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Autore: BlackPearl    27/12/2012    15 recensioni
Amanda Ford va a fare la spesa: viso struccato, tuta sgualcita, capelli inguardabili.
Non avrebbe mai immaginato di incontrare Chris Evans nell'ascensore del suo palazzo.
Meno che mai si sarebbe aspettata che l'ascensore si bloccasse.
C’era un motivo ben preciso per cui non prendevo mai gli ascensori, a prescindere dal punto di vista “sociale” della cosa.
«Ehi, tranquilla, ho dato l’allarme, dovrebbero risolvere la cosa in poco tempo...» Il ragazzo di fronte a me provò a rassicurarmi con un tono gentile e un sorriso ottimista, che andò a scemare quando vide che da parte mia c’erano solo occhi sbarrati e respiro pesante.
«Ti... ti senti bene?» Fissavo le porte chiuse, serrate, le orecchie tese sul silenzio tutt’intorno.
«Io... non prendo mai l’ascensore.» Mi sentii dire, con una voce da oltretomba; iniziavo ad avvertire la fronte imperlarsi di sudore.
Chris capì subito.
«Oh, cazzo.»
[clau-stro-fo-bì-a] s.f.: Paura morbosa dei luoghi chiusi.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chris Evans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando ti trovi in un Carpe Diem hai sempre qualcosa fuori posto.

~ Una viandante, su Twitter.

 

 

 

Panico.

[pà-ni-co] s. m.: Forma di paura compulsiva e irrefrenabile, che spinge un individuo o un gruppo a comportamenti irrazionali e talora pericolosi, dettati dall'istinto di sopravvivenza.

Com’è facile leggerlo sul dizionario e immaginare una folla scalpitante che si sparpaglia in un grande luogo con le gambe in spalla e le braccia al cielo.

Quando succede a te, soltanto a te, e non sai come porvi rimedio è un altro paio di maniche.

Se poi ti succede quando sei in compagnia, figuriamoci.

Se poi la compagnia in questione porta il volto del ragazzo per il quale sbavi copiosamente dalla notte dei tempi, allora un sonoro vaffanculo ci sta proprio tutto.

 

 

La spesa.

Tutte le donne di età compresa tra i diciotto e i settant’anni vanno tranquillamente a fare la spesa ogni giorno o quasi, e ne escono indenni e vittoriose.

In effetti, anch’io ne ero uscita indenne e vittoriosa, coi miei bei due sacchi di carta color topo abbronzato e tanto bel cibo da preparare per la cena di quella sera. Avevo invitato i miei due nipotini, Hannah e Joseph, rispettivamente sette e cinque anni, a mangiare da me. Grazie al mio lavoro – commessa in una videoteca, non pensate chissà cosa – ero riuscita ad ottenere una copia gratis e in anticipo di Monsters University, prequel di Monsters & Co., che sapevo era piaciuto tanto alle due piccole pesti, e così avevo deciso di organizzare a casa mia per guardarlo insieme davanti a qualche piatto più gustoso che sano.

Era una pallida domenica di giugno. Il sole iniziava a farsi vedere più spesso in quel di Boston, illuminando gli innumerevoli complessi condominiali che si innalzavano in giganteschi parallelepipedi di muratura. Il Boston Public Garden era gremito di famiglie e coppie spensierate, bambini sgambettanti correvano in lungo e in largo e animavano la giornata di chi, in solitaria, se ne stava contro un albero a leggere un libro nel suo angolino di relax. Attraversai la strada, sbirciando tra i due sacchetti per assicurarmi che nessuno mi investisse nel farlo – non dico che la guida dei bostoniani si possa paragonare a quella folle e spericolata degli egiziani, ma quasi – e imboccai Arlington Street, dove il solito nugolo di gente in uscita dalla metropolitana mi serrò nella sua morsa di corpi di varia taglia e statura, ciascuno diretto in posti differenti.

«Amanda!» Mi voltai sentendomi chiamare e incrociai il volto sorridente di Stephen, un mio “amico” – cotta storica – dei tempi dell’università. O meglio, di quell’unico anno in cui provai a frequentarla.

«Stephen! Come stai?» Rallentai il passo per permettergli di raggiungermi e allargai le braccia per spostare i sacchetti dal viso quando si chinò per darmi due baci sulle guance.

«Io benone, e tu?»

In quel momento riflettei sul mio stato, più fisico che mentale. Ero uscita di casa, contrariamente a come ero abituata a fare, in piena tenuta casalinga: indossavo i pantaloni di una vecchia tuta sgualcita ma super comoda, con una carinissima macchia di smalto sul davanti, rigorosamente allargata nel tentativo di mandarla via con l’acetone – sì, sono un genio, lo so – e sopra avevo infilato una maglia a mezze maniche di un grigio pallido e anonimo, con una stampa acrilica ormai sbiadita di una bandiera inglese. Quelle cose che indossi per disperazione, quando ti scocci perfino di abbinare i colori.

Sembravo uscita da uno di quei fashion reality che mandavano in TV, dove il guru di turno accoglieva sotto la sua ala protettiva un disastro ambulante per trasformarla in uno splendido cigno. Proprio io, Amanda Ford, che non avevo mai messo piede fuori di casa senza essere come minimo presentabile. Ma si sa, lo dice la legge di Murphy che se qualcosa può andare storto, lo farà.

 

Postulato di Amanda Ford: I migliori incontri, per una donna, accadranno sempre quando lei sarà estremamente impreparata.

Corollario:

1.     Il grado di impreparazione sarà direttamente proporzionale al piacere che avrebbe potuto trarre da quell’incontro. Avrebbe potuto, perché conciata così sicuramente non ne trarrà nessuno.

 

«Ehm, bene. Un po’ indaffarata...» Ridacchiai nervosamente e cercai di nascondermi il più possibile dietro la spesa. Non solo il mio abbigliamento ricordava una profuga del Ghana, ma a pensarci bene avevo anche i capelli sporchi. Liane scure e lucide sfuggivano dalla coda in cui le avevo costrette – almeno avevo avuto il buon senso di non tenerli sciolti – e incorniciavano il mio viso, che qualche traccia di trucco della sera prima rendeva forse meno peggio del previsto.

«Cenone?» Chiese lui, sbirciando in una busta. Dio, non ho messo nemmeno una goccia di profumo, pensai, atterrita. Altra cosa immancabile nel mio outfit, perfino nel più casual. Ma dove avevo la testa quel pomeriggio?

Nell’ennesima delusione del sabato sera concluso a tu per tu con un barattolo di gelato, forse?

Se non altro avevo abbondato col bagnoschiuma. Quel pensiero mi consolò, e mi apprestai a rispondere alla domanda del mio interlocutore.

«Sì, ho i miei nipotini a cena, stasera.» Dissi, e nel riascoltarmi capii che il mio stato di singletudine – pericolosamente vicino alla zitellaggine – era talmente evidente che quasi mi vergognai di avergli detto la verità. Cosa c’è di più triste di una ventottenne che invece di uscire resta a casa coi propri nipoti a guardare un cartone animato e a ingozzarsi di schifezze?

Poche cose, davvero.

«Oh.» Il suono sorpreso che gli schiuse le labbra mi fece intuire che Stephen era dello stesso avviso. Dovevo cambiare argomento, prima di degenerare in un imbarazzo totale da parte mia e in frasi di circostanza da parte sua. Oltretutto, non sapevo per quanto tempo ancora avrebbe camminato al mio fianco.

