: mia madre era allergica a qualunque forma non umana di essere vivente. Odiava anche i pesci, quindi anche solo l'idea di avere un cane in casa la faceva rabbrividire.
Sbuffai, incrociando le braccia e cercando dei pensieri positivi. Non potevo rovinarmi un sogno così bello con certi pensieri!
Mi alzai e m’incamminai verso il bosco. Presi il primo sentiero che trovai e rimasi subito incantata da quello che mi circondava. La luce del sole che filtrava attraverso le foglie creava un'atmosfera quasi magica, surreale. Il rumore dei rami mossi dal vento era un suono veramente rilassante e pensai che mi sarebbe piaciuto visitare un posto simile anche nella realtà.
Continuai a camminare con la testa per aria, ammirando ogni piccolo dettaglio a bocca aperta. Mi fermai quando, tra i rami, vidi una piccola costruzione di legno, probabilmente un vecchio rifugio per i cacciatori. Curiosa, cercai un passaggio tra gli arbusti e in poco tempo la raggiunsi, rendendomi conto di come fosse veramente ridotta male. Doveva essere abbandonata da molto tempo perché il tetto era praticamente distrutto e il legno quasi tutto marcio. Tuttavia, l'atmosfera che creava con il bosco intorno mi piacque tantissimo. Sembrava la casetta dei sette nani.
Lentamente e cercando di non distruggere nulla, aprii la porta sgangherata ed entrai. L'interno era quasi del tutto spoglio. C'erano solo un paio di sedie di legno in mezzo alla stanza, qualche ceppo di legno abbandonato accanto alla parete e un camino.
Feci un passo avanti ma un suono continuo e fastidioso incominciò a rimbombarmi nelle orecchie e, guardandomi intorno, realizzai come le cose fossero diverse. Il bosco con la casetta era sparito, lontano centinaia, migliaia di chilometri così come i campi, il cortile e i bambini. Tutto il verde scomparve, rivelando il grigiore della città, i palazzi alti quasi quanto il cielo, i pochi alberi uccisi dallo smog e macchine, tantissime macchine. Quel cambiamento repentino mi aveva lasciato senza fiato e, cercando di ignorare quel rumore che si era fatto assordante, incominciai a correre alla ricerca di uno spazio verde come quello che avevo abbandonato prima di entrare nel bosco. Mi sarei accontentata anche di un parchetto per bambini.
E invece, più correvo, più tutto diventava grigio e triste. La strada davanti a me sembrava infinita e piena di mezzi di ogni tipo.
Mi voltai a destra e vedendo un qualcosa di verde, iniziai a correre.
Voltai l'angolo e...

 

"Bit, bit. Bit, bit. Bit, bit".
"Stupida sveglia", sbottai spegnendola con un pugno e sospirando al ricordo del sogno. Forse era meglio che fosse finito: si stava trasformando decisamente in un incubo e la mia vita era abbastanza disastrata per aggiungerci anche quello.
Sbuffando scostai il lenzuolo e mi sedetti sul letto, accendendo la luce.
Non erano neanche le sette del mattino ma, se non mi fossi sbrigata, avrei perso il pullman il primo giorno di scuola.
Sbadigliando, mi alzai dal letto e, mentre m’incamminavo verso il bagno, inciampai in uno scatolone messo in mezzo al corridoio. Nonostante ci fossimo trasferiti da quasi due settimane, la casa era ancora un disastro. Scatoloni di dappertutto, oggetti messi alla rinfusa in posti dove non dovevano stare e, ma quella non era una novità, il frigo vuoto.
Sospirai, annotandomi mentalmente che, tornata da scuola, sarei dovuta andare a fare la spesa, prima di ricordarmi che non sapevo nemmeno dove fosse il supermercato in quel posto. In realtà, non sapevo nemmeno se ci fosse. Era un piccolo paesino di campagna, circondato dai campi come quelli del mio sogno e accanto all'autostrada che portava in città. Effettivamente,  c'era quasi tutto. Negozi, un benzinaio, piccoli bar, scuola elementare e media. Ovviamente, il liceo era in città e per arrivarci avrei dovuto prendere uno stupidissimo pullman affollato e lento che, se non mi fossi data una mossa, avrei perso di sicuro. Non che l'idea di andare a scuola mi entusiasmasse: certo, mi piaceva studiare e avevo buoni voti in tutto -tranne che in matematica-, ma odiavo il dovermi relazionare con gli altri.
