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Autore: Milla Chan    27/12/2012    2 recensioni
[ Quinto episodio della serie di Buret ]
Stava prendendo veramente coscienza di sé, dopo così tanti secoli.
Sentiva di essere prima di tutto una persona, un essere non proprio umano ma con gli stessi identici bisogni, paure e motivi di gioia.
Nel suo fastidioso vincolo indotto dall’essere una provincia, uno stato dipendente, avrebbe dovuto solamente osservare ed annuire.
Ma lui, che aveva vissuto l’ascesa del grande regno di Danimarca e il suo crollo, sentendosi risucchiare, aveva combattuto contro se stesso e contro tutti gli altri in maniera assoluta. Gli era rimasto vicino, sempre, dopo tutto quello che gli aveva fatto e che non aveva ancora dimenticato, inciso a fuoco sul cuore.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Danimarca, Islanda, Norvegia
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Vores historie.'
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Nota:
Questo è il quinto episodio della serie Vores Historie.
Se non avete letto le altre storie, difficilmente capirete il senso di questa.
Buona lettura!

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Era convinto che oltre lo specchio ci fosse un mondo bellissimo.
Non era propriamente opposto a quello in cui stavano vivendo loro, ma sicuramente aveva delle differenze sostanziali e importanti.
Brillante, trasparente e quasi perfetto, probabilmente. Gli sembrava di conoscerlo alla perfezione ed era come ascoltare una lunga melodia nostalgica che proprio non riusciva a togliersi dalla testa.
Non c’erano rimpianti o malinconia, le mani non erano state usate per altro scopo se non per carezze gentili.
Nessun’anima era stata sfregiata, l’unico rosso vermiglio era quello delle rose e il solo dolore quello di un bambino che cadeva spelandosi le ginocchia.
Un luogo pieno di persone di cui era così tanto invidioso da sentire una terrificante sensazione di oppressione.
Era sicuro che, se mai fosse riuscito ad andarci, là dentro, sarebbe riuscito a perdersi.
Forse avrebbe potuto chiamarla dimensione sublime, o qualcosa del genere.
 
Lukas stava in piedi, il petto nudo e asciutto.
Teneva gli occhi fissi nello specchio, sul taglio rosso e profondo lungo tutto il fianco.
Si chiedeva insistentemente perché Berwald avesse invaso quei territori, i suoi territori, se sapeva cosa ciò stesse comportando per il suo corpo, per il suo orgoglio e, soprattutto, se gli sarebbe importato.
Detestava essere considerato come una terra di conquista, una provincia, un territorio ed era esattamente questo che lo terrorizzava della sua condizione.
Passò le dita fredde sul ventre, pensieroso, fermandosi quando si avvicinò  troppo alla pelle aperta e sentendo un bruciore tale da fargli allontanare violentemente la mano con un lamento.
Non gli sembrava reale e sapeva che avrebbe ricordato quel giorno come la seconda volta nella sua vita in cui si era sentito veramente ferito, dentro e fuori, la fiducia bruciata e la cenere lanciata al vento.
 
Immerso nelle sue riflessioni, sussultò quando la porta si dischiuse con un cigolio.
Rimase immobile e sbarrò gli occhi vedendo riflessa nello specchio la figura di un incubo antico, che ancora gli aleggiava nella mente.
 
-Mathias?- sussurrò a fatica, guardandolo avvicinarsi serio finché si fermò a pochi centimetri dalla sua schiena nuda.
 
-Va tutto bene?- chiese con calma, cogliendo subito il suo cenno affermativo con il capo.

Mathias abbassò lo sguardo e si accigliò.
Le fasce erano sparse per terra, impregnate di medicamenti inutili e sangue.

-... Hai le mani sporche.- mormorò paziente, allungando le dita e sfiorando piano le sue, rosse e viscose.
 
Lukas socchiuse la bocca, vergognandosi e rimanendo in silenzio.
Il boato, il rumore delle armature e dei cavalli inquieti continuavano a riempirgli le orecchie. Sentiva i passi di tutti gli uomini sulle sue terre, le urla rimbombargli in testa e avrebbe voluto fermarli tutti, subito, in qualche modo.
Non riusciva a concentrarsi.
 
-Posso abbracciarti?- chiese cauto Danimarca, diviso da lui da una cortina invisibile e sottilissima.
 
