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Autore: Belarus    27/12/2012    2 recensioni
«Era come se quello stupido vinofilo gli stesse dando mentalmente dell’idiota, rigirando con irritante lentezza una ciliegia tra i polpastrelli.»
[Terza classificata e vincitrice del premio Boreale al "Worldwide contest" indetto da Yuki_ sul forum di EFP e giudicato da sulfuslove]
[Terza classificata al contest " La bellezza delle Edite" indetto da Noal sul forum di EFP].
{FrUk parce que oui}.
Baci Belarus
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: From Paris avec amour
Genere: Romantico.
Avvertimenti: Nessuno.
Raiting: Arancione.
Personaggi: Francis Bonnefoy/France; Arthur Kirkland/England.
Note': La storia è stata creata per il Worldwide contest indetto da Yuki_ sul forum di EFP e giudicato da sulfuslove.
Paese scelto: Francia.
Pietanza: Il Clafoutis è un dolce tradizionale francese cotto al forno composto da ciliegie nere annegate in una pasta simile a quella delle crêpes. Esistono molte varianti, con diversi tipi di frutta, pere, mele, albicocche, pesche, mirabelles ed altri, anche con aggiunta di frutta secca. Presenti anche varianti salate.
Colonna sonora: Moi... Lolita - Alizée
Le restanti note - ovvero quelle tecniche - sono presenti a piè di pagina.


From Paris avec amour – Da Parigi con amore



Nel religioso silenzio della Basilica del Sacro Cuore i suoi pensieri parvero tonare come bombardamenti. Si scoprì improvvisamente a disagio nell’osservare i lineamenti tanto femminili della giovane di cui restava ormai solamente una statua. L’armatura riprodotta su quel piedistallo brillò di un’oscura luce incandescente, mentre i raggi del sole del mattino la illuminavano dal rosone nella navata opposta. La fredda bocca granitica parve piegarsi in un sorriso di pietà verso l’uomo che l’aveva consegnata alla morte. Arthur strinse i pugni tremanti ricordando il vero sorriso che la giovane gli aveva rivolto quel giorno, al tempo aveva riso per quel triste epilogo.
<< Jeanne D’Arc… >> sussurrò con costrizione, in una lingua che non era la sua.
In quelle poche notti in cui non sognava, il suo inconscio si faceva carico di fiumi di sangue versati per battaglie ormai lontane nella memoria. Quando ad affollare la sua mente non erano battaglie, il rogo di Giovanna D’Arco ne prendeva il posto e impotente come quel lontano giorno, lui si trasformava nella Nazione più ignobile che il mondo avesse mai ospitato. Vedeva la ragazza sorridergli fiduciosa, come se lui, armato di tutto punto, in quegli istanti non fosse il nemico, ma una semplice anima perduta in chissà quale turpe pensiero.
Passi leggiadri risuonarono alle sue spalle, profumo di rose investì l’intera Basilica, il rosone lanciò un ultimo lampo di luce biancastra negli occhi spenti della Pulzella di Francia. Arthur si volse indietro a osservare l’uomo racchiuso nella sua eccentrica uniforme avanzare sicuro verso di lui. Quel lontano giorno, Francis Bonnefoy alla vista del fuoco, si era rivelato la belva peggiore che l’inglese avesse mai affrontato.
<< Non sono venuto per litigare. >> annunciò Arthur quando lui fu abbastanza vicino da udirlo.
Non aveva nulla, o quasi tutto, contro Francis. Tuttavia era ben cosciente di quanto le capacità dell’altro raggiungessero limiti invalicabili innanzi agli occhi di quella giovane, statua o donna che fosse. Francia si lasciò sfuggire un’occhiata triste alla vista dell’inerme forma di granito, puntò nuovamente gli occhi su Arthur ed espose il solito sorriso.
<< Lo so, altrimenti non saresti ici, Angleterre. >>


Scese i logori gradini che conducevano all’interno della Basilica e si fermò per qualche istante a osservare il belvedere. Nella sua scalata alla cima di Montmartre, Arthur non aveva ritenuto opportuno guardare Parigi. Non gli piaceva la città, non gli piaceva quella città, le persone che la abitavano e il terreno su cui stava tenendo i piedi. Eppure vederla da lì, dispiegata nella sua miriade di colori, gli diede l’impressione di qualcosa di straordinario e fastidioso al tempo stesso. Gli parve di vedere l’enorme volto eccentrico di Francis delinearsi nei colori degli edifici, nelle grigie strade che la attraversavano, nelle piccole chiazze di verde disseminate ovunque. Le sopracciglia vibrarono pericolosamente, quando la mano dell’interessato si posò con fermezza sulle sue spalle e il volto reale sbucò da dietro le sue orecchie, smagliante come sempre.