Mentre mi lavavo i denti, pensai che fino a qualche anno prima ero la ragazza più solare ed estroversa che questo mondo. Poi erano incominciati i traslochi, i continui cambiamenti e anche quelli che prima consideravo amici alla fine mi avevano dimenticata.
Scesi in cucina per preparare la colazione e, sbuffando, pensai a quanto tempo mia madre avrebbe resistito in quel posto. Nell'ultimo ci eravamo rimasti nove mesi, in quello prima sei, in quello prima solo quattro e gli altri ormai non li ricordavo più. Scossi la testa, cercando di cancellare quei pensieri.
Era un nuovo inizio, ma non riuscivo a essere ottimista.
Avrei cominciato la quarta liceo in un paese nuovo, con persone nuove e in una classe che si conosceva da quattro anni. Nonostante sapessi quanto fosse autolesionista, non volevo farmi nessun vero amico: sarebbe stato ancora più difficile doverlo lasciare se avessimo di nuovo traslocato. Però sarebbe stato difficile evitare di avere dei contatti con loro ed era questo che m’innervosiva. Ormai non riuscivo più a fare amicizia con nessuno. Tendevo ad allontanare chiunque mi si avvicinasse e, alla fine, dopo un po' di rifiuti, anche quello smetteva di provarci. Ma solo io sapevo quanto questo mi desse fastidio.
L'arrivo di mio fratello in cucina mi distolse dai miei pensieri e mi affrettai a mettergli davanti la colazione per andare a prepararmi.
Tutti quei pensieri mi stavano facendo fare tardi e, continuando in quel modo, avrei perso di sicuro il pullman.
Infilai velocemente un paio di jeans, una camicia a maniche corte e la felpa, presi lo zaino e corsi fuori di casa. La fermata non era lontana e avevo ancora quasi dieci minuti, ma era meglio arrivare in anticipo che in ritardo.
Mio fratello, che avrebbe frequentato il secondo anno di università, avrebbe iniziato la scuola ad ottobre ma, per pagarsi quel rottame di automobile che si era comprato, era costretto a cercarsi un lavoro e presumevo che avrebbe iniziato il suo giro proprio quel mattino. Evitai di pensare a mia madre: non sapevo se era in casa, ma sinceramente non m'interessava. Se l'avessi incontrata, avremmo litigato per l'ennesima volta e non ero dell'umore giusto per discutere con lei.
Il pullman arrivò in perfetto orario e alla mia fermata salirono una ragazza e un paio di ragazzi, che si sedettero in fondo con i loro amici. Io occupai il primo posto libero che trovai, presi l'I-pod e accesi la musica, estraniandomi dal mondo. Avevo più di mezz'ora di viaggio e tutto il tempo per ripetermi quel poco che sapevo su quella scuola.
Avrei frequentato lo stesso indirizzo di quella vecchia, socio psicopedagogico ed ero nella classe 4SC. In classe eravamo in ventidue, di cui cinque ragazzi, una vera rarità per questo indirizzo ma cercai di non darci troppo peso. L'ultimo vero ragazzo risaliva a tre anni prima e mi aveva lasciata dopo aver conosciuto per caso mia madre, dicendomi che non gli piacevo più ma che saremmo potuti rimanere amici. Ovviamente, non mi aveva più richiamata e non lo avevo fatto nemmeno io. Non ne valeva la pena e, dopo di lui, Mattew si chiamava, non avevo cercato più nessuno: sapevo che avrei dovuto troncare entro poco e sarebbe equivalso a soffrire per niente.
Arrivammo a scuola che mancavano venti minuti all'inizio delle lezioni e mi fermai un attimo davanti al cancello prima di entrare. La scuola era veramente grande ed era costruita all'interno di un grosso parco di una villa, dalla quale prendeva il nome. I muri erano grigio chiaro, coperti qua e là da graffiti colorati e, almeno per la maggior parte, senza senso.