Era come se avessero sviluppato un modo di porsi speciale, da usare tra di loro. Una forma di paura e amore reciproco.
C’erano terrore, risentimento e rancore riflessi nei loro sguardi ma, entrambi lo sapevano senza che nessuno di loro due avesse mai aperto bocca, c’era qualcosa che li legava, li rendeva inscindibili e strettissimi; qualcosa che andava ben oltre un semplice rapporto politico e raggiungeva livelli sconosciuti, astratti e intangibili. Era spaventoso, spaventoso e incantevole.

Norvegia annuì appena, rimanendo con gli occhi bloccati sullo specchio e vedendosi stringere attorno al petto senza forza.
Finché non udì il battito forte del cuore dell’uomo contro la schiena, pensò di essere soltanto lo spettatore di quella scena bellissima.
Alzò un braccio e appoggiò la mano sulla superficie lucida davanti a sé, un tocco tanto dolce che era un peccato fosse rivolto a qualcosa di inanimato.
Sembrava voler accarezzare e immortalare nella mente quello scorcio di amore che gli era così lontano e vicino, così reale, concreto ma falsato dal dolore.
Dall’altra parte, nella dimensione sublime, due persone si amavano senza alcun timore, piene di ricordi splendidi.
Una naturalezza fastidiosa gli gridava di essere felice, perché assomigliavano così tanto a loro che avrebbe davvero potuto pensare che fossero reali.
Eppure, il cuore rimaneva stretto in una morsa e le braccia non sapevano dove appoggiarsi.
Una parte di sé non trovava giusto tutto quell’affetto. Era come se qualcosa in lui dovesse rifiutarlo, anche se il bisogno di sentirlo era nettamente più forte.

A quel punto si rese veramente conto di non poter attraversare lo specchio e dar vita a tutte le sue ambizioni.
 
Lui desiderava molto, sapeva quanto fosse pretenzioso pensare ancora di riavere tutto ciò che si era sgretolato con il tempo, senza la possibilità di essere fermato.
Voleva  la sua famiglia, come tanti anni fa, voleva qualcosa che non poteva più tornare.
Voleva che Eirik fosse ancora un bambino tenuto al sicuro, inconsapevole di ciò che sarebbe potuto succedere e di ciò che era già successo. Rivoleva Berwald e Tino in quella casa.
E, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto che niente di ciò che era successo con Mathias fosse accaduto realmente.
Un danese sorridente e a cui dare dell’idiota era un ricordo così lontano da sembrare irreale; era incantevole ma tutto si era strappato e spezzato come una foglia secca sotto i piedi.
Non era riuscito ad aiutare Danimarca, a fermarlo in tempo, l’aveva visto scivolare in quel pozzo indefinibile e ne stava subendo gli strascichi.
Non era riuscito a tenerli tutti uniti, non era riuscito a conservare il candore di un bambino quanto avrebbe voluto e niente era più come prima.
A quel punto sembrava non essere rimasto più niente, oltre alle crepe sui muri e l’odore di chiuso nelle stanze.
 
Stava prendendo veramente coscienza di sé, dopo così tanti secoli.
Sentiva di essere prima di tutto una persona, un essere non proprio umano ma con gli stessi identici bisogni, paure e motivi di gioia.
Nel suo fastidioso vincolo indotto dall’essere una provincia, uno stato dipendente, avrebbe dovuto solamente osservare ed annuire.
Ma lui, che aveva vissuto l’ascesa del grande regno di Danimarca e il suo crollo, sentendosi risucchiare, aveva combattuto contro se stesso e contro tutti gli altri in maniera assoluta. Gli era rimasto vicino, sempre, dopo tutto quello che gli aveva fatto e che non aveva ancora dimenticato, inciso a fuoco sul cuore.
Eppure sentiva una tale rabbia, sotto tutta quella tristezza, una tale vergogna per quello che non era riuscito a fare e per amare ancora chi gli aveva fatto tanto male, chi ora lo stringeva come se fosse stato utile a tener lontano i pericoli, a sfumare l’angoscia.
 
Sentì la ferita andare a fuoco e le gambe per un attimo sembrarono cedere sotto il suo peso e il fardello di tutti i suoi pensieri.
Ritrasse velocemente la mano dallo specchiò e la portò a stringere il fianco, credendo che forse sarebbe stato in grado di rimarginarlo solamente toccandolo, mentre invece tutto in lui finì per concentrarsi su quel male feroce, ignorando tutto quel sangue che ormai non lo spaventava più.
 