<< Devo farti vedere una cosa! >> se lo trascinò dietro senza che Arthur avesse il tempo di aggrapparsi a una qualsiasi cosa.
Maledisse il corrimano dell’enorme scalinata chiara e le colonne della Basilica per la loro posizione, se solo fossero state più vicine avrebbe potuto salvarsi da quel dannato vinofilo. Attraversarono la minuscola via che serpeggiava alle spalle della struttura, manifesti con milioni di stampe e balconi dai toni pastello gli invasero ben presto la vista, costringendolo a dimenticare quella dell’apparente lontana città. Vide la stradina sparire alle sue spalle, migliaia di suoni parvero accoglierlo in un altro mondo, una minuscola targa dipinta sulla facciata di una casa recava il nome del luogo in cui Francis lo aveva condotto. Place du tertre la conosceva già, ne aveva largamente sentito parlare in molti caffè di Londra o in qualsiasi altro luogo avesse mai visitato. Anni prima, Parigi era stata la capitale degli artisti di tutto il mondo.
Francis lo prese per mano trascinandolo verso la famosa piazzetta. Alcuni uomini innanzi a un minuscolo locale suonavano violini e flauti, dilettando una coppia di turisti provenienti da chissà quale paese. Arthur li osservò con attenzione sperando che non fossero inglesi. Un bambino dall’aria impaziente reggeva la mano di un vecchio zoppicante, il volto imbrattato di zucchero a velo. Le chiome di alcuni alberi si fecero largo fra gli edifici rivelando al di sotto delle loro ombre milioni di tele dai colori sgargianti.
<< Non è meraviglioso?! >> cinguettò entusiasta Francis, mentre alcune donne dalle gonne spropositate si esibivano in miagolii eccitati verso di lui.
<< C’è troppa gente ammassata in uno spazio troppo piccolo, temo… >> suggerì vagamente acido, esibendosi in una smorfia.
<< … e non viviamo più nell’epoca degli Impressionisti, nel caso tu non te ne fossi accorto! >> concluse divertito dalla propria beccata.
Francis parve percorso da una scossa, l’espressione di giubilo si trasformò ben presto in qualcosa d’indecifrabile. Le mani del biondo finirono per poggiarsi sulle spalle di Arthur che riluttante fu costretto a fissare gli occhi blu dell’altro. Tutta quella vicinanza, parve dargli alla testa.
<< Sai Angleterre, al mondo esistono tante cose belle, ma tu saresti capace di criticarle tutte! >> lo sgridò con il tono suadente.
<< Io critico ciò che c’è da criticare! So godermi anch’io le cose belle, quando lo sono davvero… >> lo beccò nuovamente.
<< Allora ti farò vedere una cosa meravigliosa! >> lo tirò per la giacca grigia, nuovamente eccitato.
Scivolarono malamente fra alcune tele, una tavolozza cadde rovinosamente sui pantaloni opachi di Arthur imbrattandoli di ogni probabile tonalità di giallo e rosso. Un ragazzo da un balcone salutò Francis con enfasi, il portone dell’edificio si aprì e Arthur fu costretto a salire in fretta i gradini della stretta scala che conduceva al piano superiore, pur di non ruzzolare sotto la spinta del francese. Il legno sotto i suoi piedi scricchiolò pericolosamente producendo suoni sinistri al suo passaggio, una flebile canzone francese risuonò per le minuscole stanze della casa attraverso una vecchia radio dall’aria malconcia.
“ Moi m’appelle Lolita… “
La minuscola sala che si presentò ai loro occhi era avvolta da un fastidioso pulviscolo causato dalla troppa polvere, o con molta più probabilità, dalla sigaretta accesa del giovane che vi stava seduto in mezzo.
Le tapparelle alla finestra erano state appena chiuse, il suono dei violini al ristorante di fronte parve ormai lontano. Non vi era nessun mobilio, fatta eccezione per un logoro divano dall’aria sin troppo vissuta, riposto malamente in un angolo buio. Francis emise un gridolino estasiato, scuotendolo per la giacca.
<< Si può sapere perché mi hai trascinato qui sopra?! >> domandò irritato, scostando con astio la mano dell’altro.
