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Autore: Tsuki Hoshizora    26/12/2012    1 recensioni
La seguente fic è ambientata dopo una futura ed eventuale uscita delle nazioni dalla casa in cui si trovano intrappolati nel RPG fanmade HetaOni [N.B.: il gioco non ha per ora un finale].
La trama s'incentra principalmente sull'impatto che ha avuto tale esperienza sulla salute psico-fisica di Veneziano (Feliciano Vargas), il quale ha quasi rischiato un collasso mentale. In seguito alla diagnosi dello psicanalista, Romano (Lovino Vargas) decide di tenere sott'occhio il fratello minore ed è così che ha inizio la storia, la quale avrà due finali; starà quindi a voi scegliere quale preferiate o se leggerli entrambi.
Ringrazio Chris per la collaborazione!
Genere: Horror, Sovrannaturale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Sorpresa, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Buon Natale e buon San Silvestro a tutti quanti~!
Sono stata assente per molto tempo da EFP, ma adesso son tornata con una nuova "fatica"; mi impegnerò al massimo per continuare e concludere anche le altre due fic, ovviamente, mi spiace lasciarle inconcluse, davvero.
Intanto, vi auguro buona lettura ♥
ANCORA UN GRAZIE ENORME A CHRIS CHE, ALLE CINQUE DEL MATTINO, MI FA DA CORRETTORE DI BOZZE ♡

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1. Una raccapricciante richiesta d'amicizia

Erano passate diverse settimane da quando erano finalmente riusciti ad uscire da quella maledettissima dimora e ancora Veneziano viveva come se fosse costantemente inseguito da quella "cosa".
Aveva subito un forte trauma, qualcosa di pressappoco incurabile, almeno in base alla diagnosi rilasciata dallo psichiatra che lo aveva visitato, sotto insistenza da parte delle altre nazioni. Feliciano aveva ripetuto più volte di stare bene adesso che si trovava a casa sua, ma ovviamente nessuno gli aveva creduto; tanto che Germania, Giappone e suo fratello maggiore decisero di trascinarlo con la forza allo studio medico.
L'uomo, ormai sulla quarantina, aveva anche aggiunto con grande franchezza che c'era mancato davvero tanto così quantità che espresse allargando di poco pollice ed indice al suo completo collasso mentale. Di fronte ad una tale affermazione, Romano fu scosso da un brivido lungo tutta la spina dorsale: in parole povere, aveva rischiato di diventare pazzo.
«Dovete dargli del tempo per allontanare almeno in parte i ricordi legati a questa esperienza», aveva detto.
«Se consideriamo anche il fatto che il suo corpo era diventato quello di un comune mortale, possiamo a mala pena ipotizzare l'enorme macigno di stress cui è stato sottoposto il suo sistema nervoso!» A quel punto si era tolto gli occhiali con aria stanca, sospirando visibilmente dispiaciuto.
«Quel che sto cercando di dirvi... è che al momento è molto più fragile di quanto non sembri... non è ancora fuori pericolo, se dovesse affrontare nuovamente qualcosa di simile potrebbe non essere più recuperabile», concluse infine, in tono grave.
Nessuno dei tre presenti osò guardare gli altri due negli occhi o proferire parola. Si limitarono ad annuire comprensivi, mentre lo specialista firmava i documenti e li congedava.
Uscirono dalla stanza appensantiti da una verità che non erano in grado di accettare, totalmente inermi. Il più giovane dei Vargas li aspettava seduto nella sala di attesa, un sorriso tremolante sulle labbra.
Lo sguardo che Kiku e Ludwig rivolsero all'italiano era carico di amarezza. Entrambi sapevano che il loro amico non sarebbe mai più stato lo stesso, non del tutto almeno.
«Vee~ È andata così male?» chiese quest'ultimo.