Mathias trattenne il respiro, colto di sorpresa, sorreggendolo e sentendosi così dannatamente inutile, consapevole che niente sarebbe riuscito ad alleviare le sue fitte, che non poteva evitare di vederlo, furioso e ferito, mentre sopportava quel tormento e strappava le bende con cui tentavano di curarlo.
Lukas, sdegnato, diceva che non servivano a niente.
 
Fece scivolare le mani sulle sue braccia, stringendogli forte le dita tremanti premute sul fianco, che aveva ricominciato a perdere sangue senza preavviso.
Sembrava così insensata, quella ferita.
Non sapevano quando o quanto avrebbe sanguinato, quando avrebbe smesso, quando avrebbe fatto più male o quando sarebbe sembrato un semplice taglio, nonostante semplice non fosse affatto la parola adatta.
Sapeva che lui si fidava di Berwald. Dal suo punto di vista affettivo, personale, emotivo. Lo considerava un fratello e il fatto che avesse invaso le sue terre probabilmente era stato spaventoso, per la sua coscienza.
 
Guardò addolorato il suo viso statico che nascondeva le smorfie di dolore, i lineamenti pacati che si tradivano, fremendo irrequieti.
Il picchiettare del sangue per terra era assordante ma Lukas non distoglieva lo sguardo dallo specchio, immobile e impietrito.
Mathias tremò rendendosi conto di quanto fosse forte l’odio che gli montò dentro in quel momento, così caldo e urlante.
Sentiva il bisogno di non lasciarlo mai più andare, Norvegia, di proteggerlo a qualsiasi costo.

-Lukas.- gli sussurrò all’orecchio, avvolgendolo con un po’ più di vigore e cercando di bilanciare la propria rabbia. –... Si pentirà di tutto, te lo prometto.-
 
Norvegia strinse i pugni. Inspirò profondamente, gonfiando il petto e sentendo un raccapricciante contrasto tra la ferita pulsante e il sollievo nel sentire che le braccia di Mathias non sembravano aver intenzione di allontanarsi.
La sensazione di essere importante dava un tale sollievo che quasi riusciva a sentirsi leggero.
 
In quei momenti sapeva perché non lo aveva lasciato e perché non sarebbe mai riuscito a farlo davvero, per quanto il suo popolo potesse pensare il contrario, perché l’odio di chi ama non dura mai a lungo.
 
-Sei il mio sole, Lukas.-
 
Sentì il cuore battere più forte e capì che sarebbe stato impossibile, per lui, essere felice nel suo tanto agognato mondo oltre lo specchio, se non ci fosse stato Mathias con lui.
Non importava quanti dolori o guerre avrebbero dovuto affrontare, la dimensione sublime era uno stato di coscienza che avrebbe dovuto creare lui stesso, costruendolo come un castello.
Un passo dopo l’altro, cercando la luce per entrambi perché, no, lui non si sentiva affatto un sole.
Non irradiava e gli sembrava che non ci fosse neanche una parvenza di luminosità o di chiarore nella sua anima.
 
Strinse forte le sue braccia con le proprie, le mani scivolose per il sangue che, ormai ne era sicuro, era disposto a versare per loro.



 
Con l’orecchio appoggiato alla porta, Eirik ascoltava silenzioso, degli stracci candidi stretti al petto e il respiro ridotto al minimo, sia per non perdersi neanche una lettera di ciò che stavano dicendo, sia per la paura di essere scoperto che gli mozzava il fiato.

Il problema era che da un po’ quei due parlavano così poco che sembrava tanto inutile starsene lì e sperare di sentire qualcosa di straordinario.

Tuttavia, aveva imparato un insegnamento importante, che subito aveva messo le radici nella sua testa, destinato a non spegnersi mai: chi si capisce senza bisogno di parlare non deve essere perduto.
Gli sembrava così affascinante l’idea di comunicare con così poche parole e si chiedeva come due persone potessero far percepire a chi stesse intorno a loro una vibrazione così suggestiva, un flusso che era mutato nel tempo, distorcendosi fino a sembrare stabile.
Era come se si intendessero solamente guardandosi e non capiva se ciò lo spaventasse o lo incuriosisse, se fosse propriamente un bene o se fosse dannoso.
Tutto era cambiato talmente tanto e in modo tanto profondo, pur rimanendo per certi versi immutato, da non riuscire a concepire il confine tra pazzia collettiva e risanamento.
 