<< Guarda l’arte! >> annunciò riuscendo a stento a trattenersi dall’urlare di gioia. Arthur si guardò attorno e fu solo allora che vide davvero il concetto, sin troppo ovvio, che aveva Francis Bonnefoy per “ arte”.
Il giovane, una macchia bluastra sulla guancia, teneva la sigaretta stretta tra le labbra mentre le mani sapienti cercavano il pennello adatto per proseguire con la propria opera. Poggiato al basso tavolinetto se ne stava la tela quasi completa, le campiture decise dai toni chiari, tracciavano le forme sensuali della donna accanto al pittore. Il corpo nudo pareva scosso da quel minuscolo rivolo d’aria proveniente dalla finestra semi aperta, le gambe appena piegate. Aveva capelli raccolti in alto, l’aria disinvolta e quasi annoiata, il rossetto di un’indicibile tonalità rossastra spiccava sulle labbra sottili.
<< Alors?! >> domandò Francis, mentre la giovane li scrutava dal pavimento di legno.
<< Bonjour... >> salutò il pittore con un lieve sorriso, tornando a sedersi innanzi alla propria tela.
Le sopracciglia di Arthur si piegarono sino a unirsi, le vene sulla fronte e sul collo si gonfiarono per il nervosismo, il cuore parve per qualche istante soppiantare la voce ammaliante della ragazza alla radio.
“Quand fourche ma langue, j'ai là un fou rire aussi fou. Qu'un phénomène Je m'appelle Lolita “
Le unghie si conficcarono nei palmi delle mani, la cravatta d’un tratto divenne troppo stretta per esser soltanto tollerata. Cercò invano di allentarla, prima che Francia lo scuotesse dal suo improvviso torpore.
<< Dovremmo provare anche noi! Louis mi presterà una tela e dei pennelli, no Louis?! >> propose convinto.
<< Oui, Monsieur France! >> il giovane annuì felice, sorridendo alla tela.
<< Incroyable! Spogliati tu Angleterre, io sono più bravo con i pennelli! >> Arthur fu percorso da un brivido.
Quella frase era la peggior frase che avesse mai sentito uscire dalle labbra di Francis.
<< Angleterre, non fare il timido, su! >> le mani lo arpionarono com’era accaduto anni prima.
Ricordava ancora con terrore la sensazione provata quando Francis aveva deciso di indire le nuove Olimpiadi. Erano stati giorni, mesi, anni orribili quelli.
Cercò di rimanere calmo, per quanto la vista delle mani di Francis che sbottonavano la sua giacca di tweed lo stesse facendo morire sul colpo.
<< Angleterre! Non dovresti vestirti così, questo sacco da patate non ti rende giustizia! >> semmai avesse avuto dei dubbi in quell’attimo, Francis li aveva cancellati del tutto.
Non solo stava cercando di denudarlo con quella sua tipica espressione da depravato dipinta a chiare lettere in volto, ma aveva persino l’ardire di insultare il suo modo “ composto e serio “ di vestire.
<< You! >> tonò liberandosi con un movimento scomposto, della propria giacca.
La stava sacrificando per la vita, di quello era certo.
<< Angleterre! >> la voce di Francis s’incrinò pericolosamente.
La giovane seduta per terra perse la propria posa e osservò i due sulla soglia della sala, il pittore poco distante lasciò cadere malamente una goccia di viola sul legno scuro.
<< Non provare a trascinarmi in queste tue follie da depravato! >> gli puntò il dito malfermo contro, salutando con un breve cenno del capo i due e sparendo giù per le scale.
Sapeva che sarebbe finita in chissà quale bettola con Francis che lo incitava a spogliarsi o far cose poco caste e raccomandabili. Lo aveva saputo sin da quando aveva messo piede in territorio francese, ma il volto di granito della giovane uccisa decenni prima lo aveva distolto dai propri pensieri. Era stato costretto ad abbassare la guardia dalla sua stessa coscienza, era finito nei vicoli degli Impressionisti a scrutare tele di pittori che non avevano più il talento di un tempo. Si era ritrovato in un mondo che era ormai passato, ma che Francis continuava magicamente a tenere in vita con le sue fantasie da folle, ma quello non era comunque tollerabile.