Entrai nell'istituto e mi guardai intorno. Nonostante mancasse ancora tempo al suono della campana, i corridoi erano pieni di ragazzi che parlavano e ridevano, creando un'atmosfera accogliente.
Senza sapere dove andare, presi il primo corridoio e iniziai a percorrerlo, sicura che avrei trovato la classe, prima o poi. Invece quella scuola era un vero labirinto. C'erano scale su scale e corridoi su corridoi e, dieci minuti dopo, mi ritrovai a passare per l'ennesima volta davanti all'entrata. Possibile che non avessi ancora trovato quella stupida classe?
Mancavano cinque minuti al suono della campana e stavo iniziando a innervosirmi. Quella giornata non era iniziata per niente bene, tra lo scatolone, la fretta e il sogno. E adesso rischiavo di arrivare in ritardo perché continuavo a perdermi.
Decisi di provare un’altra volta a cercarla da sola, prendendo i corridoi dalla parte opposta rispetto a dov'ero venuta ma, voltandomi, andai a sbattere contro qualcuno che ebbe i riflessi abbastanza pronti da afferrarmi per un braccio prima che cadessi per terra.
"Tutto bene?".
Alzai la testa e mi trovai davanti un ragazzo davvero alto, biondo e con gli occhi castani. Era molto carino e, solo quando registrai questo dettaglio, mi accorsi di essermi spalmata addosso a lui per evitare di cadere.
"Sì, sì, scusa", mormorai allontanandomi. Non ero più abituata ad avere a che fare con ragazzi a una distanza così ravvicinata e mi sentivo parecchio imbarazzata, soprattutto per il fatto di averlo quasi investito.
Il ragazzo mi sorrise e mi porse una mano. "Io sono David. Sei nuova? Non ti ho mai vista".
Annuii e feci un mezzo sorriso, stringendogli la mano. "Mi sono appena trasferita".
David continuò a sorridere, come se aspettasse qualcosa.
Lo guardai interrogativa. Non toccava a lui fare una domanda, adesso?
"Non mi hai detto come ti chiami", mi ricordò.
Mi diedi mentalmente della stupida. "Amanda".
"Piacere, Amanda".
Il mio nome pronunciato dalla sua voce aveva un bel suono. Anzi, David aveva una bella voce, oltre che a essere carino.
La campanella suonò e David si guardò intorno. "Ci vediamo in giro”, disse facendomi l'occhiolino.
Annuii e gli sorrisi, ricordandomi solo quando ebbe girato l'angolo che io ancora non sapevo dove fosse la mia classe. M’insultai di nuovo, dandomi della stupida per non averglielo chiesto.
Sbuffai e mi diressi verso la segreteria, sperando almeno di trovarla.
Ci arrivai dopo aver sbagliato strada due volte e, finalmente, scoprii che la mia classe era la prima appena girato l'angolo.
Cercai di ignorare il pensiero di esserci passata davanti almeno tre volte e m'incamminai subito, trovando la porta già chiusa.
"Merda", sbottai, preparandomi a bussare, quando qualcuno mi scostò malamente dalla porta, bussando una volta e aprendola senza aspettare.
"Colpa del pullman", disse appena entrato in classe. Era un ragazzo alto, moro e decisamente stupido, visto che non si era nemmeno accorto di me.
Mi feci coraggio ed entrai, bussando di nuovo per attirare l'attenzione del professore, un uomo sui cinquant'anni, alto e abbastanza robusto che era seduto sulla cattedra.
"Salve", dissi entrando.
Il professore mi squadrò, poi mi sorrise. "Tu devi essere Amanda, la nuova ragazza. Ti stavamo aspettando".
Sorrisi e annuii. "Scusi per il ritardo ma non riuscivo a trovare la classe".
L'uomo annuì, facendomi segno di sedermi.
C'era solo un posto libero ed era in prima fila, accanto a una ragazza bionda, con due occhi azzurrissimi e un sorriso veramente dolce.
"Ciao, io sono Elisabeth, ma puoi chiamarmi Liz", mi disse quando mi sedetti, porgendomi la mano.
Le sorrisi e gliela strinsi. Va bene che non dovevo sbilanciarmi troppo con nessuno, ma almeno con la mia compagna di banco dovevo scambiare qualche parola. "Amanda", risposi, cercando di non sembrare troppo fredda.
