Ratonhaké:ton
Ratonhaké:ton
non era conosciuto come
un ragazzino particolarmente forte o prodigioso tra la sua gente.
Pur senza eccessiva passività,
rispettava il bene comune della tribù sopra ogni altra cosa,
obbediva, era animato da un profondo senso di rispetto per gli
adulti, per gli animali, per la natura stessa.
La sua era l'attitudine di un ragazzino
normale, senza sregolatezze, con la giusta cognizione delle cose, con
la giusta dose di furbizia ed agilità - sia mentale che
fisica.
Eppure, quei suoi occhi neri e lucidi
trasmettevano qualcosa di più. Trasmettevano un urlo
silenzioso, una
rabbia interiore, una ferrea volontà di spezzare le catene
che gli
impedivano di spiccare il volo.
Ratonhaké:ton era pronto a cambiare la
sua condizione, qualunque fosse stato il destino a cui sarebbe andato
incontro.
Era pronto ad uscire dal nido,
dall'apparente ala protettiva della valle Mohawk. Perché
aveva
compreso che il mondo che credeva eterno ed intaccabile era in
realtà
fragile e indifeso, e sarebbe potuto sprofondare nelle fiamme da un
momento all'altro.
Si
morse le labbra, annusando l'aria e
lasciando che il vento invernale gli fischiasse nelle orecchie. Tese
l'arco alzando il gomito oltre le spalle.
Sotto i suoi piedi, un alce adulto con
un'imponente impalcatura di corna era impegnato a spellare la
corteccia di un abete.
L'animale scuoteva la testa sbuffando
nervoso, avvertiva l'odore di Connor nell'aria ma il fatto di non
riuscire ad individuarlo lo irritava.
Il ragazzo assicurò meglio i piedi sul
suo ramo d'appoggio e allargò le braccia per mantenere
l'equilibrio. Strinse gli occhi per prendere meglio la mira ma, in
quell'attimo, respirò accidentalmente un fiocco di neve.
Storse il
naso lasciandosi sfuggire una smorfia per il fastidio, e
cercò con
tutte le sue forse di non starnutire; ma inutilmente.
Non riuscì a bloccare quel riflesso
involontario e, nell'atto di tapparsi la bocca con la mano, si
sbilanciò in avanti spezzando una frasca.
Il rumore dello schiocco fu minimo ma
sufficiente ad allarmare l'alce che, infastidita, si diresse al
galoppo verso la radura.
Connor sospirò, maledicendosi.
Pensava che l'addestramento di Achille
fosse servito ad affinargli i riflessi, eppure lui sembrava
addirittura peggiorato in abilità e destrezza da quando
aveva
lasciato il villaggio.
Scese dall'albero atterrando
sgraziatamente tra la neve alta, e si accorse subito dell'errore
commesso. Se un branco di lupi l'avesse attaccato in quel momento, si
sarebbe trovato in una posizione estremamente vulnerabile.
Perciò
saltò sull'albero successivo usando un tronco caduto come
appoggio,
saggiando cautamente con i piedi il legno marcio che scricchiolava
sotto i suoi leggeri passi.
Ratonhaké:ton era avvezzo a convivere
con i pericoli della foresta, non temeva le minacce della natura.
Anzi, c'erano ben altri pericoli disseminati nella vastità
della
Frontiera, di gran lunga più malvagi, dotati di
un'intelligenza
maliziosa e di un'incredibile dose di vigliaccheria.
Connor fece una smorfia quando udì i
canti sguaiati di un gruppo di ufficiali inglesi in pattuglia,
sbronzi probabilmente.
Deciso a tenere sott'occhio la
situazione, avanzò verso quella fonte di rumore che
disturbava il
silenzio della foresta annegata nella neve.
Balzò agilmente di ramo in ramo,
facendo attenzione a non scivolare, e atterrò su un abete
piuttosto
alto, con le fronde sporgenti sulla strada.
In quel momento passò la rumorosa
pattuglia: era un esiguo gruppo di quattro uomini, visibilmente
esaltati dall'alcool ma resi vispi dal mordace freddo continentale.
La tentazione di ingaggiare un combattimento era forte, tanto che il
ragazzo si sporse in avanti con l'intenzione di coglierli di sorpresa
atterrando in mezzo a loro, ma qualcosa lo fermò appena in
tempo.
Con la coda dell'occhio vide una
macchia scura aggirarsi alle sue spalle, proprio sulla curva
successiva della via che attendeva il gruppo di soldati.
Un lupo, parecchio affamato per
giunta.