Scivolò oltre il portone, udendo i passi affrettati di Francis alle sue spalle. Le tele lo macchiarono nuovamente, disegnando opere astratte sulla camicia bianca. L’ombra degli alberi scomparve insieme al suono dei violini, le stampe svanirono lentamente dai muri degli edifici, la cupola appuntita della Basilica del Sacro Cuore tornò a disegnarsi al di sopra dei toni pastello che lo avevano accompagnato a Place du tertre. Parigi e l’intera collina di Montmartre apparvero inevitabilmente ai suoi piedi, paradossalmente troppo grigi rispetto a tutto il colore di quella viuzza. Il vecchio con il bambino accanto lo osservò preoccupato, domandò qualcosa, ma non ottenne risposta.
<< Angleterre! >> lo chiamò Francis comparso ansante dietro al colonnato.
Le campane del Sacro Cuore tuonarono sulle loro teste, echeggiando fra le strade della città, richiamando i pensieri a qualcosa che non aveva nulla di perverso. Altri uomini uscirono dalla stradina i sorrisi estasiati dipinti sulle labbra profumate di zucchero e vino.
<< Non mi farò dipingere nudo! Scordatelo vinofilo! >> ringhiò isterico scendendo di corsa la gradinata chiara.
<< Dove vai? >> gli urlò dietro Francis dalla cima della collina.
Arthur non rispose, intento com’era a non ruzzolare giù per quella miriade di gradini si sarebbe stupito del contrario. Alcune donne con dei mantelli rossi lo osservarono curiose, le campane tacquero quando lui svanì alle spalle di una siepe di rose rosse che impediva la vista della gradinata.
Francis si scostò una ciocca bionda sfuggita a causa del vento di quella mattina, sospirò rassegnato scuotendo la testa. Certe cose spaventavano Arthur più di qualsiasi dichiarazione di guerra, questo Francis lo sapeva bene. Lanciò un’occhiata alla statua di Jeanne in sella al suo grigio cavallo inanimato, sorrise divertito mentre il sole picchiava ormai alto sull’elmo appuntito della bionda francese.
<< Spera di nascondersi da me… nella mia città?! >> le domandò divertito.
Non attese alcuna risposta, non l’avrebbe avuta di quello era certo. Scese con calma i gradini del colonnato, attraversò una piccola folla di credenti venuti a pregare per la sua Jeanne e percorse con calma la discesa verso le strade di Montmartre. Minuscoli lampioncini in stile Art Nouveau parvero disporsi come soldatini lungo i lati della scalinata, gli alberi coprirono la vista dei palazzi ormai moderni. La giostra di Montmartre suonò la propria melodia trasportando bambini sognanti fra le sue luci brillanti. I cavalli colorati danzarono in aria sorretti da minuscole colonnine tortili passanti per le selle. Il proprietario si esibì in un goffo inchino mentre una donna accompagnava il figlio su di un cavallo dal manto pezzato.
Scese gli ultimi gradini della scalata alla Basilica e si guardò attorno curioso. La zona in cui l’inglese si era cacciato non era di certo nota per la sua buona condotta, c’era solo da domandarsi in quale dei poco casti locali e bar il biondo si era andato ad intrufolare. Francis sorrise divertito, Arthur si sarebbe ritrovato fra donne e uomini seminudi nel giro di pochi minuti, doveva sbrigarsi per godersi lo spettacolo. Le pale del Moulin Rouge svettarono fra i tetti delle case con i loro giardini pensili.


Svoltarono per Rue Saint Honoré, quando era ormai buio. Arthur continuava imperterrito a trascinare i piedi, il viso basso celato tra le scatole e la sciarpa a fantasia scozzese. Se fosse stato un tipo da lamentele, avrebbe detto di aver fame, sonno, freddo e di sentirsi terribilmente a disagio. Rimase in silenzio mentre camminavano lungo il marciapiede desolato, fra portoni in stile parigino e auto costose dalle carrozzerie brillanti. Gettò uno sguardo a Francis che fischiettava piano accanto a lui.
Avrebbe dovuto ringraziarlo probabilmente per averlo tirato fuori dal locale che alla fine si era rivelato un night. Quando era entrato lì, non aveva idea di cosa stesse facendo, ma dopo qualche alcolico preso al bar e parecchi approcci indesiderati aveva intuito la gravità della situazione. Si era sentito umiliato per la risata che il francese gli aveva rivolto quando erano usciti dal locale, non era stato per niente divertente trovarsi lì. Odiava quella città e odiava Francia per averlo convinto a mangiare in quello stupido ristorante delle ignobili pietanze francesi.
<< Entra! >> sussurrò Francis quando furono innanzi al ristorante.