«Mi fissate come se foste al capezzale di un malato terminale» aggiunse poi, ironicamente, sperando di spazzar via l'aria tesa e pesante che lo circondava. Ciò si rivelò una mossa azzardata, un grosso sbaglio, in quanto le reazioni degli altri mostrarono chiaramente un forte senso di disagio: il giapponese chinò appena la testa, in un ossequioso gesto di scuse, mentre il biondo sciolse una mano dalla stretta che teneva le sue braccia ancorate al petto, strofinando lentamente le dita sul mento, quasi stesse riflettendo su ciò che avrebbe dovuto rispondere e su quanto invece era opportuno tacere. Il giovane comprese che qualcosa, nelle sue parole, era andato a toccare un nervo scoperto; era sempre stato esageratamente ingenuo, ma ciò che aveva vissuto lo aveva fatto maturare radicalmente, in modo subitaneo, fin troppo brusco. Capiva, adesso vedeva chiaramente quel che in passato neanche gli balenava dinanzi agli occhi. Sono ridotto così male?
«Muovi il culo e torniamo a casa, ne ho le palle piene di questo posto!» esclamò innervosito Lovino, il quale fino a quell'istante era rimasto in un silenzio tanto tombale da risultare quasi invisibile.
Veneziano ebbe un sobbalzo, lo sguardo adesso fisso sul viso dell'altro, i cui denti stridevano fastidiosamente gli uni contro gli altri, mentre li stringeva con forza, a tratti, facendo irrigidire tutta la mascella. Sembrava arrabbiato, probabilmente perché si era trovato costretto a sprecare del tempo inutile per fare da balia al fratellino.
Fu questo a cui pensò Feliciano, quando le iridi verdi-ambrate lo osservarono di sfuggita, estremamente cupe, un attimo prima che il loro proprietario si avviasse con passo affrettato verso l'ascensore in fondo al corridoio, le mani in tasca e la schiena lievemente ricurva, passando oltre il punto in cui era seduto. L'italiano si rese conto che, se non si fosse sbrigato a seguirlo, sarebbe stato lasciato indietro, quindi scattò in piedi, già pronto a correre, ma si dovette subito fermare, non appena si rese conto di non aver salutato i suoi compagni.
«Io adesso torno a casa, grazie per avermi accompagnato... e scusate per il disturbo» aggiunse pacatamente, ridacchiando appena e portandosi una mano dietro la nuca, le dita che s'infiltravano distrattamente tra le corte ciocche dei capelli rossastri.
«Non preoccuparti, Itaria-kun. Del resto siamo stati noi a farti venire qui stamattina, non è vero, Germania-san?» chiese prontamente Giappone, con voce gentile e rassicurante.
«Esatto. Adesso pensa solamente a riposarti» concluse l'altro, l'accenno di un lieve sorriso sulle labbra.
«Ti vuoi muovere, dannazione? Guarda che ti lascio qui sul serio!» urlò Romano, facendo prendere un accidente non solo a Veneziano, bensì a tutto il personale medico presente al primo piano dell'ospedale psichiatrico in cui si trovavano. Fu quindi sgridato da parte di un'infermiera, la quale lo affiancò con decisione e gli fece notare che alcuni dei pazienti (tutti malati mentali) avrebbero potuto avvertire rumori troppo alti come minacce esterne pronte ad aggredirli.
Egli aprì la bocca, già pronto a ribattere, per poi richiuderla immediatamente, serrando le labbra e abbassando gli occhi con aria colpevole. Si scusò, mentre avvertiva una fitta dolorosa al petto; ancora una volta, il pensiero che anche Feliciano potesse diventare uno di loro lo aggredì, dandogli la nausea. C'era un motivo per cui i pazzi venivano allontanati dalla società, al di là del pericolo che potevano realmente rappresentare, e tutti, chi più, chi meno, ne erano involontariamente coscienti: non si poteva non provare pena per l'esistenza tormentata che conducevano quegli esseri umani. L'italiano non sarebbe riuscito a sopportarlo, lo sapeva bene.
La donna, che un attimo prima si era mostrata adirata nei suo confronti, parve notare qualcosa nel suo sguardo, tanto che sospirò comprensiva e, prima di andarsene, si limitò a dirgli di stare più attento in futuro. Lei neanche immaginava che il giovane, udite quelle parole, avesse mentalmente pregato Dio di non dover mai più mettere piede in quell'edificio.