Ignorò il gruppo di inglesi chiassosi
e rivolse la sua attenzione verso la bestia. L'esperienza gli aveva
insegnato che un lupo non si muoveva mai da solo in pieno inverno, a
meno che non fosse gravemente ferito. E infatti non impiegò
molto ad
individuare almeno altri cinque predatori, non lontani dal
capobranco.
Un sorriso gli si aprì spontaneamente
sulle labbra.
Non c'era bisogno che ingaggiasse
nessun combattimento. La sua alleata più fedele, la natura,
aveva
già provveduto.
Saltò sul ramo dell'albero adiacente e
si diresse verso la tenuta Davenport, lasciandosi alle spalle le
grida dei soldati.
*
Nonostante
la neve alta e la scarsa
visibilità, camminava ad un ritmo piuttosto sostenuto.
Di quel passo avrebbe raggiunto la casa
di Achille sul far della notte, se non avesse incontrato quel piccolo
contrattempo.
«Ratonhaké:ton».
Connor
s'irrigidì, fermandosi all'istante sulla via. Era tanto che
non
sentiva chiamare il suo vero nome, e sapeva che soltanto uno dei
Mohawk poteva chiamarlo in quel modo.
Si
voltò e vide un volto familiare, un volto che gli ricordava
fin
troppo bene casa sua.
«Adahy»,
rispose chinando appena il capo, ma la sua espressione rimase neutra.
Improvvisamente si accorse di non essere tanto distante dal suo
villaggio.
Adahy
aveva diciassette anni, sei mesi in meno di lui, ma un viso
più
spigoloso e maturo, leggermente più pallido e con meno
lentiggini.
Come
Connor, era cresciuto assieme ai Mohawk. Come Connor, aveva perso
delle persone a lui molto care durante l'incendio che uccise
Kaniehti:io: i suoi nonni. Sua madre e suo padre, invece, furono
massacrati dagli inglesi anni addietro.
L'odio
che Adahy nutriva verso quegli spietati oppressori era spropositato
in confronto a quello che avvelenava Connor.
Quest'ultimo
gli fece cenno di seguirlo sugli alberi, com'erano abituati a fare.
Con
le dita fece leva su una protuberanza del tronco per raggiungere la
successiva, puntellando i piedi contro la corteccia scivolosa. In
pochi agili movimenti raggiunse la biforcazione del tronco e
saltò
sul ramo successivo.
Adahy
lo seguì con movimenti altrettanto fluidi e disinvolti.
Connor,
sentendo i suoi passi dietro di sé, si lasciò
sfuggire un sorriso.
All'istante
Achille era svanito dai suoi pensieri, nonostante la luna sorgesse
maculata di neve e lui si fosse ripromesso di raggiungere la tenuta
prima che calasse la notte. Ma il suo mentore avrebbe potuto
benissimo attendere la mattina successiva.
I
due ragazzi si inseguirono in silenzio, tra gli alberi, senza
scambiarsi una sola parola. Con l'aspettativa che infiammava i loro
cuori.
Adahy
stava al passo, anzi, forse superava Ratonhaké:ton in
bravura. Forse
sarebbe stato un Assassino migliore di lui, se solo non fosse stato
così diffidente verso tutto ciò che non
riguardava il suo
villaggio, la sua cultura, il suo popolo.
Come
dargli torto, visto il passato che gli gravava sulle spalle.
Attraversarono
una porzione abbondante di foresta, seguendo il fiume, rimanendo
sugli alberi per non incappare in probabili branchi di lupi affamati.
Poi
si fermarono su un piccolo promontorio spoglio di alberi, illuminato
dalla luna. La neve che cadeva dal cielo stava diventando
più rada.
«Perché
hai lasciato il villaggio? Non sarai un traditore, vero?» Gli
domandò Adahy con occhi sospettosi, non appena si fermarono
sulla
roccia.
Connor
lo guardò negli occhi, scuotendo la testa.
Attese
qualche minuto prima di rispondergli, tempo nel quale tentò
di
riprender fiato. Sfregò le mani tra loro cercando di
riscaldarle,
poi finalmente si decise a parlare.
«Io
penso che tu sia molto coraggioso, rimanere nel forte che sta per
essere assediato, magari per combattere fino all'ultimo insieme alla
tua gente, stentando, arrivando persino a sacrificarti».
Prese
un respiro, guardando i suoi occhi neri colmi di risentimento. Sapeva
che per Adahy la sua “fuga” dalla valle Mohawk
equivaleva ad un
abbandono. E se ne dispiaceva.
«Ma
io non sono così. Io ho preferito uscire dalla fortezza,
ricercare i
motivi di quest'odio, studiare i miei nemici e, magari, prevenire
l'assedio. Io non ce la faccio a morire in trappola come la mamma.