Il professore, che poi era l'insegnante di storia e filosofia, riprese l'attenzione della classe e, dopo aver parlato delle vacanze, iniziò a farmi le solite domande.
"Vieni dallo stesso indirizzo?".
Annuii e spiegai brevemente del trasloco e del cambiamento. Fortunatamente non mi chiese nulla di personale e, dopo qualche altra curiosità sulle sue materie, decise di iniziare a spiegare. Avevamo due ore con lui quel giorno e non potevamo di certo passarle a fare niente.
Iniziò con filosofia e riprese un autore che avevo già studiato. Mi piacque subito come spiegava e come interagiva con la classe, rendendo la lezione interessante. Alla fine delle due ore scoprii che per quel giorno avremmo avuto matematica, inglese e psicologia.
Inglese e psicologia non mi preoccupavano. Era matematica a terrorizzarmi e mi terrorizzò ancora di più l'insegnante che entrò dalla porta quando suonò la campanella.
Era una donna di mezza età, bassa, bionda e con due occhi talmente azzurri e penetranti da far paura. Al suo ingresso, la classe si zittì e tutti si alzarono in piedi. Li imitai, pentendomi di essermi messa in prima fila.
La donna prese delle schede dalla borsa e guardò la classe con sguardo di sfida.
"Sono convinta che voi abbiate studiato parecchio questa estate, soprattutto quando siete rimasti a casa, quindi vi ho preparato una piccola sorpresa. Separate i banchi".
Lanciai uno sguardo terrorizzato a Liz e pensai per l'ennesima volta che quella giornata sarebbe finita male.
Ci dividemmo in silenzio e, quando guardammo la verifica, si levò un lamento generale.
Provai a capire il primo esercizio, ma non riuscivo a capire nemmeno di che argomento si trattasse. Seno? Coseno? L’Arcoseno dell’angolo β? Mi veniva da piangere solo a leggere quelle cose, figurarci con tutti i numeri e i simboli.
“Ehm, scusi”. Attirai l’attenzione della donna, che parve accorgersi di me solo in quel momento,  con un colpo di tosse.
“Sei nuova?”, mi chiese sistemandosi gli occhiali.
Annuii. “Penso di non avere fatto questi argomenti”, spiegai.
Lei si limitò a guardarmi negli occhi per un paio di secondi, per poi sbuffare e prendermi il foglio dalle mani. “Fai altro, ma non disturbare. In fondo, questa punizione non è per te”. Accartocciò il mio compito e, dopo averlo gettato nel cestino, si sedette alla cattedra e puntò gli occhi verso la classe, osservando tutti talmente attentamente che nessuno avrebbe potuto nemmeno spostarsi senza che lei lo vedesse.
Al suono della campanella, la tensione in classe si era allentata, forse anche grazie all’inizio dell’intervallo.
“Vieni con noi?”, mi chiese Liz, indicando due ragazzi fermi sulla porta. Riconobbi il moro che mi aveva spinta contro la porta e il suo compagno di banco.
Pensai a David e al fatto che non sapevo nemmeno dove trovarlo.
Alzai le spalle e li seguii.
Liz si aggrappò al braccio del compagno di banco del moro, Charlie, se non mi ricordavo male, e dalle occhiate che si lanciavano capii subito che stavano assieme.
Il moro, Adam, mi camminava a fianco, dietro ai due piccioncini e si rigirava tra le dita una cartina e il tabacco. A differenza dell’amico, che si era presentato sorridendo, lui mi aveva lanciato uno sguardo arrabbiato, limitandosi a dirmi il suo nome.
Seguendo Liz e Charlie uscimmo in giardino e ci sedemmo sulle scale.
Adam iniziò a prepararsi il suo drum in silenzio, mentre gli altri due si appiccicarono più di prima, ignorandomi. Alla fine, non mi dispiaceva così tanto quel distacco. In quel modo non sarebbe stato difficile non farsi amici e limitarsi ad essere compagni di classe.
Fui distratta dai miei pensieri da un gesto veloce della mano di Adam, che mi mise davanti alla faccia la sigaretta. “Vuoi fare un tiro?”, mi chiese sputando fuori il fumo.