Trasalì, udendo i passi avvicinarsi alla porta.
Sbarrò gli occhioni viola e arretrò velocemente, fino ad appoggiarsi al muro dietro di sé, tentando di assumere un’aria indifferente mentre il cuore gli scoppiava nel petto.
Quando Mathias uscì dalla stanza, lo sguardo del bambino fu catturato dalle mani rosse e non riuscì a tendergli subito gli stracci per permettergli di pulirsi, sentendo piuttosto l’impulso di indietreggiare ancora, nonostante fosse impossibile.
Abbassò lo sguardo, turbato, deglutendo mentre Danimarca si inginocchiava davanti a lui e passava le mani su un panno bianco, tingendolo con strisce cremisi come se fosse del tutto normale.
-Grazie.- gli sussurrò l’uomo con un sorriso dolce, fissando con un velo di inquietudine i suoi occhi in tumulto, cercando di capire cosa ci fosse di sbagliato.
-Come sta Nore?- chiese il bambino, insicuro ma curioso, cercando di tranquillizzarsi perché Danimarca non aveva di certo fatto del male a suo fratello.
Non quel giorno, perlomeno.

Sapeva che Norvegia stava male, l’aveva visto quando aveva sussultato, si era piegato in due con un gemito, una fitta improvvisa e insopportabile, le braccia strette attorno alla vita e la stoffa inspiegabilmente bagnata di rosso.

Lui portava le bende e gli stracci e si sentiva superfluo.

-Meglio non parlarne.- rispose l’uomo dopo un momento di esitazione, tentando di non sembrare troppo intenso.
 
Islanda si rabbuiò.
Non era più così piccolo da giustificare il fatto che qualcuno gli nascondesse situazioni scomode.
I secoli erano stati tanto spaventosi da lasciargli il ghiaccio dentro e un’infanzia stroncata da terrore, ansia e sangue non aveva potuto fare altro che renderlo pragmatico, così realista, mentre la fantasia di quando saltava sui letti era volata via come gli uccelli in inverno.
-Non dovresti farti problemi a dirmi certe cose- disse a mezza voce Eirik, gli occhi svuotati all’improvviso. –Credo di aver visto di peggio.-
Il volto di Danimarca sembrò cedere al panico, scacciò dalla testa ogni scena atroce che gli sorrideva beffarda e rimase senza parole.
Islanda fissò immobile gli occhi blu spalancati che lo osservavano allibiti.
Sospirò e lasciò i cenci ormai stropicciati e sporchi tra le sue mani, sgusciando via con lentezza.
 
Lasciò Mathias lì in mezzo, a guardare il muro che si stava scrostando, con la sensazione di aver sbagliato tutto.
Quando l’impulso di fermarlo riuscì a farlo alzare in piedi, Eirik era già sparito e sentiva solo i passi lontani che echeggiavano.
Spostò lo sguardo dal corridoio vuoto allo straccio tra le mani, rimuginando su tutto ciò che stava succedendo, a quanto quel bambino, il suo bambino, fosse cresciuto e quanto lo spaventasse l’idea di una tale maturità in un corpo così piccolo. Si sentì male realizzando di esserne la causa.
Rivide il volto rigido di Lukas davanti agli occhi e tutto quel dolore celato con un autocontrollo agghiacciante.
Si sentì in debito, si sentì in bisogno di tenerli, finalmente, davvero al sicuro, perché erano tutto ciò che aveva.

Strinse forte lo straccio mentre un pensiero trasparente e chiaro prendeva forma nella sua mente.

Niente avrebbe mai più fatto loro del male.
 
Niente gli avrebbe impedito di dichiarare guerra.
 


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Angolo autrice.
Eccomi finalmente arrivata!
Spero abbiate passato un buon Natale e ne approfitto per fare gli auguri a tutte. :3
Dopo un lungo e doloroso lavoro, finalmente è nato anche questo seguito...
Siamo attorno all’anno 1611, dopo varie tensioni e scaramucce tra Danimarca e Svezia, quest’ultima ha invaso la Norvegia. Questa è stata probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che scatenerà la guerra di Kalmar.
Veramente, scriverla è stato un parto e avevo un’ansia pazzesca tipo ansia da prestazione...
Quindi spero che vi sia piaciuta e che vi abbia soddisfatto.
Grazie mille per averla letta e un ringraziamento speciale a ViolaNera per avermela betata. Sei stata davvero dolce, ecco. <3
Un bacio a tutte, al prossimo episodio! <3


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