Non riuscirei a sopportare l'idea».
Adahy
strinse gli occhi, turbato. Guardava Connor come se volesse cercare
ombra di menzogna sul suo viso, ma non ne trovò. Lesse
soltanto
dispiacere, paura e, allo stesso tempo, euforia. Un'enorme forza di
volontà, volontà di cambiare le cose, di
imparare, di fare delle
domande e ricercarne le risposte.
«Chiamala
codardia, chiamala indole, chiamala come preferisci. Questa
è la
verità del mio sentire».
«E
cosa senti oltre a questo, Ratonhaké:ton?» Gli
chiese
avvicinandoglisi, afferrandogli una mano con delicatezza, com'erano
abituati a fare tra di loro.
Connor
si appoggiò al tronco d'albero alle sue spalle, cercando di
interporre ulteriore distanza tra sé ed Adahy.
Abbassò
lo sguardo, ascoltando il rumore soffice della neve che cadeva
coperto dal battito del suo cuore.
Una
punta di vergogna gli stuzzicò il petto. Se voleva diventare
un
Assassino, doveva cominciare con il sopprimere la paura e il turbine
dei sentimenti.
Ma
in fondo, cosa ci poteva mai essere di sbagliato in un bacio, nel
toccarsi, nel fare l'amore? Questa era una di quelle cose che Achille
tentava di insegnargli, e che Connor non arrivava a comprendere.
«Sento
che è in arrivo un grande male per tutti noi».
Connor
sentiva il respiro caldo di Adahy sul mento. Una sensazione familiare
gli offuscò la mente, ed avvertì uno strano
formicolio pervadergli
l'addome.
Si
baciarono con naturalezza, scambiandosi pochi caldi tocchi.
Connor
inclinò la testa e grattò nervosamente la
corteccia dell'albero cui
era appoggiato, impolverandosi le unghie.
Tra
tutte le cose a cui poteva pensare in quel momento, gli venne
spontaneo riflettere sulla differenza che intercorreva tra il mondo
dei coloni e il loro. Nessuno dei Mohawk si era mai dato pena nel
vivere la propria vita con naturalezza, con spontaneità,
proprio
perché i loro bambini crescevano immersi nella natura
più libera e
selvaggia. Veniva insegnato loro il rispetto, l'esistenza di un
qualche cosa di superiore e sacro impossibile da afferrare,
l'esistenza di un ecosistema fragile da preservare, da curare, da
accogliere con gioia. Non vi era bisogno di moralità,
ciò che era
in accordo con la natura era di conseguenza giusto e legittimato.
L'amore
era giusto. L'amore era innocuo ed apparteneva alla natura. L'amore
era una buona cosa.
«Tu
mi mancherai Adahy», disse Connor dandogli un altro bacio,
bagnandosi le labbra del suo sapore salato.
Gli
sarebbe mancato davvero, non far più l'amore con lui, di
nascosto,
in luoghi che conoscevano soltanto loro, in anfratti che solo due
aquile avrebbero potuto raggiungere. Non inseguirlo più tra
i rami.
Non sentire le sue silenziose risate a bocca chiusa.
Connor
sapeva qual era il suo timore più grande, glielo leggeva
negli
occhi. Aveva paura che cambiasse, che venisse corrotto dalla
civiltà
dei coloni, che non tornasse più tra la sua gente.
«Sei
sempre stato fin troppo ostile ad ogni cambiamento Adahy»,
soffiò
il ragazzo sorridendo divertito. «Così come farai
ad abituarti
quando inizierete per davvero a vivere in pace?»
Detto
questo, Connor fece per divincolarsi dalla sua debole stretta, ma
Adahy lo trattenne poggiandogli due mani sulle spalle.
«Noi
abbiamo già conosciuto un mondo in pace,
Ratonhaké:ton. Aspettiamo
solo che ci venga restituito».
Connor
sentì il cuore sobbalzargli in petto.
Aveva
ragione.
Aveva
capito.
Poggiò
a sua volta un braccio sulla spalla destra di Adahy, e sorrise.
«Non
ti dimenticherò Adahy, te lo prometto».
Adahy
lo guardò allontanarsi con un mezzo sorriso sulla bocca,
consapevole
che non l'avrebbe rivisto mai più.
Ora
sapeva che doveva riporre in lui le sue speranze. O meglio, quello
che rimaneva delle sue speranze.
La
neve continuava a cadere sui profili della Frontiera, lenta e
indelebile.
La
neve non cancellava le tracce di un Assassino che cresceva.
Che
avrebbe ridato la libertà al suo popolo.