Il fratello minore lo aveva ormai raggiunto, in silenzio.
«Tranquillo Romano, ho finito, possiamo andare adesso» disse semplicemente, con voce flebile.
«Era ora...» rispose bruscamente l'altro, schiacciando con troppa enfasi il pulsante dell'ascensore, in attesa che la porta scorrevole si aprisse.
Quando si ritrovarono da soli in ascensore, entrambi con la schiena premuta contro la parete metallica, il maggiore dei Vargas si ritrovò a fissare il ciuffo alla sua destra, la cui forma era incerta e irregolare ormai da tempo, quasi qualcuno lo avesse accartocciato, le pieghe di quella violenza ancora ben marcate. Nessuno faceva mai troppo caso ai loro ciuffi, lo sapeva, ma dal suo punto di vista era qualcosa di evidente. Erano là, in bella mostra, pronti a sbandierare ai quattro venti ciò che davvero si celava nel loro animo, 
al di là di qualsiasi maschera. Quello di Veneziano era l'equivalente di una grossa insegna luminosa che dichiarava a caratteri cubitali "sto soffrendo" e neanche le persone a lui più care sembravano vederlo.
È troppo teso. Come potevano essersi fatti ingannare dal suo sorriso? Non che si aspettasse qualcosa da quel bastardo mangia patate, ma sperava che almeno Kiku fosse in grado di leggere l'atmosfera. Si sono rincoglioniti tutti qua!

Arrivarono all'appartamento in Piazza San Marco, nel cuore della città di Venezia, poco prima di mezzogiorno.
Feliciano si aspettava che il fratellone, recuperata la sacca 
-troppo grande e troppo piena, onestamente, per uno che doveva semplicemente accompagnarlo ad una visita mattutina -, lo salutasse con un cenno del capo e uscisse all'istante dall'abitazione, dileguandosi oltre la porta; fu quindi con sorpresa che lo vide avviarsi senza troppa fretta in direzione della cucina, mentre ancora teneva l'uscio socchiuso. Adesso era più rilassato, o almeno così gli parve, nel momento in cui lo osservò allacciarsi il grembiule dietro la schiena, ormai accostato allo stipite dell'ingresso che collegava la stanza con la sala da pranzo: certo che Lovino non fosse intenzionato ad andarsene, aveva chiuso tutto quanto, ma sul momento parve non comprendere quale motivo lo spingesse a restare.
«Non te ne vai?» chiese, estremamente confuso.
«Ti dò così tanto fastidio?» domandò sarcasticamente l'altro, rigirandogli la domanda.
«Eh? No, no! È solo che... di solito resti a dormire da me solo se sei costretto... almeno da quando non viviamo più assieme» disse infine l'italiano, sospirando e socchiudendo gli occhi, i quali si fissarono al pavimento.
«Infatti lo sono» esclamò l'altro, la mano esperta e rapida che accendeva il fuoco, su cui aveva già posato una pentola, precedentemente riempita d'acqua. 
«Non posso lasciare l'Italia del Nord nelle mani di uno che è ad un passo dalla...» Follia. La parola gli morì in bocca, troppo pesante per confondersi con l'aria leggera che li avvolgeva. Sperò che il fratello minore non si accorgesse dell'esitazione presente nella propria voce, turbato all'idea che avesse sviluppato una sorta di "sesto senso", insieme con il crollo di nervi quasi sfiorato.
«Insomma, non farmi perdere tempo! Ho fame, è già ora di pranzo» tagliò corto, riscuotendosi dalla rigidità che gli aveva paralizzato le spalle, ora intento a frugare nel mobiletto sopra la sua testa, in cerca della pasta.
«Esci di qua, non ti voglio tra i piedi» concluse un po' troppo freddamente, sventolando un mestolo di legno in direzione di Veneziano, senza neanche voltarsi a guardarlo.
«Vee~ D'accordo...» acconsentì remissivamente quest'ultimo, conscio che fosse praticamente impossibile contraddire il volere del giovane. Testardo all'inverosimile, come sempre.