«E tu dove vai così elegante?» Indicai con un cenno del capo il suo completo gessato completo di camicia, cravatta, fazzoletto e gemelli. Che coppia stramba dovevamo sembrare. Come i calzini spaiati che dopo il giro in lavatrice si ritrovano vicini sul filo del bucato: quello carino che puoi permetterti di mostrare sotto i jeans e quello logoro e puzzolente, nonostante il lavaggio, che indossi per casa quando fa freddo e che ha pure i gommini antiscivolo sotto.

«Colloquio di lavoro. In realtà è tutto definito, è solo una questione di formalità.» Spiegò lui tronfio e soddisfatto, e io, sebbene non avessi alcuna voglia di chiedergli per quale lavoro avesse ottenuto il colloquio, ben sapendo che mi sarei sentita un autentico sterco di bue dopo, mi costrinsi a farlo per educazione.

«Broker.» Rispose lui, gonfiando talmente il petto che temetti di vederlo volare via. Ma certo, broker. Già ce lo vedevo, tra un paio d’anni, in uno di quegli articoli sugli scapoli d’oro al di sotto dei trenta. E io avrei potuto dire “Frequentavamo lo stesso corso di economia all’università! E l’ho persino incontrato fuori alla stazione della metro prima che diventasse un importante uomo d’affari conosciuto in tutto il Massachusetts. Peccato che allora sembrassi la sorella sfigata della Piccola Fiammiferaia, perché anni addietro avevo avuto anche l’occasione di baciarlo!”

Già.

Finalmente, un po’ perché avevo volutamente affrettato il passo, un po’ perché prima o poi tutte le strade finiscono, ci ritrovammo all’incrocio con la Columbus Avenue, dove io avrei svoltato a destra e speravo vivamente che lui non facesse altrettanto.

Rallentai fino a fermarmi e poi mi voltai a guardarlo: «Io giro qui.» Dichiarai esitante, e trattenni il fiato mentre aspettavo la risposta che avrebbe prolungato o messo fine alla mia agonia.

«Io proseguo.» Soffiò lui, facendomi espirare dal sollievo. «È stato un piacere rivederti, Amanda.» Disse, e vidi distintamente il sorriso gelarsi quando passò lo sguardo sulla leccata di mucca che avevo al posto dei capelli.

«Anche per me, Stephen.» O almeno, lo sarebbe stato se mi avessi incontrato, che so, ieri. Ricambiai l’abbraccio impacciato che tentò di offrirmi, e ripresi a camminare verso casa con il terrore di incontrare qualcun altro. Mi eclissai quanto più potevo dietro la spesa, lasciando a malapena una fessura per vedere dove mettevo i piedi e agognando la quarantena nelle quattro mura domestiche come mai avevo fatto prima.

Il sole batteva inclemente su ogni superficie illuminata, me compresa. Iniziavo a sentire davvero caldo, a giudicare dalla sensazione di appiccicaticcio che avvertivo, oltre che nei capelli, anche alla base della nuca.

Procedetti a zig-zag tra le auto accostate al marciapiede e imboccai la strada dove abitavo, immensamente confortata dalla vista familiare del palazzo dipinto di un color cremisi un po’ stinto. Salutai l’inquilina del piano terra con un timido sorriso e allungai un’occhiata disperata alle scale. Di solito non era un problema salire a piedi, nonostante abitassi al quinto piano. Lo consideravo un esercizio fisico, visto che non avevo molto tempo e voglia per andare in palestra, e gli ascensori comunque non mi erano mai piaciuti. Quel pomeriggio, però, decisi di fare un’eccezione perché ero esausta. Avevo trascorso la mattina a pulire casa, trovando solo il tempo per una doccia prima di scendere a fare la spesa. Adesso i sacchetti iniziavano a pesare, e sentivo troppo caldo per affrontare tutti quei gradini in salita.

Entrai nella cabina dall’odore metallico e inorridii quando incrociai il mio riflesso nello specchio. Santa me, cos’erano quei capelli?! Appoggiai un sacchetto per terra e mi portai le ciocche penzolanti dietro le orecchie, con una smorfia di puro disgusto e di crescente vergogna al pensiero che Stephen mi avesse visto in quelle condizioni. Appunto mentale: mai, e dico MAI più uscire di casa senza aver fatto un check-up completo allo specchio per almeno venti minuti. Nemmeno per andare a prendere la posta nell’androne del palazzo.

E quello cos’era? Un principio di brufolo?

Piagnucolai osservando il lieve rigonfiamento rosso sul mento e mi pizzicai le guance per cercare di amalgamare il colore, così da farlo notare meno.

«Un momento!» Trattenni il fiato quando una mano si infilò tra le porte dell’ascensore ormai in chiusura, e per poco non venne spappolata come chicchi di caffè in un macinino.

«Oddio, che tempismo.» Commentai spaventata e allo stesso tempo lieta di non aver dovuto assistere a uno spettacolo degno di Saw IV.

Pensai a cosa sarebbe successo se le porte si fossero chiuse e l’ascensore fosse partito con la mano incastrata, ma non feci in tempo a mettere a fuoco l’immagine nella mia testa perché quella che mi si presentò davanti agli occhi mi mise completamente al tappeto.

«Ciao.»

Nel lasso di tempo in cui queste quattro lettere furono pronunciate, desiderai fortemente di essere sola per potermi inginocchiare con le gambe leggermente divaricate e, dopo aver alzato occhi e braccia al cielo, urlare: “PERCHÉ A ME?!”

«Ciao.» Quel sussurro era solo un pallido eco della mia voce naturale, smorzata dalla sorpresa mista a sgomento che si impadronì delle mie cellule alla vista dell’uomo che era appena entrato nell’ascensore. Lo vidi schiacciare il tasto dell’ultimo piano, gesto che confermò la sua identità.

 

2.     Qualora la donna credesse che il peggio sia passato, beh, dovrà rivedere le sue convinzioni, perché il peggio deve ancora venire.

 

Non è possibile.

L’ascensore partì con un ronzio, muovendosi lento all’interno del vano predisposto nell’edificio. L’uomo si appoggiò alla parete di fronte alla mia e si guardò allo specchio, sistemandosi i folti capelli castano chiaro con particolare cura. Osservai le sopracciglia inarcate per la concentrazione e i suoi occhi blu che seguivano i movimenti della mano. Gli stessi occhi che incrociarono i miei, nello specchio, sorprendendomi a fissarlo. Sorrise.

Provai a ricambiare ma fallii miseramente quando spostai lo sguardo dal suo riflesso al mio, cadendo in uno stato di tremendo sconforto.

 

3.     La tragicità della situazione renderà la donna amaramente pentita dell’aver desiderato quell’incontro almeno una volta nella vita.

4.     Paradossalmente, l’avvenimento funesto avrà stretto collegamento con una delle scelte compiute dalla donna immediatamente prima dell’incontro, portando la stessa a rodersi il fegato per non aver scelto diversamente (Es.: prendere l’ascensore invece delle scale).

 

Li avevo sempre odiati, gli ascensori. Avevo sempre odiato, in linea generale, tutti i luoghi chiusi e angusti in cui si è costretti a stare a contatto con gente – perlopiù sconosciuti – e a subire quel fastidioso silenzio imbarazzante che nessuno prova a riempire nemmeno per sbaglio.

Immaginate soltanto come dovetti sentirmi quando la “gente”, in quell’occasione, era eccezionalmente rappresentata da un attore di fama internazionale, al secolo conosciuto come Christopher Robert Evans.

Cinque piani. Sono solo cinque miseri piani. Perché ne sembrano quarantacinque?!