Il proprietario era stato talmente onorato della visita di Francis da lasciare il locale imbandito come fosse festa. Le luci erano quasi tutte spente, fatta eccezione per quelle della cucina e alcuni faretti innanzi alle vetrine. Quando il francese ebbe acceso quelle accanto ai tavoli, Arthur sgranò gli occhi estasiato. Era sempre stato restio nell’accettare quel popolo di romanticoni, ma doveva pur confessare a se stesso quanto fossero bravi ad agghindare qualsiasi cosa.
I tavoli di legno di betulla chiaro erano probabilmente riciclati da chissà quale falegname, semplici nella loro fattura erano privi di qualsiasi fronzolo. Erano stati apparecchiati con vasi di fiori freschi e argenteria lucente, ognuno possedeva dei fiori diversi e altrettanti stili seppur perfettamente armonizzati tra loro. I lampadari dalle forme semplici, emettevano una flebile luce soffusa dal tono caldo, illuminando l’enorme tavolo da buffè stracolmo di qualsiasi tipologia di cibo. C’erano torte salate, pane aromatizzato agli agrumi, frutta fresca, soufflé ai boccioli di lavanda, quenelle ghiacciate di ginepro e mirto, crostate ai lamponi e fragole, muffin al cioccolato fondente e mandorle e una varietà sconsiderata di rose e gardenie. Arthur osservò impressionato la quantità di cibo semplicemente esposta, ritrovandosi poco dopo a curiosare sul menù redatto sull’enorme lavagna nera appesa alla parete del locale. Si chiese come facessero i cuochi a inventare tante varietà e variazioni di una medesima pietanza, tentò di contare le varie tipologie di crêpes, ma abbandonò presto l’impresa.
<< Vieni Angleterre! >> lo chiamò Francis.
Arthur non si era neanche accorto di come il francese fosse sparito nella parte opposta del locale, lo trovò mentre armeggiava con una padella, facendo girare un impasto dorato con la sola forza del polso.
Aveva legato i capelli in uno chignon basso, il grembiule da chef legato alla vita con un fiocco. Lo vide poggiare la padella e impugnare una frusta da cucina, sottobraccio quasi fosse un bambino, reggeva una voluminosa ciotola d’acciaio lucidato. All’interno dovevano esserci state uova e zucchero, nonostante in quel momento esistesse solo un composto spumoso dal colore pastello capace di raddoppiare di volume a ogni singolo colpo di frusta. Lo vide setacciare la farina e mescolarla al composto, una terrina da cucina giaceva imburrata sull’enorme tavolo di legno invecchiato su cui Francis aveva sparso gli ingredienti. Lo vide intingere il dito nel composto e leccarlo con perizia. La lingua sibilò tra le labbra morbide, una punta di giallo profumato. Arthur sentì lo stomaco accartocciarsi, si dimenò un po’ sulla sedia. Era tutta colpa della fame e di Francis, ovviamente.
Non aveva idea di cosa stesse combinando, ma le ciliegie poggiate all’interno della pirofila rilasciavano un profumo inebriante.
Quando finalmente ebbe finito, il dolce andò in forno. Rimase a fissarlo per qualche istante, mentre Francis afferrava una ciliegia nera da una ciotola e la mangiava, il volto poggiato mollemente sul palmo della mano.
<< Fate i pancake in forno? >> domandò dopo un po’.
Il biondo lo fissò con scetticismo, con quell’espressione tanto odiata dall’inglese. Era come se quello stupido vinofilo gli stesse dando mentalmente dell’idiota, rigirando con irritante lentezza una ciliegia tra i polpastrelli. Si lasciò sfuggire un sospiro di compassione, prima di poggiare i gomiti al tavolo di legno ruvido.
Si protese appena in avanti, il viso d’un tratto vicino all’altro. Il calore del suo respiro, scaldò appena il viso congestionato di Arthur.
<< Non vedo perché dovrei fare i pancake. >> sussurrò indispettito.
Arthur non si stupì più di tanto. Francis aveva un ego smisurato e un’opinione di sé anche superiore.
<< Si chiama clafoutis Angleterre... >>
Lo disse con un tono per niente incoraggiante, almeno non per Arthur che ebbe l’impressione di avvampare quando la ciliegia che aveva visto finirgli in bocca ne uscì completamente ripulita sulla punta della lingua. Cercò di tirarsi indietro, ma lo sgabello su cui aveva deciso di sedere non era per niente intenzionato a spostarsi. Spinse il capo lontano dal tavolo, mentre Francis sogghignava malizioso.