Si avviò con la sua solita lentezza da persona pigra verso il salotto, certo che avrebbe trovato qualche programma interessante in televisione. Forse era il caso di prendere in seria considerazione il consiglio che gli era stato dato più volte, durante le settimane passate, ovvero del sanissimo relax.
Fu con questo pensiero che si distese sul lungo e comodo divano, lasciandosi andare giù di peso, fino a che non si ritrovò con la guancia destra premuta contro uno dei due morbidi cuscini: solo allora si rese conto di quanto in realtà fosse spossato, messo a dura prova dalla pressione che ancora lo schiacciava, pur essendo al sicuro nel suo paese. Sentì la stanchezza manifestarsi nell'incapacità di muovere anche solo un braccio, avvolto dal tepore familiare del riscaldamento, il quale lo stordiva.
Ahimé, se è vero che "il lupo perde il pelo ma non il vizio", neanche il vecchio Feliciano si era ancora smarrito del tutto.
 Proprio sul più bello, infatti, quando questi ormai credeva di aver ritrovato una qualche sorta di pace interiore, si accorse non solo di non aver ancora acceso la televisione, bensì che il telecomando si trovava sopra al tavolino al centro della sala; inutile dire che, sciocco com'era per natura, a questi non venne neanche in mente l'eventualità di alzarsi semplicemente in piedi e andare a prenderlo. Allungò quindi il braccio sinistro, bilanciandosi sul bordo instabile con l'altro gomito, le dita tese in direzione dell'apparecchio. Com'era prevedibile, perse subito l'equilibrio e, cadendo, fece ribaltare pure il tavolino, che batté sonoramente sulla sua testa. Il telecomando finì invece sotto al suo mento, facendo pressione sui pulsanti, i quali accesero la televisione, che si sintonizzò (ironia della sorte) su una trasmissione comica, proprio nell'istante in cui il pubblico si sganasciava dalle risate.
Romano avvertì un gran trambusto e corse letteralmente dall'altro, pronto a soccorrerlo, temendo il peggio.
«Veneziano!» urlò in preda al panico, giusto un attimo prima di entrare nella stanza e fissare il più giovane dei Vargas, ancora steso a terra. Le spalle gli crollarono all'istante lungo i fianchi e un'espressione allibita si sostituì alla maschera di terrore che un attimo prima aveva coperto il suo volto.
«Che cazzo stai facendo?» aggiunse, visibilmente sconvolto.
«Sono caduto...» rispose l'altro, dopo essersi liberato dell'ingombro e aver rimesso a posto la confusione da lui stesso creata, adesso seduto sul soffice tappeto che copriva il pavimento.
«Siamo sicuri che non ti sia stata diagnosticata una demenza congenita precoce, al posto di un esaurimento nervoso?» chiese quindi il maggiore, a bassa voce, un sopracciglio alzato e lo sguardo esasperato, mentre sospirava sommessamente.

Nei cinque giorni che seguirono, Lovino tenne sotto osservazione l'italiano più di quanto avesse mai fatto in centocinquantun'anni di unione. Non fu affatto semplice, perché Feliciano continuava ad avere delle ricadute, nei momenti più insospettabili. Queste crisi nascevano sostanzialmente dal niente, almeno da un punto di vista esterno, ma il bruno era ben cosciente del fatto che venissero allo scoperto solo dopo un'attenta e progressiva "covata". Era come se l'altro tentasse di nascondere quei brutti ricordi finché ne era in grado. Sospettava, inoltre, che andare a fare quel controllo avesse risvegliato completamente la sua memoria, rendendo ancora una volta tutto più vivido, più fresco.
Il ticchettio di una sveglia o di un orologio inesistente 
-in quanto si era premurato di rimuovere quegli oggetti infernali dalla casa, dal momento che era il primo a non poterli vedere in giro -, ombre alte e deformi dietro le tende, presenze alle sue spalle che soltanto lui era in grado di avvertire: bastava un niente a far agitare il fratello minore. Poi c'era sempre quel ciuffo dalla forma innaturale, che non accennava a tornare alle sue normali condizioni.