Annuii e presi la sigaretta tra due dita. Era da molto che non fumavo e la cosa non mi era mai pesata, però quando ero nervosa mi rilassavo facilmente con una sigaretta.
“Grazie”, dissi restituendogliela.
Adam fece un altro tiro, poi piegò le labbra in un mezzo sorriso. “Mi dispiace di non essere di compagnia, oggi”, disse spegnendo la sigaretta sotto la scarpa.
Scossi la testa, ignorando il motivo di quell’ “oggi”. “Non è un problema”.
Fece per rispondere, quando mi sentii chiamare e voltai la testa dall’altra parte, trovandomi davanti David, sorridente e in compagnia di altri due ragazzi. Mi bastò un’occhiata veloce per capire che quei due erano gente da cui stare alla larga: occhi lucidi e sguardo stralunato, prove perfette per dire che quello che avevano fumato non erano semplici sigarette.
“Ciao, Amanda!”, mi salutò David con un sorrisone. A differenza dei suoi amici, lui sembrava perfettamente lucido.
“Ciao”, risposi senza scompormi. Non per cattiveria, ma non ero stupida ed era ovvio che David non mi cercasse per la mia simpatia e io non volevo soffrire, affezionandomi di nuovo a una persona che poi avrei dovuto lasciare.
“Finalmente ti ho trovata!”, disse tutto contento, sedendosi davanti ad Adam che scambiò un’occhiata con Charlie.
“Non sapevo dove cercarti”, ammisi.
“Ne vuoi un pezzo?”, mi chiese, offrendomi un pezzo di cioccolato.
Se c’era una cosa alla quale non sapevo dire di no, quella era il cioccolato e annuii, allungando la mano.
David spezzò un generoso pezzo dalla sua barretta e me lo diede, senza smettere di sorridere.
“Mi hai detto che sei nuova. Raccontami qualcosa”, disse dando un morso al cioccolato.
Mi bloccai con la mano a mezz’aria e indurii lo sguardo. Se c’era una cosa che odiavo, invece, erano i ragazzi insistenti e invadenti. Ovviamente David non poteva sapere quanto la cosa mi desse fastidio, ma non potei fare a meno di non rispondere, sentendo un groppo in gola.
David aprì la bocca per parlare ma il suono della campanella mi salvò da quella situazione e, come se mi avesse letto nel pensiero, Liz mi afferrò per un braccio e mi fece alzare di forza.
“Ciao”, mi limitai a salutarlo, notando solo in quel momento che David non aveva per nulla considerato i miei compagni e che loro si erano fatti silenziosi da quando lui era arrivato.
David mi salutò con una mano e sospirai, pensando che, alla fine, il mio piano stava andando a buon fine. Avevo già allontanato una persona scomoda, che di sicuro avrebbe potuto essere un buon amico, ma allora perché mi sentivo uno schifo?
Buttai il resto del cioccolato nel primo cestino che trovai, sentendomi davvero un’idiota per come mi ero comportata. David era stato gentilissimo fin dal primo momento, mi aveva offerto la sua merenda e aveva cercato di fare conversazione. Il problema era che sapevo che il suo fine non era solo conoscermi e diventare mia amica e io mi conoscevo abbastanza da sapere che se avessi fatto avvicinare qualcuno fino a quel punto, sarei uscita bruciata all’ennesimo trasloco. Di bene in meglio.
Era talmente sovrappensiero che mi accorsi che ci eravamo fermati in mezzo al corridoio solo quando Liz lasciò la presa sul mio braccio e mi guardò seria.
“Lascialo perdere”, mi disse senza mezzi termini Liz.
La guardai confusa, capendo solo dopo qualche secondo che si stesse riferendo a David. Scrollai le spalle. “Non mi interessa”, le rivelai con una smorfia.
“Meglio”, intervenne Charlie, lanciando un’occhiata a Adam che sembrò risvegliarsi solo in quel momento dai suoi pensieri e annuì debolmente, quasi disinteressato.
“Torniamo in classe”, disse Liz sospirando, come se si fosse tolta un enorme peso.