I numeri rossi in alto lampeggiavano troppo lentamente, c’era decisamente qualcosa che non andava. Oltre a tutto il resto, ovviamente. Per esempio, il fatto che un attore di cui ero perdutamente cotta, nonostante la veneranda età, avesse deciso di tornare ad occupare il suo loft, vuoto per la maggior parte dell’anno, proprio quel pomeriggio. Di tutti i giorni in cui Chris Evans sarebbe potuto tornare nella sua città natale, precisamente nel suo appartamento a Chinatown, aveva scelto proprio quel pomeriggio. O magari era tornato già da qualche giorno, ma la mia sfiga era tale e tanta che di tanti giorni in cui avrei potuto incrociarlo, era capitato proprio quel pomeriggio! Ma si può? No. Era tutto sbagliato. Sbagliatissimo. Non c’era il pulsante “rewind” per tornare indietro e-

TTTRRUUUIIIEEEEEEEMMSSGJGIYAJAJKAKMHGHHZAKHAADFSORJSSSSSSST.

Fu questo il rumore che fece l’ascensore quando si bloccò, a metà corsa. A un piano dal quinto, a un piano dalla salvezza. Uno, capite? Ne mancava uno.

 

5.     La probabilità che, durante l’incontro funesto, il “resto” vada tutto liscio è inversamente proporzionale al piacere tratto dall’incontro. O, in parole semplici: quando qualcosa non può andar peggio di così, fidatevi, lo farà.

 

«No.» La mia espressione di puro shock si può tranquillamente paragonare a quella dello squalo balena in piena fase di nutrimento: bocca esageratamente spalancata e faccia vagamente inebetita.

Chris Evans si avvicinò alle porte dell’ascensore e batté una mano sulla superficie metallica due volte, borbottando qualcosa a mezza voce che aveva tutta l’aria di un’imprecazione. Si guardò intorno, alla ricerca del pulsante di emergenza, e lo schiacciò ripetutamente, generando il tipico rumore di allarme che sparì dopo una manciata di secondi.

Fu solo dopo aver premuto tutti i tasti possibili e immaginabili che si voltò a guardarmi. Non dovevo avere un bell’aspetto. Cioè, sapevo di non avere un bell’aspetto, ma in quel momento non dovevo avere per niente un bell’aspetto.

C’era un motivo ben preciso per cui non prendevo mai gli ascensori, a prescindere dal punto di vista “sociale” della cosa.

«Ehi, tranquilla, ho dato l’allarme, dovrebbero risolvere la cosa in poco tempo...» Il ragazzo di fronte a me provò a rassicurarmi con un tono gentile e un sorriso ottimista, che andò a scemare quando vide che da parte mia c’erano solo occhi sbarrati e respiro pesante.

«Ti... ti senti bene?» Fissavo le porte chiuse, serrate, le orecchie tese sul silenzio tutt’intorno.

«Io... non prendo mai l’ascensore.» Mi sentii dire, con una voce da oltretomba; iniziavo ad avvertire la fronte imperlarsi di sudore.

Chris capì subito.

«Oh, cazzo.»

[clau-stro-fo-bì-a] s.f.: Paura morbosa dei luoghi chiusi.

I colpi che sferrò sulle porte mi riscossero in qualche modo dallo stato di trance in cui ero precipitata.

«C’è nessuno?! Mi sentite?! Siamo bloccati nell’ascensore! Aiuto!» Iniziò a gridare, senza però ricevere alcun segnale di vita in risposta. L’unico rumore da qualche minuto a quella parte era lo stropiccio della carta ruvida del sacchetto che ancora reggevo e che avevo preso a stritolare con le dita.

Chris abbassò lo sguardo sulle mie mani e vidi un lampo di disperazione attraversargli il volto. Si avvicinò lentamente e con molta delicatezza mi sfilò il sacco dalle mani, poggiandolo per terra accanto all’altro.

«Come ti chiami?» Mi disse, tornando davanti a me. Io lo guardai, col cuore nelle orecchie, la sudorazione fredda e un principio di vertigini.

«Amanda.» Scandii con un filo di voce. Non dovevo farmi prendere dal panico. Chris aveva ragione: avevamo dato l’allarme, non ci avrebbero mica lasciati lì per sempre.

Non pensare alle riserve d’ossigeno.

«Amanda, che bel nome. Io sono Christopher, Chris per gli amici.» Allungò una mano che io guardai come se avesse venti dita.

«Lo so chi sei.» Risposi stizzita. Volevo solo uscire da lì, uscire e farmi uno shampoo!

Inspira, espira.

«Oh. Bene. Ehm, da quanto abiti qui?» Chiese lui, dopo aver controllato il cellulare che naturalmente non aveva un briciolo di segnale.

«So cosa stai facendo.» Mormorai, le dita serrate attorno al corrimano. «Vuoi distrarmi. Non ce n’è bisogno.»

Chris scoppiò a ridere, infilando le mani in tasca e poggiando la schiena alla parete. Si strinse nelle spalle. «D’accordo. Se lo dici tu...»

Certo, trattalo male! Non solo sei impanicata come un uccellino in trappola, ma sei pure conciata come Britney Spears appena uscita dal rehab. E hai il coraggio di zittire Chris Evans che voleva solo darti una mano.

Mentre indugiavo in quei pensieri, l’ascensore sussultò, come in una scossa di assestamento. Durò pochi secondi, ma bastò a farmi cacciare un urlo di parecchi decibel.

«Non posso morire qui dentro!» Gridai, e presi a tirare calci alla porta, col risultato che mi feci male da sola. Tornai ad addossarmi alla lamiera plastificata della cabina e mi presi la testa tra le mani, trattenendo a stento un singhiozzo.

«Ehi, ehi, Amanda... no...» Sentii le mani calde di Chris avvolgere le mie, senza spostarle dal mio viso. «Amanda, guardami. Guardami, per favore.» Non riuscivo a respirare. Allontanai una mano e feci come mi disse, tuffandomi in quell’azzurro tendente al verde che erano i suoi occhi.

«Respira. Ecco, così.» Iniziò a inspirare profondamente con me, forse per non farmi sentire sola nello sforzo. «Piano, più piano.» Espirò lentamente e io lo imitai. Dopo qualche tentativo riuscii a ritrovare il mio respiro regolare.

Nonostante la complessità della situazione, non potei fare a meno di considerarne la sua comicità: il viso di Chris Evans era a una manciata di centimetri dal mio. Volendo, avrei potuto tranquillamente prenderlo tra le mani e baciarlo.

Ricordai un recente “cinguettio” di una ragazza che seguivo su Twitter: quando ti trovi in un Carpe Diem hai sempre qualcosa fuori posto. Definire “fuori posto” una crisi di panico, un abbigliamento tragico e un aspetto agghiacciante era davvero un eufemismo, ma ci aveva preso in pieno. Se inizialmente avevo descritto il mio abbigliamento come una “tenuta casalinga”, in quel momento mi sentii di rettificare: “tenuta casalinga antistupro, antisguardi e antipensieri, e conseguentemente pro vomito, pro raccapriccio e pro incubi.”

«Ti senti meglio?» Mi domandò, apprensivo. Sì, mi sentivo meglio, ma non riuscivo ad annuire per farglielo capire. Lui guardò ancora una volta le porte dell’ascensore, con la fronte corrugata e una supplica negli occhi.