Come avrebbe potuto, del resto? Veneziano si svegliava ogni notte urlando. Tremava, imperlato di sudore freddo, quello che solo chi è scampato almeno una volta a morte certa può provare; Romano, del resto, non sapeva come potergli evitare tutto quel dolore. Non era neanche una persone in grado di dare affetto, conforto o speranza, non lo era mai stato e certo non poteva cambiare così dalla mattina alla sera. Tutto ciò che era in grado di fare era lanciare imprecazioni.
Aveva infatti smesso quasi subito di offendere l'altro, preoccupato di turbare ulteriormente una psiche che, adesso lo vedeva con i suoi stessi occhi, era davvero allo stremo delle forze. Ammettere con se stesso questa realtà dei fatti era costata un calcio allo sportello della credenza che si trovava in sala da pranzo e qualche pugno al muro del piccolo bagno, ma soprattutto aveva fatto tendere i suoi nervi al massimo, comportando una buona dose di stress. Ancora una volta ci dividiamo la pena, però tu paghi nuovamente un prezzo più alto del mio.
Sorrise amaramente alla propria immagine riflessa nello specchio, le mani intrecciate nelle ciocche scure dei suoi capelli, gli occhi tristemente accompagnati da due borse vagamente gonfie. Paragonate ai profondi solchi neri che cerchiavano gli occhi dell'altro non erano davvero niente.
Era veramente distrutto, ma sapeva che non avrebbe abbandonato suo fratello. Si diceva che prima o poi quegli attacchi sarebbero spariti, continuava a ripeterselo ogni mattina dopo l'ennesima notte insonne, portando pazienza.
Se solo non avessimo mai messo piede in quel dannatissimo posto...

Feliciano vagava senza pace per l'appartamento, non sapendo come occupare quel tempo che sembrava protrarsi all'infinito. Lovino gli aveva persino vietato di svolgere il lavoro d'ufficio che sarebbe spettato a lui, l'ennesima di una lunga lista di privazioni, e adesso non gli restava davvero più niente da fare. Non si lamentava solamente perché aveva realizzato che dietro ai suoi gesti bruschi c'era qualcosa di simile alla preoccupazione, nonostante ancora non avesse capito se per la nazione o se per il suo stato mentale.
Non osava soffermarsi troppo a lungo in salotto, per paura di irritare il fratellone, già più suscettibile del solito a causa della situazione tesa che si era venuta a creare in quella casa; egli stava infatti con la testa china sopra a due pile di documenti, l'espressione seria e concentrata. Non emetteva un suono, esclusa qualche isolata imprecazione in dialetto (che non sempre l'italiano riusciva a cogliere) e il frusciare dei fogli, che sfogliava febbrilmente, se non continuamente.
Si stava dunque concentrando su quei suoni, spontanei e rassicuranti, i quali gli trasmettevano una flebile sensazione simile alla protezione, quando i suoi occhi caddero per puro caso sul proprio computer fisso. Questo si trovava sopra ad una scrivania in legno chiaro, in un angolo della sua camera da letto: l'enorme strato di polvere che nascondeva lo schermo alla vista esprimeva alla perfezione lo stato d'inutilizzo in cui giaceva. Veneziano non era mai stato un grande amante del mondo virtuale, preferiva di gran lunga uscire per strada e andare a corteggiare qualche bella signorina, ma, in quell'istante, intravide in quel mezzo un'accattivante via di fuga. Da quanto tempo non vado su Worldbook? 
Accese l'apparecchio senza alcuna esitazione, per poi sedervisi accanto, gli occhi incollati al simbolo centrale che caricava, effettuando un movimento circolare. Nel momento in cui apparve il desktop, cliccò immediatamente sull'icona del browser, ricordandosi solo in un secondo momento che doveva aspettare un attimo, affinché il Wi-Fi si connettesse. Tamburellò sulla liscia superficie con le dita, fino a che la finestra non fu aperta. A quel punto si servì dell'indice destro per inserire i suoi dati negli appositi campi e fare log in. Quei rumori dovevano averlo distratto, poiché non si accorse del silenzio assoluto in cui era improvvisamente piombata l'abitazione.