Mi prese per mano e lasciò indietro il suo ragazzo che, con la coda dell’occhio, vidi mentre dava una pacca sulla spalla all’amico. Per un istante ripensai a quello che mi aveva detto e giunsi alla conclusione che doveva essergli successo qualcosa di brutto, ma fui distratta dalla voce di Liz, che commentava sconsolata la verifica di matematica.
“A proposito. Posso sapere perché vi ha fatto una verifica il primo giorno di scuola?”.
Liz scoppiò a ridere, seguita da Charlie che ci aveva raggiunto insieme ad Adam. “L’anno scorso, abbiamo saltato tutti il giorno dell’ultima verifica di matematica”, mi rispose Charlie. “Non ci ha più detto niente e non pensavamo che se la fosse legata al dito per tutta l’estate”.
Risi anch’io, pensando a quello che Charlie mi aveva appena detto. Doveva essere davvero bellissimo fare parte di una classe vera, con veri amici e persone che ti sostengono in ogni momento. Erano davvero molto affiatati, lo dimostrava il fatto che avevano bigiato una giornata tutti assieme, accettandone le conseguenze.
Sospirai ed entrai in classe.
Quel giorno ero davvero di cattivo umore e dovevo smetterla di pensarci costantemente. Rimuginare sul passato e su quello che era successo serviva solo a ridurmi i nervi a pezzi.
Un tuono lontano mi fece sobbalzare sulla sedia e guardai fuori dalla finestra, accorgendomi solo in quel momento che il cielo si era fatto scuro e minaccioso.
“Fantastico”, mugugnai, pensando che non avevo l’ombrello e dovevo tornare a casa a piedi.
Continuò a tuonare fino alla fine delle lezioni e solo quando uscimmo dall’edificio si scatenò una vera tempesta, che rendeva inutili anche gli ombrelli.
Corsi fino al pullman e dovetti stare in piedi, con i capelli tutti bagnati e lo zaino in spalla.
Arrivai a casa con venti minuti di ritardo a causa di un incidente che ci aveva costretti a cambiare strada e completamente bagnata. I piedi mi nuotavano nelle scarpe allagate e lo zaino era talmente bagnato da avere rovinato alcuni libri.
Appena entrai, mollai lo zaino per terra e corsi a farmi una doccia calda.
Uscii dal bagno dopo venti minuti completamente rilassata e soprattutto riscaldata. Indossai direttamente il pigiama e feci per entrare in camera ma una borsa di pelle bianca in bella vista sul tavolo del soggiorno mi bloccò in mezzo al corridoio.
Cosa ci faceva a casa mia madre alle tre del pomeriggio?
“Ah, sei qui”, una voce scocciata mi fece voltare verso la cucina e la trovai intenta a rovistare nel frigorifero. “Non hai fatto la spesa”, sbottò chiudendo con forza la porta e aprendo la dispensa in cerca di qualcosa di commestibile.
“Sono appena tornata da scuola”, le feci presente cercando di mantenere un tono calmo e di non aggredirla subito. Odiavo quando si comportava da vittima in quel modo, come se lei non avesse potuto fermarsi in un supermercato e comprare qualcosa.
“E sei già in pigiama”, disse guardandomi e alzando gli occhi al cielo.
“Ho fatto la doccia”, le risposi indicando i capelli bagnati. Il discorso stava prendendo davvero una brutta piega e non me la sentivo proprio di litigare, sapevo già come sarebbe finita.
“Devo fare sempre tutto io”, esclamò facendo sbattere l’anta della dispensa e fulminandomi con lo sguardo. “Ho lavorato fino ad adesso e devo anche pensare a voi due. Guarda, quell’idiota di tuo fratello non è ancora arrivato!”.
Incrociai le braccia e strinsi i pugni. “Alex è andato a cercarsi un lavoro, te l’ha detto ieri sera”, sibilai chiedendomi come una madre potesse addirittura dimenticarsi gli impegni del figlio. Potevo capire che i suoi orari di lavoro erano improponibili, dovendo mantenere me e mio fratello da sola, senza nemmeno l’aiuto di mio padre che, di sicuro, in quel momento era da qualche parte a divertirsi. Ma non potevo accettare il suo comportamento: avere tanti impegni non le permetteva di scordarsi di avere due figli, anche se Alex aveva quasi vent’un anni. Mio fratello non si era mai lamentato e cercava di pagarsi gli studi lavorando, chiedendo a nostra madre il meno possibile. Ne io ne mio fratello sapevamo cosa facesse la sera dopo il lavoro ordinario al supermercato, ma portava a casa i soldi per pagare le bollette e se voleva mantenere il segreto, era liberissima di farlo. Molte volte avevamo litigato per questo: lei non c’era mai e costringeva noi a fare tutto, pretendendo addirittura più del normale. Come in quel momento.