<< Dovresti assaggiarne una, le hanno portate questa mattina da Limoges… si sciolgono in bocca! >>
Si chiese se stessero ancora parlando del dolce o di chissà quale altra perversione venuta in mente a quel depravato. Avrebbe preferito del tè con biscotti, ma fu costretto ad afferrare una delle ciliegie dalla ciotola da cui continuava a pescare il francese. Quando ne assaggiò una, la polpa nera si sciolse al calore della sua lingua, sentì chiaramente una piccola quantità di succo scivolargli lungo la gola.
Passarono parecchi minuti finendo la ciotola di ciliegie, fra gli sguardi maliziosi di Francis e il profumo del clafoutis in forno. Arthur non riuscì a rilassarsi neanche un istante, intento com’era a tener d’occhio il francese dalla parte opposta del tavolo.
Era ben consapevole di quanto fosse pericoloso restare in compagnia di Francis senza nessuno attorno. Era andato in Francia senza un motivo preciso, si erano incontrati quasi per caso e adesso si ritrovavano in un ristorante vuoto, dentro una cucina vuota, con uno stupido dolce in mezzo. Sarebbe degenerato tutto, era solo questione di tempo. Arthur percepiva chiaramente i muscoli delle gambe contratti, le braccia pronte a scattare in un qualsiasi istante, lo stomaco ingarbugliarsi a ogni occhiata di troppo dell’altro.
<< Questo è meglio dei pancake, oui?! >> sussurrò Francis, mentre Arthur ne assaggiava una fetta.
Sì, era notevolmente meglio di qualsiasi altro pancake avesse mai mangiato in vita sua. La pasta era soffice, dolce quanto bastava e talmente profumata da confonderlo. Provava un’innata intolleranza verso quel paese di fanatici, ma doveva ammettere – almeno nella sua coscienza – quanto fossero terribilmente bravi nel rendere buona qualsiasi cosa.
Socchiuse gli occhi mentre un filo di fumo fuoriusciva dal dolce, non si accorse neanche di Francis che gli si avvicinava. Quando ebbe inghiottito il dolce, si ritrovò con le labbra premute contro quelle dell’altro.
Provò a ribellarsi, riuscì persino ad allontanarlo per qualche istante, ma Francis sapeva essere talmente insistente…
<< Sei un maledetto depravato! >> ringhiò con scarso vigore, mentre il francese gli leccava il collo.
Gli mollò una botta nello stomaco quando l’altro ridacchiò caldo al suo orecchio, il cavallo dei pantaloni improvvisamente troppo stretto strusciò contro il legno ruvido. Si ritrovò improvvisamente a baciarlo ancora, con falso disgusto, lamentandosi ogni tanto per la subdola lentezza con cui Francis giocava con lui.
Avrebbe dovuto picchiarlo, rinchiuderlo in un qualche centro di rieducazione e sradicare da quella terra tutte le perverse sciocchezze che Francis vi aveva inculcato. Avrebbe dovuto tenerlo lontano, evitare di andare in quella stupida chiesa a pregare per una donna morta da tanti, troppi, anni che lui stesso aveva mandato al rogo. Avrebbe dovuto prendere il primo volo per Londra, invece che rifugiarsi in un locale a luci rosse nel quartiere di Montmartre. Non sarebbe dovuto entrare in quel ristorante con tutte quelle stupide, dannatissime, ciliegie.
<< Questo paese è maledetto! >> borbottò angosciato.
Le mani di Francis sfiorarono melliflue la cintura dei suoi pantaloni in tweed grigio. Gli occhi blu, lo scrutarono con malizia, perversione e cattiveria.
<< Voi inglesi dovreste imparare a lamentarvi di meno… >>


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Note dell'autrice:
- "Jeanne d'Arc" : corrispettivo francese per Giovanna D'Arco. La sua statua è posta all'interno della Basilica del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre{Basilique du Sacré Coeur de Montmartre} e all'esterno della stessa dove indossa l'armatura. Il riferimento agli adepti con i mantelli rossi, allude ad una delle molte confraternite che frequentano la zona.
- "ici" : corrispettivo francese per "qui".
- " Moi m'apelle Lolita" ovvero " Il mio nome è Lolita" titolo dell'omonima canzone di Alizée. " Alors?!" ovv. "Allora?!" ; "Incroyable" " Incredibile" ;
" Quand fourche ma langue, j'ai là un fou rire aussi fou. Qu'un phénomène, je m'appelle Lolita " " Quando biforco la lingua, mi viene da ridere a crepapelle. Come un fenomeno, mi chiamo Lolita".



  
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