Scorse ancora per un po' con il mouse lungo la Home, per poi realizzare che qualcosa, o meglio qualcuno, era fuori posto.
Magari si è addormentato.
Quel pensiero non gli diede alcun sollievo, in quanto di lì a poco si alzò e raggiunse il divano. Il suo cuore perse un colpo nel momento in cui lo trovò vuoto, le scartoffie ancora ben impilate. Tranquillo, sarà uscito un attimo a fare due passi!
Il suo stomaco si contrasse in una morsa dolorosa, in quanto erano sei giorni che Romano non lo perdeva d'occhio, uscendo solamente a condizione che lo facessero entrambi, qualsiasi fosse la motivazione o la necessità che li trascinava fuori da quelle quattro mura. Qualcosa non tornava, ma ancora una volta Feliciano mise la paura a tacere, cercando di controllarsi. Era inspiegabilmente calmo, vista e considerata la spaventosa quantità di piccoli suoni che ora udiva da ogni dove, di nuovo.
Tornò con passo affrettato davanti al pc, chiedendosi se fosse il caso di chattare con qualcuno per tranquillizzarsi, notando in quello stesso momento una richiesta d'amicizia in sospeso. L'aprì con noncuranza, aggrappandosi con disperazione crescente a qualsiasi cosa potesse essere in grado di distrarlo. Adesso infatti avvertiva distintamente un ticchettio insistente alla sua destra, di nuovo.
Ciò che vide gli provocò una sensazione che sperava di essersi lasciato alle spalle diverse settimane fa, un moto di terrore tanto intenso da fargli percepire distintamente l'odore del sangue rappreso. Non di nuovo...
Quel pensiero rimase cristallizzato nella sua mente, mentre fissava con orrore il nome dell'utente che chiedeva di diventare suo amico, ovvero "La Cosa". Accanto spiccava 
in miniatura ma comunque ben visibile un avatar che mostrava la faccia di quell'essere, resa ancora più tetra dall'infossatura degli occhi, adesso profonda e scura, quasi ipnotizzante.
Cliccò come un forsennato sul pulsante "Non ora", ma i suoi tentativi erano tanto inutili quanto vani, dal momento che non era neanche selezionabile. Il panico crebbe, facendolo tremare convulsamente, mentre notava che il puntatore si spostava di sua spontanea volontà in direzione dell'altro pulsante, "Conferma". Pregò Dio che fosse solo uno scherzo di cattivo gusto, ma prima che avesse anche solo il tempo di correre al portone e imboccare le scale, la richiesta fu accettata e l'italiano, urlando istericamente, venne risucchiato da un vortice biancastro, senza capire né da dove sbucasse fuori né dove lo conducesse né tanto meno cosa fosse esattamente.

Cadde dall'alto, non seppe dire esattamente da che altezza, ma a giudicare dalla gran fatica che durò per rialzarsi, dopo essersi letteralmente schiantato al suolo supino, giudicò di aver fatto un bel volo. Era indolenzito e alquanto scombussolato dallo spostamento, tenendo anche conto del fatto che aveva sbattuto violentemente la testa.
Si accorse che il pavimento su cui si trovava era freddo come il marmo non appena vi posò i palmi della mani, così da potersi sedere. Si guardò poi lentamente intorno, non riconoscendo quel luogo, o meglio, riconoscendolo solo a metà. 
In alto, sul soffitto, più precisamente sopra alla sua testa, c'era la barra di ricerca, tre icone (rispettivamente quella delle richieste d'amicizia, dei messaggi e delle notifiche) e il proprio nome, con accanto un minuscolo avatar. Alla sua destra, invece, si trovava la barra delle applicazioni, dei gruppi e delle pagine. Si voltò confuso a sinistra e vi trovò i post dei suoi amici nella Home, con accanto la chat. Quella era definitivamente una sorta di versione in 4D del sito Worldbook, per quanto la conclusione paresse degna di un drogato sotto effetto di LSD. Si chiese se ci fosse lo zampino di Giappone, ma subito si ricredette, sentendosi una cattiva persona per aver osato dubitare del suo amico.