«Okay, facciamo una bella cosa. Vieni qui.» Con un sorriso sbirciò il pavimento in gomma della cabina e si sedette, piegando le gambe per stare comodo. Poi allungò una mano per invitarmi a fare lo stesso. Dovette ripeterlo due volte prima che mi muovessi. Feci due passi e mi lasciai scivolare sul pavimento, stringendo le ginocchia al petto e poggiandovi la testa sopra. Uhm. Vista da lì, la cabina sembrava meno piccola.

«Quattro anni e mezzo.» Riuscii a dire, rompendo il silenzio che tanto odiavo in occasioni come quelle. Chris mi guardò, sorpreso che avessi parlato.

«Abito qui da quattro anni e mezzo.» Spiegai, sollevando le labbra dalla stoffa della tuta che mi smorzava la voce. Guardai Chris che mi scrutava curioso, un sorriso appena accennato.

«Non ti ho mai vista. Io vivo qui da… beh, tanto.» Parlò piano, come se il minimo rumore potesse infrangere lo stato di quiete in cui ci trovavamo. «Conosco Missy, John… il musicista del quarto piano, come si chiama?»

«Mark.» Gli venni in aiuto, mentre enunciava i nomi degli inquilini che conosceva, contandoli sulle punte delle dita.

«Già, Mark! Poi conosco gli Adams, con tanto di figli pestiferi… Frank e Honey, dell’ottavo…» Si batté l’indice sulle labbra, concentrato sull’argomento. «E basta, credo. Forse sono un po’ pochini, in effetti.» Fece una smorfia crucciata.

«Forse non si può dire che tu ci viva, qui.» Commentai con un sorriso. Lui sogghignò, annuendo. Poi mi guardò stringendo gli occhi e puntandomi il dito contro.

«Quinto piano, eh? Ma nel tuo appartamento non c’era la signora con l’esercito di gatti che disseminava quelle scatolette puzzolenti su tutto il pianerottolo?» Scoppiai a ridere per il modo in cui lo disse, storcendo il naso al ricordo dell’odore pungente che avevo conosciuto bene anch’io. Abbassai lievemente le gambe, rilassandomi a poco a poco.

«Quell’odore ha infestato il nostro piano per mesi. Clark, il mio dirimpettaio, ha dovuto bruciare i tappeti e ogni tipo di oggetto che aveva visto il passaggio di quelle bestie infernali!» Ripensai al falò sulla spiaggia a Pleasure Bay e sorrisi; quanto mi mancava quel pazzo furioso! Da quando si era fidanzato non lo vedevo praticamente mai. «Quindi ricordi la mia “predecessora”?» Lo imbeccai, e lui annuì.

«Ricordo di averle imprecato contro due o tre volte mentre scendevo le scale e quella puzza di gatti si attaccava ai vestiti manco fosse amido spray per camicie!» Ridemmo ancora; mi ritrovai a pensare che era davvero simpatico.

«È morta.» Dissi, tornando apparentemente seria, e lui strabuzzò gli occhi.

«È morta?!» Ripeté sconcertato.

«Sì, qualche giorno prima che mi trasferissi qui. Avrei dovuto occupare l’appartamento di fronte a Frank, ma fortunatamente – o sfortunatamente, insomma, dai punti vista – si liberò quello al quinto piano. Molto più comodo per una che non prende l’ascensore.» Ridacchiai, imbarazzata.

«Però se avessi scelto quello all’ottavo ti avrei conosciuta prima.»

Le sue parole mi fecero agitare il cuore, che ero riuscita a calmare con non poco sforzo. «Ma avresti continuato a imprecare contro i gatti della signora.» Replicai, alzando un sopracciglio. Lui rifletté sulla cosa arricciando le labbra e poi si strinse nelle spalle.

«Hai ragione.» Annuì. «Da dove ti sei trasferita?»

«Los Angeles. Santa Monica, in realtà. Sono nata lì.»

«E come mai sei andata via? Se si può sapere, ovviamente….» Alzò le mani, esitante.

Sospirai, pensando alla banalissima storia trita e ritrita che era la mia vita. «Semplice e banale: storia finita male, ho abbandonato tutto e ho deciso di cambiare aria. Boston mi sembrava tranquilla…»

«Lo è.» Commentò lui, sorridendo. «Io la adoro. Vorrei passare molto più tempo qui…» Con lo sguardo fisso su un punto imprecisato si perse a raccontare della quotidianità che riusciva a ritrovare tra le braccia della sua città natale. «Il modo in cui riesco a rilassarmi qui non ha pari in nessun’altra città al mondo. Se solo penso al giardino pubblico, di sera… c’è un orario particolare, tra le nove e le dieci, in cui non c’è mai nessuno e puoi davvero goderti la solitudine, l’anonimato… ci sei solo tu, il lago, gli alberi… è splendido.» Disse, guardandomi. «Per non parlare di Little Brewster… wow. Ci vado ogni volta che posso. Non è splendida?» Mi chiese, con gli occhi che brillavano.

Lo guardai titubante. «Mmm… sì?»

Chris corrugò la fronte. «Non dirmi che non l’hai mai vista.»

«…no.» Ammisi, imbarazzata.

«Come no?! Vivi a Boston da quattro anni e non sei mai stata su quell’isola? Non hai mai visto il Boston Light?!» Scossi la testa e lui spalancò la bocca. «È uno dei miei posti preferiti! Oh, c’mon!» Batté le mani con la solita enfasi che usava nel gesticolare, le sopracciglia sollevate in una smorfia sorpresa e le labbra schiuse, incapaci di proferir parola.

Feci spallucce, sorridendo timidamente.

«Devi andarci. Non puoi non vederla.» Disse, convinto. Scuoteva la testa tra sé, sembrava non riuscisse davvero a crederci.

«Mi ci porti tu?» Scherzai, ridendo.

«Non c’è problema. Quando sei libera?» Stava ridendo anche lui, quindi lasciai cadere l’argomento e appoggiai la testa alla parete dietro di me.

«Mhmm… stai ignorando la mia domanda. Questo fa male all’autostima, sai?» Lo guardai: stava scuotendo la testa lentamente con la mano sul cuore e gli occhi lucidi. Risi.

«Sempre detto che sei un attore davvero bravo.» Commentai, impressionata.

«E tu sei un’evasiva di prim’ordine.» Strinse appena gli occhi, cercando di leggermi dentro. «Non ti piaccio.» Annuì lentamente, come se nel suo cervello stesse avendo luogo una conversazione sull’argomento. «Non ti piaccio e stai rifiutando il mio invito in modo molto educato. Va bene, lo capisco. Non posso piacere a tutte.» Sollevò le spalle muscolose e guardò davanti a sé. Perché le sue sopracciglia erano illegali?

«Mi piacciono le tue sopracciglia.» No. Non l’ho detto davvero.

Per tutta risposta, Chris corrugò la fronte, arricciando quei due strumenti di tortura psicologica e mentale e fisica e… erotica.

«Le mie sopracciglia?» Ripeté, alzandone una.

«Lo fai apposta? Ah, Dio. Sì, le tue sopracciglia. Posso dire senza ombra di dubbio di essere innamorata delle tue sopracciglia.»

«Le mie sopracciglia.» Chris serrò le labbra, che si gonfiarono fino a scoppiare in una risata. Sorrisi anch’io. Ma sì, ormai eravamo in ballo, con la tuta e il brufolo in vista, e balliamo.