“Io vado”, disse ignorando la mia risposta e infilandosi la giacca di pelle sopra il vestito. Mia madre era ancora una bella donna, aveva quasi quarantacinque anni ma aveva un fisico da ventenne, completamente naturale, due occhi azzurri stupendi e i capelli neri, lunghi fino alla vita e sempre perfetti.
“Scommetto che neanche oggi sai a che ora tornerai, vero?”, chiesi, acida.
Mia madre mi lanciò uno sguardo di sbieco che non seppi interpretare e mi allungò una banconota da venti. “Vai a fare un po’ di spesa”, disse prima di sparire dietro la porta.
Sbuffai e mi lasciai cadere sul divano, stropicciando nel pugno quei maledetti soldi.
Odiavo quella situazione.
Odiavo il fatto che mia madre doveva spaccarsi la schiena di lavoro ogni giorno perché mio padre non voleva pagare gli alimenti.
Odiavo quello che era diventata mia madre negli anni, una donna cinica e fredda, imperturbabile e sconosciuta a ogni sentimento.
Odiavo quello che per colpa sua stavo diventando io. Non avevo mezzo amico per colpa dei continui spostamenti e ogni volta che ci pensavo mi sentivo più insicura di quella precedente.  Con il tempo avevo imparato ad estraniare quell’insicurezza e avevo creato un muro invalicabile, esattamente come mia madre e questa era l’ultima cosa che volevo. Diventare come lei era l’ultimo dei miei desideri e mi odiavo perché non riuscivo ad impedirmelo, nonostante tutto.
Mi rivestii in fretta e uscii sotto la pioggia alla ricerca di un supermercato. Mancavano solo sei mesi a marzo e ai miei diciotto anni e finalmente avrei potuto fare la patente.
Arrivai a casa ancora completamente bagnata e più irritata di prima. Sistemai la spesa in cucina, salutai mio fratello che si era già piazzato davanti alla televisione e mi chiusi in camera.
Cuffiette, musica a palla e un romanzo. Questo era l’unico modo che avevo per estraniarmi, per non pensare e per rilassarmi.
Dopo un centinaio di pagine mi addormentai sul libro, cullata dalle note di una delle mie canzoni preferite e dal desiderio di un futuro diverso.  Poco prima di cadere nel mondo dei sogni, ripensai al mio primo giorno di scuola, alla mia classe e a David. Quel ragazzo mi piaceva. Era carino e simpatico e mi aveva accolto come mai nessuno prima d’ora e, per la prima volta dopo anni, sentii i bisogno di calore umano e di affetto, qualcosa che i libri non potevano darmi.

 

Buon pomeriggio!
È la prima storia originale che scrivo, quindi metto subito le mani avanti, avvertendovi che non sarà niente di speciale. Una semplice storia d’amore, con i suoi problemi, le sue bellezze e la sua quotidianità. Almeno dal mio punto di vista.
Un capitolo un po’ lungo, come inizio, ma non mi piace spezzarli, quindi spero che non vi abbia annoiato e che abbia almeno un po’ incuriositi. Mi sto affezionando molto a questi personaggi, e il mio obiettivo e quello di farvi conoscere un pezzettino del loro mondo. Per questo vi prego di non esitare a lasciarmi commenti, consigli, critiche: accetto qualunque osservazione, ovviamente nei limiti dell’educazione.
Aspetto con ansia i vostri pareri.
Ah, pubblicherò una volta a settimana, salvo imprevisti (cioè la scuola), ma intanto ne approfitto per farvi i più sentiti auguri di Natale, a voi, alle vostre famiglie, ai vostri amici e, perché no, ai vostri animali!
A presto
Mikchan

 

 

  
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