A quel punto qualcos'altro attirò la sua attenzione, ovvero i colori a dir poco raggelanti dell'ambiente: il pavimento era rosso sangue, così come alcune parti delle pareti e del soffitto, mentre per il resto tutto era avvolto in un lugubre nero pece. Solo le scritte avrebbero potuto trasmettere un piccolo barlume di speranza, tanto erano bianche, quasi luminose, ma il contrasto che si veniva a creare con il resto era 
accecante, tutt'altro che armonioso.
Gli ci vollero un altra manciata di secondi, prima di prendere coscienza del corridoio che si apriva dinanzi ai suoi occhi, adesso perfettamente aperti e vigili; assottigliando lo sguardo, poté scorgere una scritta in fondo al corridoio, per quanto fosse ancora troppo lontana per poter essere letta. Si alzò in piedi, grato di allontanarsi da quel mare insanguinato che dava l'impressione di poter inglobare chiunque vi camminasse sopra da un momento all'altro, curioso e paradossalmente rassicurato dalla certezza -speranza, più che altro - di essere solo, così da poter scorgere la parete alle sue spalle. 
Italia Veneziano è ora amico di La Cosa. La notizia risaliva ad appena due minuti fa, ma tanto bastò a far crollare quell'attimo di quiete appena ristabilita.
«No... no!» disse ad alta voce, il tono vagamente stridulo, allontanandosi immediatamente da quel punto. Continuò a negare con un cenno del capo, da prima flebile, poi deciso, mentre affrettava il passo, camminando al contrario. Le lacrime minacciavano paurosamente di uscire, il cuore batteva furiosamente nel petto del giovane. Non capiva bene cosa stesse succedendo, ma il timore di non essere mai stato solo in quel corridoio gli fece ardere la gola.
Non si accorse di aver raggiunto l'altro capo del corridoio fino a che non  toccò con le spalle l'ampia superficie, sobbalzando all'indietro di qualche centimetro. L'accidentale movimento rivelò a Feliciano una nuova scritta, ben peggiore della precedente.
Hai ricevuto un poke da La Cosa. Stavolta la notizia risaliva ad un minuto fa, fatto che, sfortunatamente, poteva significare solamente una cosa. Era davvero lì assieme a lui, anzi, si trovava lì appositamente per lui. Era sostanzialmente caduto nella tagliola, da bravo coniglio che non era altro.
«Perché? Che vuoi stavolta da me?» chiese in un soffio, arretrando lentamente, le ginocchia che tremavano senza ritegno.
Steve apparve passando attraverso quella stessa parete, lentamente, senza alcuna fretta di ucciderlo. Non assomigliava a nessuno dei mostri che aveva avuto modo di vedere in quella stanza adibita a cella carceraria, era molto più alto ed imponente, la sua espressione era contrita al massimo e, dettaglio che contribuiva a rendere i suoi occhi ancora più temibili, aveva due iridi rosso fuoco tanto intense da parere sul punto di accendersi.
L'italiano sbiancò, mettendosi a correre nella direzione opposta prima che le gambe gli cedessero del tutto, senza però sapere dove andare. Non c'erano vie d'uscita, non esistevano nascondigli, chiamare aiuto non sarebbe servito a niente ed era sul punto di svenire per l'intensità di ciò che stava affrontando.
Si accasciò contro l'angolo destro, tenendosi strette le gambe al petto con le braccia, le lacrime che ora scendevano impetuose lungo le sue guance. Quel demone dalle sembianze aliene si avvicinava lentamente, forse si divertiva a vederlo uscire di testa.
Sentì un breve "bip", come se avesse premuto un pulsante, e per un attimo il viso di Romano apparve davanti al suo sguardo appannato, provocandogli una risatina tremula.
Fratellone, ho paura.
Poi una flebile luce rossastra lo sorprese, seguita da un forte risucchio. Venne catturato da un nuovo vortice, diverso dal precedente, che illuminò lo spazio circostante di un giallo molto tenue, facendolo sparire apparentemente nel nulla.
   
 
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