«Scusa, è che non me l’ha mai detto nessuno.» Disse, tornando serio. Sollevò lo sguardo come a potersi davvero osservare le sopracciglia, poi lo posò su di me. «Cos’hanno le mie sopracciglia? Ho sempre ricevuto complimenti per i miei occhi, per la mia bocca, per il mio fisico, per il mio…» Sorrise, allusivo, e io gli assestai una gomitata nel fianco. Ridemmo. «Insomma, le sopracciglia mi sono nuove.»

Feci spallucce. «Sono talmente espressive. Danno quel tocco in più ad ogni cosa che dici, ogni sguardo che fai. E lasciano sempre presagire che tu stia pensando a qualcosa di malizioso.»

Lui distese le labbra in un sorriso, scoprendo i denti, e, per l’appunto, sollevò spalle e sopracciglia insieme. «Beh…» Soffiò, in un’ammissione di “colpa”.

«Sei proprio come ti avevo immaginato.» Annuii, perdendomi nelle sue iridi azzurre. «Nice and naughty.» A queste parole, Chris scoppiò in una sonora risata.

«Sei davvero simpatica.»

Sarei anche carina se avessi speso dieci minuti della mia vita nell’armadio. Non dico dal parrucchiere, ma almeno nell’armadio.

Altra scossa, altro acuto da parte mia. La mia mano corse ad afferrare quella di Chris senza nemmeno pensarci, mentre fissavo la porta paralizzata dal terrore.

«Le riserve di ossigeno. Oddio. Moriremo qui dentro. Oddio, non riesco a respirare.»

Volevo piangere, urlare, uscire, alzarmi. Volevo che il mio cuore smettesse di battere così veloce e che le mie mani smettessero di tremare come prima di uno svenimento. Volevo sdraiarmi, perché smettesse di girarmi la testa.

«Oh, no no no, Amanda! Amanda, apri gli occhi. AMANDA, apri... merda!»

Io riuscivo a sentirlo. Le sue parole mi arrivavano alle orecchie forti e chiare, ma non riuscivo a muovermi. Non volevo muovermi. Il mio corpo era attraversato da ondate di calore e brividi freddi, talvolta in contemporanea. La testa leggera mi dava l’idea di stare in volo.

«Amanda!»

«Mmh...» Sentii il mugolio strascicato ancora prima di capire che apparteneva a me. Ripresi coscienza del mio corpo formicolante e freddo quando avvertii un fastidioso battere sulle mie guance. Prima una, poi l’altra.

«Amanda, forza, svegliati!»

Schiusi le palpebre con uno sforzo tremendo e incrociai gli occhi preoccupati di Chris. Mi guardavano dall’altro in basso. Erano diventati di un blu chiaro e intenso, e sorridevano.

«Adesso posso dire che le ragazze mi svengono letteralmente addosso.»

«Cosa?» Aggrottai la fronte e cercai di interpretare le sue parole. Quindi, con un po’ di concentrazione e di percezione del mio corpo realizzai di essere distesa tra le sue braccia, la testa sorretta dalla sua mano destra e l’altra a cingermi la schiena.

Oh, bene.

Io, il mio brufolo e i miei capelli mostruosi in braccio a Christopher Robert Evans.

Surrealismo mode: ON.

«A cosa pensi? Sei svenuta di nuovo con gli occhi aperti?»

«No, pensavo a come mi sentirò di merda quando la sveglia suonerà e capirò che è stato solo un sogno.» Dissi, catatonica. Perciò adesso ti abbraccio e non ti lascio più andare, sigh.

Avrei davvero voluto farlo. Avrei azzardato quella mossa se i miei capelli non fossero stati così vicini al suo viso.

«Mmm. Non so cosa ci sia di bello in una crisi di panico e in un ascensore bloccato...» Incalzò lui, guardandomi con l’aria di chi aveva perfettamente capito che non mi riferivo a quello. «...ma se può consolarti siamo svegli e arzilli, sono le cinque del pomeriggio e fortunatamente siamo al fresco.»

La cosa assurda era che continuava a tenermi tra le braccia. E io, naturalmente, lo lasciavo fare.

«Sono le cinque?!» Quando riascoltai mentalmente le sue parole per trovare una risposta, sbarrai gli occhi e mi tirai a sedere. «No! Devo andare a casa!» Sbuffai, passandomi una mano sul viso. Mi alzai e iniziai a premere tutti i pulsanti accanto alla porta, sperando che si sbloccasse qualcosa. Chris mi guardava tranquillo e si mise comodo, con una gamba distesa e l’altra piegata a sostenergli il braccio.

«Scusate?!» Urlai a quello che doveva essere stato, in tempi gloriosi, un interfono. «Io avrei da fare! Quando vi decidete a tirarci fuori?!»

«Magari se lo chiedi per favore...» Gorgogliò Chris con un ghigno divertito. Feci finta di tirargli un calcio e lui si portò le mani davanti al viso per parare il colpo. «Ehi! Che ho detto?» Chiese, ridendo.

«Idiota!» Esclamai con un mezzo sorriso, tornando a guardare l’interfono. «Fai la persona seria!»

Parole al vento.

Nemmeno un secondo dopo mi afferrò una caviglia e tirò verso di sé, col risultato che mi accasciai su di lui lasciando dieci strisce sulla superficie lucida della parete a cui cercai di aggrapparmi per non cadergli addosso. Sforzo inutile.

«Non sprecare le energie a urlargli contro. Fai come me, rilassati e aspetta. Anzi, parliamo, ho una discreta fame ed è meglio che mi distragga prima che ti-»

Non fu difficile seguire il corso dei suoi pensieri, né capire perché guardò i due sacchetti della spesa e poi me.

«Non ci pensare nemmeno. Non è una spesa da “rifornimento del frigorifero”.» Gli intimai, e lui tornò a guardare nella direzione della spesa. Gli afferrai il viso con una mano e lo riportai in linea col mio. L’accenno di barba sotto i polpastrelli era qualcosa di delizioso.

«Ah no? Devi preparare qualcosa?» Parlò con le guance strette tra le mie dita e la bocca arricciata, senza scomporsi minimamente. Poi sorrise sornione e sollevò un paio di volte le sopracciglia. «Cena galante?»

Alzai gli occhi al cielo e mollai la presa sul suo viso. «No.» La sua espressione interrogativa denotava l’attesa di una risposta da parte mia, che esitavo per non fare la figura dell’idiota come con Stephen.

Che figura vuoi fare più, dopo quella della stracciona e dell’impanicata complessata?

«Ho invitato i miei nipotini a cena, per guardare un nuovo cartone animato.» Mormorai, facendomi piccola piccola. Ma ero troppo vicino a lui per sperare che non avesse sentito.

«Wow, che bello! Che cartone?» Cosa?

Sollevai lo sguardo e constatai con somma sorpresa che il suo sorriso rispecchiava il tono allegro con cui aveva pronunciato quella frase.

«Monsters University.»

«Davvero? Ma non è ancora uscito!» Replicò sorpreso. Chissà perché lo facevo il tipo da cartoni animati.

«E io ce l’ho.» Dissi semplicemente. «Vuoi unirti a noi?» Proposi senza neanche rendermene conto. Era il minimo che potessi fare per ringraziarlo, dopotutto.

Di tanti momenti in cui sarebbe potuto succedere, scelse proprio quello. Il dannato tecnico dell’ascensore scelse proprio il momento adatto per far sentire la sua voce grossa.

«C’è qualcuno qui dentro?» La voce arrivò attutita, ma fu come se ce l’avessero urlato col megafono a un centimetro dall’orecchio.

«SÌ!» Urlammo in contemporanea, alzandoci di scatto. Ci spalmammo sulla porta per cercare di carpire ancora il meraviglioso suono della libertà.

«Bene, tra poco vi tireremo fuori! Mantenete la calma.»

A quelle parole scoppiai a ridere. Certo! Mantenete la calma.

«Mica ci sei tu qui dentro con una pazza schizofrenica senza cuore per gli affamati!» Esclamò Chris, beccandosi una sberla sulla spalla muscolosa per poi ridere con me.

«Ohhh-oh!» Lo scossone – l’ultimo, ma nessuno dei due lo sapeva – fu più violento dei precedenti, e quella volta lessi il panico anche nei suoi occhi.

«Fatevi indietro!» Sentimmo la voce del tizio un po’ più vicina e fui nuovamente avvolta dalle braccia di Chris, che si addossò alla parete dello specchio tenendomi contro di lui.

«Se dovessimo morire, dì alle tue sopracciglia che le ho amate con tutta me stessa.» Gli dissi, sollevando il viso per guardarlo negli occhi. Com’erano belli. Sorrise.

«Non possiamo morire, devo ancora farti vedere il Boston Light.» Sussurrò, e solo allora capii che era serio. «Una promessa è una promessa.»

Mi sciolsi.

Come il cuore di cioccolato di una pralina croccante.

«Ti caschino le sopracciglia se non lo fai.» Pigolai, con un dito per aria, facendolo ridere. «E sono stata buona.»

«Adesso apriamo le porte, non avvicinatevi!» Il tizio infilò una leva di acciaio nella fessura attraverso la quale filtrava un po’ di luce.

Immaginai la scena, immaginai cosa avrebbe pensato – chiunque fosse stato dall’altra parte – vedendo questa ragazza tuffata nel petto di un famoso attore, protetta dalle sue braccia e dalle sue mani, come se al posto della porta di un ascensore ci fosse stata una bomba pronta ad esplodere.

Uno stridio di metalli arrugginiti accompagnò l’apertura di un varco tra le porte, che attraversammo senza pensarci due volte. Chris mandò me avanti e mi fece seguito coi due sacchetti della spesa.

«Dovete scusarci per l’attesa e per lo spavento, provvederemo subito a sostituire i componenti guasti.» Disse il tecnico, a noi e all’amministratore dello stabile.

«Un interfono funzionante sarebbe gradito.» Borbottai, mentre mi avviavo verso le mie amate scale. Lui assicurò che avrebbe fatto un ottimo lavoro e io scossi la testa, avventandomi sulla prima rampa.

«Non ha capito che non userò mai più l’ascensore.» Bofonchiai tra me e me. Non mi ero accorta che Chris era due gradini più giù, e con una falcata mi raggiunse sorridendo.

«Come no? Dai, è stato divertente!» Sempre ottimista, sempre una schiera di denti perfetti da mostrare agli altri. «Ti aiuto, aspetta.» Riprese i sacchi ignorando le mie proteste e mi accompagnò fino al quinto piano.

Arrivati sul pianerottolo, inspirò a pieni polmoni, per poi espirare estasiato. «Finalmente niente puzza di gatti!»

Non potei fare a meno di ridere. Infilai la chiave nella toppa e aprii la porta, facendolo passare per posare la spesa in cucina. Sistemò i sacchetti sul tavolo e poi si lisciò la maglia, guardandomi in attesa di qualcosa.

«Allora, gr-»

 

6.     Se le cose, per un motivo sconosciuto, dovessero andar bene, ci sarà sempre qualcuno o qualcosa a interrompere ogni momento propizio per rendere quell’incontro significativo.

 

Quella volta, fu lo squillo del suo cellulare.

«Ah... devo rispondere.»

«Certo, certo. Vai, io... devo cucinare. Tra meno di due ore dovrà essere tutto pronto...» Lo accompagnai alla porta e lui dovette rispondere, così che mi interruppi senza rinnovargli l’invito a cena. Mi salutò con una carezza sulla spalla e poi con un cenno della mano, una volta sulle scale. Risposi con un gesto che voleva intendere un “Ci vediamo dopo?” e lui annuì distrattamente, sparendo sull’altra rampa.

«D’accordo. Come non detto.» Parlai da sola, mentre chiudevo la porta. Sbuffai sonoramente e, dopo aver lanciato un paio di cuscini del divano per aria, a mo’ di sfogo, ondeggiai verso i fornelli e mi rimboccai le maniche. Era proprio tardi, dannazione.

«Amanda versus Tempo: vediamo chi vince.»

 

***

 

Il campanello suonò esattamente un’ora e quarantasette minuti dopo, mentre stavo dando gli ultimi tocchi di mascara alle ciglia dell’occhio destro.

Il cuore mi rimbalzò contro la gabbia toracica come una pallina del Pinball, e mentre percorrevo il corridoio per andare ad aprire non potei trattenermi dall’immaginare la figura di Chris oltre la porta. Ci speravo ardentemente, lo ammetto. Ma...

«Zia Amyyyyyyyyy

Il piccolo Joseph mi si aggrappò al collo, come ogni volta, e io infilai il naso nella morbida curva del suo collo profumato, inspirandone l’odore di bambino che tanto amavo.

«Anche io, anche io!» Hannah provò a spingere via il fratellino che rispose avvinghiandosi ancora di più a me.

«Principessa! Vieni qui, c’è posto per tutti!» Allargai le braccia a conferma di quello che avevo detto, accogliendo anche lei. C’è posto anche per Chris!, avrei voluto urlare, ma tanto non mi avrebbe sentito.

«Bambini, salutate la mamma e poi tutti sul divano!» I due corsero ad abbracciare mia sorella e poi sgambettarono fino al soggiorno, dove si tuffarono sui pouf davanti alla televisione.

«Che profumino, quanta roba hai cucinato?» Mi chiese Janet allungando il collo per sbirciare oltre le mie spalle. «E come siamo belle, ma aspetti qualcuno?» Lo sguardo tornò su di me e si fece fin troppo indagatore.

«Cosa? No! Sono vestita come sempre, mi conosci... e tranquilla, ho cucinato tutte cose sane, non avranno incubi stanotte.» Ridacchiai, nervosissima, e la salutai con un abbraccio poco convinto prima di chiudere la porta e desiderare di sprofondare. Non volevo ammetterlo, ma avevo aumentato un po’ le porzioni nella speranza di aggiungere un posto a tavola. E mi ero messa leggermente in tiro, sempre nella speranza di rimediare alla vista del look disastroso di poche ore prima.

«Zia, vieniiii!» Strepitarono i due, richiamando la mia attenzione.

«Arrivo, arrivo!» Esclamai, e premetti il tasto Play mentre recuperavo le ciotole di popcorn dal tavolo. Le distribuii ai bambini e sprofondai nel divano con un sospiro e la mia bella ciotola king size in grembo, pronta ad affogare i miei dispiaceri e le mie sfortune nei chicchi di mais scoppiati. Avrei voluto farli caramellati, ma non erano adatti per la visione di un film, specialmente prima di tutti gli sfizi salati che avevo preparato per cena.

«Comincia!» Esclamai eccitata quando comparve il logo della Pixar, e decisi di concentrarmi sul cartone una volta per tutte.

 

***

 

«Ahh, che sonno...» Bofonchiò Hannah, spalmandosi sul divano con la faccia tra due cuscini. Mi stropicciai gli occhi facendo attenzione a non toccare il trucco e sbadigliai vistosamente. Guardai l’ora: erano le nove e dieci.

«Bambini...» Incalzai, ma non riuscii a continuare: Joseph si era addormentato sul pouf, in una posizione non troppo comoda con la boccuccia aperta e le braccia spalancate; anche Hannah sembrava sulla strada giusta per raggiungerlo nel mondo dei sogni. Sorrisi, guardando quello spettacolo dolcissimo. Presi Joseph tra le braccia e lo portai nella stanza degli ospiti, sistemandolo nel letto dopo avergli tolto le scarpe.

«Tesoro...» Sussurrai ad Hannah, che stava sonnecchiando. Lei mugolò qualcosa che mi fece ridacchiare. «Ce la fai ad alzarti per andare a letto o ti ci porto io?» Un altro mugolio. Avevo capito l’antifona. Presi di peso anche lei – pesava decisamente di più, povera schiena mia – e la misi a letto accanto al fratellino. Diedi un bacio sulla fronte a entrambi e ciondolai in cucina, cercando il cellulare per avvertire Janet. Le mandai un sms veloce e, tra uno sbuffo e l’altro, sistemai il cibo rimasto e lavai le poche stoviglie sporche.

Non avevo sonno, naturalmente. La noia fa brutti scherzi, si sa, e perciò tirai fuori il dolce dal frigorifero. Raccolsi col dito una scia di briciole – residui delle fette che avevano divorato le due piccole pesti – e le portai alla bocca, sentendomi subito meglio. Era venuto davvero buono. Tagliai un triangolino, non troppo grande per non esagerare, e afferrai il telecomando. Non c’era nulla di interessante, a una prima occhiata veloce. Bevvi un po’ d’acqua e lanciai uno sguardo di sbieco al dolce.

Va bene, un altro po’ non mi farà male, su.

Dopo qualche minuto di auto convincimento, tagliai un’altra fetta di pan di spagna e la mangiucchiai distrattamente, mentre continuavo a fare zapping. Finalmente beccai qualcosa di interessante, o almeno di compagnia: la replica di una puntata di Plain Jane. Ciabattai fino al divano e mi lasciai cadere sulla pelle beige, allungando le gambe sul pouf davanti a me. Me la ricordavo, quella biondina con gli occhiali a cui piaceva un ragazzo davvero carino. La trasformazione finale, tra trucco e parrucco, era stata sorprendente.

#Dlin-dlon#

«Questa è Janet che non ha letto il messaggio ed è venuta a prendere i bambini.» Mormorai tra me, mentre andavo ad aprire la porta. Avrei dovuto chiamarla, quella non li leggeva mai i messaggi, con la mania di mettere il cellulare in modalità “vibrazione”…

«Ciao.»

Bzz-bzz-bzzz. Fine delle trasmissioni.

Non so dire per quanto tempo restai imbambolata a fissarlo. Di certo non mi aspettavo che fosse lui. Ero talmente concentrata a guardare lo splendido guardaroba di Louise Roe – maledetta – che Chris era passato quasi completamente in secondo piano.

«Scusa il ritardo, ho dovuto sbrigare delle commissioni per mia sorella, e…»

«Entra…» Mi spostai con un sorriso e lui si fece avanti, guardandosi intorno curioso.

«Quello non è Monsters University.» Disse, commentando un primo piano di Louise. Alzai gli occhi al cielo.

«Certo che non lo è, è finito da un bel po’.» Lo informai, pacata. «Molto carino, tanto quanto il primo.» Commentai con un sorriso. Chris aggrottò le sopracciglia e arricciò le labbra in una smorfia corrucciata.

«Uffa, lo rimetti?»

«No, perché dovrei rimetterlo?»

«Perché lo voglio vedere.» Sorrise come se avesse avuto il doppio dei suoi denti.

«Stai scherzando.»

«No. Rimettilo. Vedere.» A ogni parola fece un passo verso di me, fino ad abbassarsi per piazzarsi davanti al mio viso con un sorrisetto irriverente e il trionfo nello sguardo.

Ah-ha, non mi freghi con quegli occhi.

Camminai fino al mobile della tv e tirai fuori il disco dal lettore, inserendolo nella custodia. Poi tornai da lui, allungandoglielo sotto il suo sguardo stupito. «Questo è il dvd, te lo presto a patto che me lo restituisci prima di partire.»

Eccolo lì, Mr Sopracciglio! Ciao! «Chi ti dice che io debba partire?»

Feci spallucce, che domande ovvie. «Non ci sei mai qui.»

«Magari resto.» Piccolo battito fuori posto, cercai di non perdere la regolarità del respiro.

«Non ti servirebbe comunque un dvd già visto, quindi dovrai rendermelo.» Dissi, con sempre meno sicurezza.

«È una scusa per rivedermi?» Nice and naughty, l’avevo detto o non l’avevo detto?

«No, puoi anche lasciarlo sotto la porta.» Ormai era una battaglia personale, non potevo farci nulla. Certo che era una scusa per rivederlo!

Chris mi scrutò per qualche secondo e poi afferrò il dvd dalla mia mano. Annuì lentamente. «Uhm. Okay. Allora ciao.»

Che stronzo!

Con una grande risata interiore lo vidi sgambettare fino alla porta. Spostò il disco tra due dita per poter abbassare la maniglia con altre due, perché la mano sinistra era occupata. Colsi la palla al balzo.

«E quella bottiglia di vino?» Domandai, innocente, poggiandomi al muro.

«Questa?» Alzò la mano che la reggeva e fece spallucce. «Ah… non è nulla! Vado sempre in giro con una bottiglia di vino in mano, non lo sai?» Cercò invano – o nemmeno tanto invano, forse – di nascondere un sorriso. La mano abbandonò la maniglia della porta.

«No, non lo sapevo.» Mi mordicchiai piano il labbro inferiore, sentendo una strana atmosfera diffondersi nella stanza.

«Ne vuoi un po’?»

«Magari.»

 

***

 

«Sì, come quella volta in cui mi hanno chiesto chi fosse il cattivo nel sequel de “I fantastici quattro” e non ho saputo rispondere! C’ero anch’io in quel film e non ho saputo rispondere, capisci?!» Ero ormai piegata sul divano, coi crampi alla pancia per le troppe risate. Ricordavo quell’intervista, era una delle mie preferite.

«Chissà cos’hai in questa testa bacata!» Bussai sulla sua testa, le nostre risate si confondevano. Eravamo seduti sul divano a parlare, l’uno davanti all’altra, da quasi un’ora, ormai, e la bottiglia di vino giaceva vuota e sconsolata sul tavolo. Gli avevo fatto assaggiare il mio pan di spagna al cioccolato e caramello, che mi era valso il titolo di migliore pasticcera di sua conoscenza.

«Qualcosa di buono c’è, altrimenti non sarei così affascinante.» Replicò, quando le risate andarono a scemare. La mia mano era ancora sui suoi capelli. Erano soffici. Volevo giocarci ancora un po’.

«Hai ragione.» Feci scorrere lo sguardo sulla sua figura, stretta in una camicia azzurra e un paio di jeans chiari. Le nostre gambe erano vicine, si sfioravano per tutta la lunghezza dal ginocchio in giù. «Dì la verità, lo fai apposta a dimenticare le cose, così puoi sfoderare la tua espressione da cucciolo con le tue dannatissime sopracciglia, per farti coccolare…» Lo canzonai, ritirando la mano dai suoi capelli.

«Quale espressione? Questa?» E la fece, proprio come in quell’intervista. Il viso leggermente abbassato, gli occhi dolci e le sopracciglia sollevate al centro, ci mancava solo il labbrino e stavamo a posto.

«…sì.» Mormorai in un soffio, completamente ipnotizzata dal suo viso. Era così surreale averlo lì, a pochi centimetri da me, di nuovo. Con quella sua faccia adorabile ed erotica al tempo stesso. Dio, avevo bevuto troppo. Non bevevo mai.

Quando sollevai lo sguardo dalle sue labbra e scoprii lui a fare altrettanto, capii che quello non era un momento che si sarebbe creato di nuovo.

Dai, Amanda. Fallo. Lo sanno tutti che vuoi baciarlo. Lo sa anche lui. Fallo e basta.

«Zia…»

 

7.     Quel qualcuno o qualcosa che interromperà il momento propizio, probabilmente sarà vostro nipote, a cui non potrete urlare contro né bestemmiare né desiderare di ucciderlo.

 

Chris si voltò per primo verso il corridoio, incrociando sorpreso lo sguardo di Joseph, che stava ciondolando a piedi nudi verso di noi.

«Amore, ti abbiamo svegliato?» Mi alzai, mio malgrado, scavalcando le gambe di Chris per raggiungere mio nipote e prenderlo in braccio. Joseph annuì contro la mia spalla, dicendo che ridevamo troppo. Guardai Chris che sorrise dispiaciuto.

Qualche istante dopo, Joseph sollevò il viso dalla mia spalla e fissò coi suoi occhioni enormi il ragazzo seduto sul divano. Lo raggiunsi, facendolo sedere sulle mie ginocchia.

«Ma... ma...» Adesso stava osservando Chris con gli occhi sbarrati, sbattendo le palpebre incredulo. «Tu... sei... Capitan America?» La sua bocca stava per sfiorare il suolo.

«Ti piace Capitan America?» Gli chiese dolce Chris, e Joseph annuì.

Non ci avevo pensato, in effetti. Joseph, nonostante la giovanissima età, andava pazzo per i supereroi Marvel, aveva visto tutti i loro film – proprio come sua zia, che amore! – ed era particolarmente affezionato a Thor e Captain America.

«Allora qualche volta ti insegno qualche mossa, ti va?» Joseph rispose affermativamente e poi mi guardò, portandosi le mani alla bocca, estasiato. «Però adesso devi tornare a dormire, perché è tardi anche per un supereroe come te.» Gli sfiorò la punta del naso col dito e lui ridacchiò. «Su, da bravo. Buonanotte, campione.» Chris chiuse la mano a pugno e la rivolse verso di lui, che capì subito e lo imitò, battendolo contro il suo.

«Zia, mi accompagni?»

«Certo, cucciolo. Andiamo.» Mi tirai su un po’ barcollante e Jo si accoccolò sulla mia spalla, salutando Chris con la mano. Lui ricambiò con un gran sorriso.

«Torno subito.» Sussurrai.

«Io vado un momento in bagno, se mi dici dov’è.» Annuii e gli indicai la porta giusta – fiera di me per aver lasciato quella stanza immacolata – per poi rimettere Joseph a letto.

«Zia?» Mormorò, dopo aver sbadigliato. «Capitan America è il tuo fidanzato?»

Ridacchiai a quella domanda e scossi la testa. Ahimè no, Joseph. «No, tesoro. È soltanto un amico. Ora dormi, d’accordo?» Fortunatamente non fece altre domande e si accoccolò con le mani sotto il viso. Gli diedi un bacio sulla guancia e mi alzai. Chris mi aspettava in corridoio, in linea con la porta della stanza ma non troppo vicino da distrarre Joseph.

Andai incontro al suo sorriso con un po’ di imbarazzo. «Tuo nipote è dolcissimo. Adoro i bambini.» Disse, camminando verso il salotto. «Mi dispiace non avere con me qualche gadget del film, li ho tutti nell’appartamento a Los Angeles…» Scosse la testa, sembrava davvero dispiaciuto.

Ridacchiai, pensando a ciò che gli aveva detto. «Che mosse vuoi insegnargli, per curiosità? Capitan America non ha mica delle mosse.» E soprattutto, quando vuoi insegnargliele? Non fare promesse che non puoi mantenere.

Chris schiuse la bocca, quasi offeso. «Non è vero, ce le ha le mosse! Con lo scudo!» Replicò, mimando il lancio dello scudo come se fosse un boomerang. Mi guardò con un’espressione talmente comica che mi venne voglia di abbracciarlo. Arrivati al divano, si voltò per appoggiarsi allo schienale, io ero davanti a lui. «E poi ha anche un’altra mossa segreta.» Aggiunse, sussurrando. Il cuore mi salì in gola. Si era ricreata di nuovo quell’atmosfera.

«Ah sì? E qual è?» Mormorai con un filo di voce, avanzando fino a sfiorare la punta delle sue scarpe con le mie. Il mio stomaco era un groviglio di emozioni, la testa leggera come una piuma.

«Questa.» Disse, e portò le sue mani sul mio viso, attirandomi a sé. Quando le nostre labbra si congiunsero, chiusi gli occhi, saggiandone la morbidezza. Chris mi baciò dolcemente, facendo scorrere una mano dietro la nuca per avvicinarmi ancora. Fu perfetto. Soprattutto perché non dovetti preoccuparmi dei capelli, freschi di shampoo, o dei vestiti, eleganti e puliti. Il mio Carpe Diem si era ripresentato, avevo avuto una seconda chance. Gli morsi il labbro inferiore e sorrisi al gemito di risposta. Circondai il suo collo con le braccia e tuffai di nuovo le dita tra i suoi capelli, mentre lui mi stringeva i fianchi per far aderire i nostri corpi. Quando ci separammo, col fiato corto, mi incantai a guardare i suoi occhi.

«Ottima mossa, Capitano.» Sussurrai contro le sue labbra, prima di vederle curvarsi in un sorriso mozzafiato e chiudersi nuovamente sulle mie. Ridemmo a bassa voce, mentre urtammo contro un muro, una porta, indietreggiando nel corridoio per raggiungere la mia stanza senza dividere le nostre labbra.

Ed è col sorriso sulle labbra che ci svegliammo la mattina seguente.

 

8.     Chris Evans fa l’amore da Dio.

 

 

 

 

 

~ Note

Ciao a tutti!

È la prima volta che pubblico in questa sezione – spero la prima di una lunga serie! – e sono, come per ogni debutto, un po’ emozionata.

Che dire? L’ispirazione per questa storia è arrivata spulciando tra i contest ormai scaduti sul forum di Efp, e cioè questo. La citazione che trovate all’inizio della storia e ripresa anche nel corso della stessa, invece, è proprietà di @comunemente_io.

Chris Evans purtroppo appartiene a se stesso, ma sto lavorando affinché possa acquisire questo copyright :D (Magari!)

Ci tengo a dire, infine, che Joseph è liberamente ispirato a mia sorella, che a soli cinque anni mi implorava di metterle Thor e adesso che ne ha sei la becco spesso e volentieri a guardare The Avengers sul tablet. Li ama, letteralmente. E come biasimarla?

Beh, dato a Cesare quel che è di Cesare, spero che – se siete arrivati fin qui – abbiate un minutino di tempo per farmi sapere se vi è piaciuto questo piccolo delirio! Surreale? Forse. Ogni tanto ci è concesso di sognare. ;)

Io vi saluto con un abbraccio caloroso – che con questo freddo non guasta mai – e vi lascio il link del mio gruppo su Facebook, dove, tra le altre cose, ci sono i link di alcune storie natalizie dedicate anche ad alcuni attori di questo fandom.

 

Alla prossima,

Sara.

 

   
 
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